LA FUSIONE NUCLEARE PER NON INIZIATI Conversazione
fra Romano Rinaldi e Gianluca Spizzo*
La notizia del recente
esperimento di fusione nucleare sostenuta per un tempo non istantaneo (5
secondi) nel laboratorio europeo del reattore JET (Joint European Torus) a
Culham, vicino Oxford, in Inghilterra, diffusa il 9 e 10 febbraio in tutto il
mondo, ha suscitato grande interesse scientifico e mediatico ed ha inaspettatamente
dotato di un carattere “profetico” l’articolo di “Odissea” del 21 gennaio (1). Per i lettori di “Odissea” ho incontrato
Gianluca Spizzo, uno dei ricercatori italiani del Consiglio Nazionale delle
Ricerche (CNR) impegnati nella ricerca e sviluppo delle metodologie fisiche e
matematiche tese a raggiungere, attraverso questi esperimenti, un traguardo che
ha dell’incredibile; la produzione di enormi quantità di energia riproducendo
sulla Terra una reazione simile a quelle che avvengono nel Sole. Si tratta
della reazione di fusione di nuclei di “idrogeno” (in effetti i due isotopi:
deuterio e trizio) per dare origine al gas nobile elio (Helios = Sole) con
l’espulsione di un neutrone e il rilascio di una grande quantità di energia
nucleare sotto forma di calore. A differenza delle reazioni chimiche, che
avvengono tra gli elettroni e sono attivate dalle energie che si sviluppano tra
i legami interatomici (formazione e trasformazione di molecole e composti), le
reazioni nucleari avvengono tra neutroni e protoni che sono legati tra di loro
da forze enormemente superiori e le trasformazioni che si attuano sono
trasmutazioni di elementi in altri elementi, proprio come è avvenuto nella
formazione dell’Universo e (in una certa misura) continua ad avvenire nelle
stelle. [R. R.] Rinaldi. Quali sono le differenze concettuali tra la fissione (il processo che
utilizzano le attuali centrali nucleari per la produzione di energia elettrica)
e la fusione nucleare? Per quanto ne so io, nelle prime si
utilizza un materiale fissile, un isotopo radioattivo dell’uranio (uranio 235)
che, fabbricato in barre poste in determinate condizioni di confinamento, danno
l’avvio alla “reazione a catena” una volta raggiunta la “massa critica”. A quel
punto si può controllare la reazione in modo da mantenere costante la
produzione di neutroni (e di calore). Se si lascia proseguire la reazione,
questa si autoalimenta e tutto il materiale fissile fonde producendo una
situazione infernale: il famoso “melt-down” della “Sindrome Cinese” ovvero
quello che è avvenuto nel disastro nucleare di Chernobyl. Non è una esplosione
nucleare ma è un “incendio” esplosivo di materiale altamente radioattivo che
nulla riesce a spegnere. Spizzo. Proprio così;
viceversa, la reazione di fusione nucleare, per esempio quella tra deuterio (2H,
1 protone + 1 neutrone) e trizio (3H, 1 protone + 2 neutroni) che si
utilizza negli esperimenti come JET, porta alla formazione di un nucleo di elio
(He, 2 protoni + 2 neutroni) e l’emissione di un neutrone (particella neutra).
Nessuno dei due prodotti della reazione è radioattivo. Ai ragazzi delle scuole
che vengono in visita al nostro laboratorio del Consorzio RFX, a Padova,
scherzando io dico che con il prodotto della fusione, l’elio, possono gonfiare
i palloncini delle feste di compleanno. È una battuta ma come tutte le battute,
diceva Oscar Wilde, ha un fondo di verità. Un altro grande vantaggio della fusione è che un reattore a fusione non potrà
mai esplodere, come Chernobyl. Un vecchio “padre” della fusione, l’ingegnere
inglese John D. Lawson, scoprì nel 1961 un criterio che porta il suo nome. Se
per qualsiasi motivo la temperatura all’interno del reattore a fusione dovesse
superare il limite stabilito da quel criterio, la reazione automaticamente si
spegnerebbe. Insomma, un reattore a fusione è intrinsecamente sicuro, come se
avesse una specie di “airbag” incorporato. E questo semplifica molto il
progetto di un reattore a fusione per quanto riguarda l’aspetto sicurezza. Il
terzo vantaggio sta nel fatto che una reazione di fusione produce una quantità
di energia cinque volte superiore a quella della fissione, a parità di massa.
In sostanza, un reattore a fusione ha bisogno di una quantità incredibilmente
piccola di “combustibile” per funzionare. Nella “pancia” del grande reattore in
costruzione nel sud della Francia, entrerà l’equivalente in deuterio di due
fialette di acqua pesante (ossido di deuterio, vedi figura). Per paragone, la
stessa quantità di energia viene prodotta da un quintale di carbone. Pensate la
differenza in termini di inquinamento!
R. Perché si parla di “plasma” (un
termine usato in ematologia) nel caso della fusione nucleare? La durata di soli
5 secondi è davvero un traguardo importante? Perché?
S. La fusione per innescarsi ha bisogno di
temperature elevatissime: questo è il prezzo da pagare per avere una fonte di
energia pulita, sicura e inesauribile. Si parla di temperature pari a 100
milioni di gradi. L’idrogeno, e i suoi isotopi, che sono dei gas, a quelle
temperature subiscono una trasformazione che li porta a un “quarto stato” della
materia, chiamato “plasma”. “Plasma” è un termine che fu coniato dal fisico
americano Irving Langmuir per descrivere l’aspetto di un gas ionizzato dentro i
tubi da scarica in quarzo, chiamati “tubi di Crookes”, che erano molto studiati
all’inizio del 1900. Non c’entra nulla con il “plasma” in medicina! Il plasma
dei gas è abbastanza comune in natura: sono fatti di plasma i fulmini, gli
archi delle saldatrici, le aurore boreali, e ovviamente c’è plasma sul Sole,
che noi moderni alchimisti cerchiamo di riprodurre sulla terra. Un plasma, date
le temperature “stellari”, nel vero senso della parola, non può essere confinato
in nessun contenitore materiale. Furono gli scienziati russi per primi a capire
che si poteva utilizzare un campo magnetico per imbrigliare questa materia
incandescente che, essendo composta di particelle cariche (ioni ed elettroni),
risente fortemente dei campi elettromagnetici. Chiamarono questa bottiglia
magnetica a forma di ciambella vuota “Tokamak”: TOroidalnaya KAmera MAKina,
macchina a camera toroidale. I principali esperimenti attuali di fusione, JET (Joint
European Torus) in Inghilterra e ITER (International Thermonuclear Experimental
Reactor), in costruzione nel sud della Francia (ne parliamo dopo), sono basati
sul principio del Tokamak. L’idea è geniale, perché anche il plasma del Sole è
imbrigliato alla superficie da campi magnetici, ma gran parte del lavoro viene
fatto da una potentissima forza di gravità. Cosa che purtroppo manca nel plasma
terrestre; noi dobbiamo fare tutto col campo magnetico del Tokamak, il che
complica tremendamente le cose. La durata di “soli” 5 secondi dell’esperimento
potrebbe apparire irrisoria ma non lo è affatto se si pensa alle velocità
tipiche delle particelle che compongono il plasma. Un nucleo di deuterio alla
temperatura tipica di JET impiega qualche microsecondo, vale a dire un
milionesimo di secondo, per fare un giro completo del toro, cioè della
ciambella. In 5 secondi il deuterio fa 2 milioni di giri dentro la ciambella,
il che è incredibile! Quindi 5 secondi è un tempo più che sufficiente per
dimostrare che il processo è sostenibile in linea di principio. La breve durata
è principalmente dovuta al materiale (rame) col quale sono costruite le spire
dei magneti. Altri materiali hanno caratteristiche elettriche molto più efficienti:
sono i cosiddetti “superconduttori” che, operando a bassa temperatura, promettono
di superare questa limitazione. Per inciso, la maggiore azienda per la
produzione di bobine super-conduttrici è italiana, ASG Supeconductors, di
Genova. È là che viene fabbricata una parte delle bobine superconduttrici di
ITER.
R. Quali e quante “scorie” radioattive
sono prodotte dal processo di fusione nucleare e dagli apparati necessari alla
sua realizzazione? C’è il rischio dell’uso delle scorie per armi nucleari?
S. Una reazione di fusione produce, oltre
all’elio che rimane “imbrigliato” nel campo magnetico del reattore, anche
neutroni ad alta energia; sono i neutroni che trasportano circa l’80%
dell’energia della reazione. Nel progetto del reattore a fusione, i neutroni
depositano la loro energia come calore in un mantello (il cosiddetto “blanket”)
che circonda il plasma. Qui avviene l’estrazione del calore attraverso un
circuito di raffreddamento (ad acqua o altro fluido) che rappresenta il
circuito primario della futura centrale elettrica. Insomma, alla fine di tutto,
la fusione è la moderna interpretazione di una macchina a vapore! È pur vero
che i neutroni, nel loro “viaggio” verso l’esterno (non possono essere
trattenuti dal campo magnetico!), possono cambiare le proprietà delle strutture
metalliche del reattore; questo fenomeno viene chiamato attivazione neutronica. Si tratta di una forma di radioattività
cosiddetta “secondaria” (quindi non prodotta da scorie della reazione) e
di vita piuttosto breve a seconda dei materiali, da qualche giorno ad un
massimo di pochi decenni. Nulla a che vedere col materiale fissile utile per la
produzione di armi nucleari! È da sottolineare poi che la radioattività
riguarda componenti interni del reattore, cioè camera da vuoto, blanket
e prima parete, che sono elementi completamente schermati dall’esterno. Il
rischio di contaminazione all’esterno, di fughe di materiale radioattivo, come
a Fukushima, è inesistente. Infatti, in caso di malfunzione, non è possibile
che le strutture interne della macchina fondano anche in caso di perdita totale
di refrigerante. Non è necessario quindi un sistema di emergenza per il
raffreddamento, come avviene nelle centrali nucleari a fissione.
R.Quali tempi sono prevedibili per lo
sviluppo della tecnologia industriale della fusione nucleare per la produzione
di energia elettrica? Quali i principali ostacoli da superare?
S. Fabio
Pistella, ex direttore dell’ENEA, nonché uno dei padri della fusione in Italia,
ama paragonare il progresso della fusione al programma spaziale, piuttosto che
agli analoghi esperimenti della fisica delle particelle, come avviene al CERN
di Ginevra. Nell’esplorazione spaziale ci sono state varie tappe: i lanci
sub-orbitali poi quelli orbitali, poi lo sbarco sulla Luna, più recentemente lo
Space Shuttle e la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e si pensa nel futuro
di raggiungere Marte con sosta preventiva sulla Luna. Così il progresso nella
fusione nucleare, partito nel 1959 con la conferenza di Ginevra “Atomi per la Pace”,
ha avuto varie tappe. Il progetto europeo JET è una tappa importante, come pure
l’esperimento di produzione di energia da fusione fatto recentemente su JET con
una miscela di deuterio e trizio, e con una nuova parete in tungsteno. Questo
esperimento ha fornito le indicazioni necessarie alla prossima realizzazione di
un nuovo e più potente reattore molto più grande e che sfrutta le proprietà dei
superconduttori (a bassissima temperatura) e che sarà un’ulteriore tappa verso la
futura centrale elettrica a fusione nucleare, cioè il “Marte” di questo
programma. Questa “tappa” è attualmente in costruzione a Cadarache, in Provenza
col nome di Progetto ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor). ITER
sarà il primo esperimento tokamak con tutti i componenti del futuro reattore a
fusione nucleare per la generazione di energia. Opererà stabilmente con
deuterio e trizio, avrà un “blanket” per il raffreddamento dei neutroni,
un sistema di rimozione delle cosiddette “ceneri” di elio (chiamato
“divertore”), e tutti i sistemi di controllo e di sicurezza necessari in una
futura centrale per la produzione di energia elettrica. ITER è un progetto
internazionale che fa capo a un consorzio di sette “nazioni” (Cina, EU,
Giappone, India, S. Corea, Russia, USA), e che rappresenta più della metà della
popolazione mondiale. Secondo queste tappe, la produzione di energia elettrica
dovrebbe avvenire dal 2050 in poi. All’interno di questo percorso, sono poi
previste delle tappe intermedie volte a studiare aspetti specifici, per esempio
il divertore, oppure aspetti di fisica teorica da approfondire, come la
turbolenza magnetica e le particelle veloci. Queste tappe intermedie sono
complessivamente designate come “broaderapproach” (approccio
ampio) nel programma della fusione, e sono ugualmente importanti. Nella fisica,
come nella vita, i piccoli passi contano come e più dei grandi “balzi” in
avanti.
R. Quali materie prime e in quale
quantità rappresentano risorse non rinnovabili nella tecnologia della fusione
nucleare?
S. Il deuterio
si ricava dall’acqua marina: in 50 litri di acqua ci sono poco meno di 2 g di
deuterio, quindi, possiamo affermare che i depositi potenziali di deuterio
siano di fatto infiniti. Per quanto riguarda il trizio, non verrà introdotto dall’esterno
dentro il reattore ma verrà autoprodotto nella camera da vuoto dal
bombardamento neutronico del litio contenuto nei moduli del “blanket”,
secondo un processo di co-generazione che in fisica nucleare è denominato “breeding”.
Quindi il litio costituisce, assieme al deuterio, la materia prima delle
centrali a fusione. Per una centrale da 1 giga-Watt elettrico il bisogno di
litio sarà di circa 30/70 t per anno. Le disponibilità di litio terrestre sono
abbondanti. Inoltre, il litio è presente nella misura di 0.1 mg/litro
nell’acqua di mare, per cui si può concludere che le riserve di combustibile
per la fusione siano di fatto illimitate. R. Potrebbe, da sola, la tecnologia della
fusione nucleare sopperire al fabbisogno energetico nazionale o del mondo
intero?
S. È difficile
rispondere a una domanda del genere, perché dipende dall’evoluzione della
tecnologia. Sicuramente potrà dare un contributo fondamentale all’abbattimento
delle emissioni di CO2 nella seconda metà del secolo.
R. Quale impatto ambientale può
determinare un impianto a fusione nucleare ed il reperimento dei materiali per
la costruzione dell’impianto e per la produzione di energia? S. Su questo mi trovi impreparato.
R. Visto che qui ti dichiari impreparato,
proverò io a fornire qualche indicazione. La costruzione di qualsiasi centrale
elettrica di una certa importanza, comporta la disponibilità di un’area più o
meno delle stesse dimensioni. Quindi l’impatto sul territorio è ormai ben noto.
Poi si dovranno considerare i materiali da impiegare, a partire dal cemento che
a sua volta richiede cave di pietra calcarea e lavorazione a caldo che consuma
energia ed attualmente produce una notevole quantità di CO2. Vanno
poi chiaramente aggiunti i metalli e i materiali, a partire dall’acciaio e
tutti gli altri che vanno nei componenti tecnologici delle macchine e degli
strumenti. Anche in questo caso non ci si discosta granché da altri tipi di
installazioni ad alto contenuto tecnologico. Poi ci sono i prodotti “di
consumo” e fino ai combustibili veri e propri di cui si è già detto. Si può
solo sperare che la non pericolosità intrinseca dell’impianto e la mancanza di
emissioni nocive possano inibire, almeno in parte, la sindrome “nimby”
ma su questo aspetto è praticamente impossibile definire un parametro di
accettabilità generalizzato. Adesso ti faccio un’altra domanda. Qual è la “resa
energetica” del “combustibile” usato nella fusione nucleare rispetto ai
tradizionali combustibili fossili?
S. Una
fialetta di deuterio fornisce la stessa energia di due ettolitri di nafta o di
un quintale di carbone. E non produce CO2!
R. Infatti, nell’esperimento
condotto con JET, due decimillesimi di grammo di “combustibile” hanno prodotto
l’energia che si ottiene con 2 kg di gas. Il rapporto tra le masse in gioco è
di 1 su dieci milioni. Per metterla “in soldoni” è la differenza che c’è tra il
costo di un caffè (1€) e quello di un palazzo di 12 piani su una base di 400mq
(a 2.000 €/mq). Ora proviamo a riassumere gli ultimi due
aspetti che mi preme affrontare in questa conversazione. Qual è l’impegno
dell’Italia (personale e risorse economiche) dedicato al progetto? Quali
competenze scientifiche sono necessarie per completare la fase di sviluppo di
questa tecnologia fino ad arrivare alla produzione industriale di energia
elettrica? S. L’Italia partecipa al progetto con
circa 600 ricercatori impiegati a vario titolo dal CNR, ENEA ed altri Enti
pubblici e privati. Il finanziamento è confrontabile con l’impegno di altri
Paesi europei e riguarda anche le infrastrutture e impianti pilota. Per
esempio, nell’ambito degli accordi europei su ITER, a Padova, presso il
Consorzio RFX, che è un consorzio privato di CNR, ENEA, Università di Padova,
INFN e Acciaierie Venete S.p.A. e che opera nell’area del CNR, si sta
sviluppando il prototipo (in scala 1:1) dell’acceleratore di particelle neutre
di ITER. Questo progetto, chiamato MITICA (Megavolt ITER Injector & Concept
Advancement), rappresenta il principale sistema di riscaldamento di ITER, in
sostanza l’“accendino” che innescherà la fusione in ITER. Attualmente è in
avanzata fase di operazione una versione più piccola di MITICA, chiamata SPIDER
(Source for the Production of Ionized Deuterium Extracted from Rf plasma - vedi
figura). Gli esperimenti coinvolgono non solo i ricercatori italiani, coordinati
dai miei colleghi Vanni Toigo e Gianluigi Serianni ma anche altri europei,
indiani, e giapponesi altrettanto coinvolti nel programma ITER. Sempre
nell’area del CNR di Padova, il Consorzio RFX gestisce anche un'altra macchina
di forma toroidale, una ciambella chiamata proprio RFX, che è in fase di
rinnovamento per inglobare tutta una serie di migliorie e di nuovi dispositivi
di misura che la rendono in assoluto una delle macchine da fusione più
diagnostiche al mondo. RFX in realtà è il primo esperimento, il “padre” a cui
deve il nome il nostro Consorzio. Iniziato nel 1992, ebbe una prima fase di
revisione nel 2004, operò fino al 2015 per poi iniziare la seconda fase di
rinnovamento che si sta completando proprio ora, sotto la guida dei miei
colleghi Lionello Marrelli e Simone Peruzzo. RFX riaprirà gli esperimenti nel
2023, quando JET avrà presumibilmente esaurito il suo ruolo, e sarà un
importante “palestra” in cui si allenerà la “generazione Z” di giovani
ricercatori italiani che opererà presso ITER. Inoltre, presso i laboratori dell’ENEA
di Frascati è in fase di progetto un nuovo tokamak, chiamato DTT (Divertor
Tokamak Test, vedi figura) che sarà una tappa importante all’interno del
programma “fusione” Europeo per lo studio del sistema di rimozione delle ceneri
di elio, di cui abbiamo accennato riguardo a ITER. È previsto che gli
esperimenti su DTT comincino nel 2032. Insomma, il programma fusione italiano può
offrire un vasto campo di progetti su diverse scale di tempo: attualmente SPIDER
e MITICA a Padova, nel 2023 RFX, nel 2032 DTT a Frascati, e poi ancora nel 2050
ITER. L’Italia, che entrò nel programma di ricerca sulla fusione fin dagli
albori di questo percorso, nel 1959, con i nostri “padri fondatori”, Giorgio
Rostagni e Gaetano Malesani a Padova, Marcello Fontanesi a Milano, e Bruno
Coppi a Roma, rimane uno dei Paesi di riferimento in questo settore di ricerca
scientifica e sviluppo tecnologico.
R. Posso immaginare che le competenze
scientifiche e tecniche coinvolte in questo progetto siano un insieme aperto di
molte discipline e molti rami di ricerca e sviluppo in fisica, matematica,
scienze dei materiali, elettronica, elettrotecnica, metallurgia, informatica e
tanti altri che dovranno concorrere alla realizzazione di un progetto tanto
ambizioso. Per citare solo un esempio, lo studio della fisica del plasma richiede,
tra l’altro, l’elaborazione di modelli della dinamica (moti, vortici, ecc.) di
questo particolare “fluido” e del campo magnetico in cui è costretto. Si tratta
di uno studio iniziato con la curiosità di Leonardo da Vinci riguardo i moti
vorticosi dell’acqua oltre 500 anni fa! Recentemente la matematica e la fisica
hanno fornito risposte alle domande che già si faceva Leonardo, coi famosi
disegni dell’acqua e delle nuvole, nell’ultimo periodo della sua vita. È di tre
giorni fa la notizia, apparsa sulla prestigiosa rivista scientifica Nature (2),
dell’applicazione di un complesso codice informatico che fa capo alla ricerca
sull’intelligenza artificiale (AI) per pilotare i campi magnetici in un Tokamak
e mantenere attivo il flusso di plasma in una macchina sperimentale per il
tempo massimo (2 secondi) consentito da quello strumento. S. Hai perfettamente ragione ed è un campo
nel quale stiamo lavorando anche noi n Italia.