L’ANTICIPO (MANCATO) DI TANGENTOPOLI di
Franco Astengo
In
questi giorni si sta ricordando la ricorrenza dei 30 anni dall’esplosione del
primo caso riconosciuto di “Tangentopoli” verificatosi il 17 febbraio 1992 con
l’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano Mario Chiesa. Con
questo intervento non si intende entrare nel merito di quella vicenda e dei
suoi successivi sviluppi (dirompenti sull’intero sistema politico italiano) ma
si cerca di rivolgere la riflessione su di un fatto precedente di nove anni,
riguardante l’arresto di Alberto Teardo e di un “clan” di amministratori e
politici liguri per vicende che, agli atti, risultarono analoghe a quelle
successive che sono state appena ricordate. Una riflessione, è doveroso
precisare, che riprende i termini di un’analisi (trascurata perché considerata
minoritaria) già sviluppata ai tempi in cui si consumarono i fatti. In allora
si cercò inutilmente di far comprendere come, sul piano più propriamente
politico, fosse già in atto un sistema che non era semplicemente basato sulle
“tangenti” ma che rendeva, per sue caratteristiche di gestione del potere, la
“questione morale” appunto una effettiva “questione politica”. Per diverse
ragioni il sistema non seppe riconoscere questa specifica connotazione dei
fatti così come non riconobbe la qualità di quanto era accaduto nello stesso
periodo a Torino con il caso “Biffi Gentili – Zampini”: un caso sì ben compreso
dal sindaco Diego Novelli ma sostanzialmente derubricato dalle altre forze
politiche compreso il PCI.
Andiamo
comunque per ordine ricostruendo il caso ligure nella convinzione che una
maggiore capacità d’analisi, indipendentemente dalle vicende giudiziarie,
avrebbe potuto consentire di rendersi conto in anticipo della qualità della
“questione morale” e di conseguenza della bufera che stava addensandosi sul
sistema politico italiano. Il 14 giugno 1983, quasi trentanove anni fa, i
carabinieri, su mandato dei giudici Francantonio Granero e Michele Del Gaudio,
arrestarono nella sua casa di Albisola Superiore Alberto Teardo, esponente
della P2 e del PSI assieme ad altri suoi compagni di partito, tra i quali il
sindaco di Albissola Marina, Borghi. Nei giorni seguenti si verificarono altri
arresti di esponenti dello stesso PSI e della DC: alla fine del processo quasi
tutti gli imputati furono condannati per corruzione e associazione a delinquere
semplice (non fu riconosciuto lo “stampo mafioso”): risultarono assolti
l’ex-deputato socialista Paolo Caviglia e il sindaco di Borghetto Santo
Spirito, l’architetto Bovio, iscritto al PCI. Al
momento dell’arresto Teardo si trovava al centro di una campagna elettorale
che, con ogni probabilità, lo avrebbe portato in Parlamento, dopo l’esperienza
di assessore e di presidente della Regione Liguria. Il suo arresto (e la
successiva condanna) rappresentarono una vera e propria deflagrazione
sull’intero sistema politico savonese e ligure, squassandolo violentemente. Eppure
quasi nessuno volle riconoscere l’effettiva natura e dimensione di
quell’episodio che risultava, invece, essere assolutamente anticipatore di
“Tangentopoli”.
Mario Chiesa a processo
Teardo
era già al centro da qualche tempo, anche grazie alle denunce avanzate dall’
avv. Trivelloni consigliere comunale della Sinistra Indipendente, di un forte
iniziativa legata alla “questione morale”: polemica politica rafforzata, nel
1981, allorquando il magistrato Gherardo Colombo aveva sequestrato, a
Castiglion Fibocchi in provincia di Arezzo, le liste degli appartenenti alla
loggia massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli. In quegli elenchi assieme a
quelli di Silvio Berlusconi, Fabrizio Cicchitto, di generali, uomini politici,
uomini d’affari, giornalisti, personaggi dello spettacolo figurava anche il
nome di Alberto Teardo. La
configurazione di quei fatti e il tipo di problemi che, in allora, si posero
alle forze politiche, avrebbero dovuto promuovere un ragionamento in
profondità, da svilupparsi proprio mentre si stavano scoprendo i diversi
tasselli istituzionali. Com’era allora configurabile il fenomeno concreto con
il quale ci si trovò a dover fare i conti? La “questione morale savonese” presentava,
rispetto ad altri fenomeni apparentemente analoghi elementi di assoluta
originalità. Non si trattava soltanto di una “centrale” collettrice di
tangenti, ma di un fenomeno di contropotere organizzato in cui erano poteri
extra-legali (appunto le logge massoniche “coperte”) a determinare gli assetti
politici e gli atti concreti della Pubblica Amministrazione al di fuori da
qualsiasi possibilità di controllo democratico. Lo
stesso rapporto con la società che era stato instaurato da questo potere extra-legale
non risultava essere di natura classicamente clientelare (per cui si sarebbe
potuto parlare semplicemente di reciproco favoritismo tra società civile e ceto
politico) ma riguardava invece, un fenomeno di vera e propria “progettualità
criminale” che puntava a contaminare (realizzando l’obiettivo) i diversi
settori della politica, delle professioni, dello stesso mondo del lavoro. Era
quello il punto, che riconosciuto adeguatamente, avrebbe dovuto portare da
subito a considerare Savona un “caso nazionale”. Quali erano i terreni di
coltura del progetto criminale?
La
prima condizione era stata costituita dal progressivo decadimento dell’economia
e della struttura produttiva del savonese. Su questo punto dovrebbero, ancor
oggi e sulla base di esperienze successive analizzate le responsabilità di
quanti promossero un vero e proprio feroce processo di deindustrializzazione. Va affermato ancora oggi con chiarezza: la sinistra (al governo in
Regione e in diversi Enti Locali di primaria importanza come Genova, Savona, La
Spezia) non fu in grado riconoscere e di conseguenza a trasmettere alla
dimensione nazionale l’entità profondamente politica di ciò che stava
accadendo. Era
in atto, all’epoca, un processo di fuoriuscita dall’industria di stato (e di
abbandono concetto di “programmazione economica” per dar via alle
privatizzazioni, al “made in Italy”, alla fabbrichetta dello “sciur
Brambilla”, all’esplosione dell’evasione fiscale e all’innalzamento
stratosferico del debito pubblico) che riguardava prioritariamente il
fondamentale settore della siderurgia nella sua parte legata al sistema delle
PPSS: l’IRI guidata da Romano Prodi portò a compimento quel processo fino allo
scioglimento dell’Istituto. La mancata conversione del processo produttivo
condusse al mancato aggancio all’ innovazione tecnologica e rappresentò il
punto vero di copertura dell’intreccio politica-affari. Come
puntualmente fu verificato negli anni successivi il processo di
deindustrializzazione aveva come finalità ultima quella di un tragico scambio:
liberazione delle aree/ speculazione edilizia. A questa prima condizione se ne
collegò un’altra che riguardava il tema delle basi strutturali sulle quali si
erano realizzate, negli Enti Locali, le alleanze politiche. La
strategia delle cosiddette “giunte bilanciate”, attuata in Liguria ma anche in
altre parti del territorio nazionale, da DC e PSI assunse un aspetto del tutto
particolare come sanzione (direi quasi come terminale) dell’aspetto più
pericoloso di tutta questa storia. Un aspetto che va ancora indicato adesso e
che va ribadito, dopo essere stato già segnalato poco sopra: quello delle
assunzioni delle decisioni politiche in sedi extra-legali come le logge
massoniche segrete e al di fuori da ogni possibilità di controllo democratico.
Il PCI reagì in maniera valutabile
ancora adesso come inadeguata alla vastità e alla profondità del fenomeno:
“Rinascita” si limitò a scrivere di una “macchia nera su di un vestito bianco”
e nulla di più e furono trascurate considerazioni esterne che invece come si
dimostrò in seguito avevano colto i nessi fondamentali della vicenda
nell’intreccio politica/affari/modello di sviluppo. Miopia?
Complicità oggettiva, a scopo di mantenimento di ampie fette del potere locale?
Il quesito va risollevato comunque, anche a distanza di tanti anni, soprattutto
in considerazione di ciò che accadde in seguito proprio sul terreno del
rapporto tra “questione politica” e “questione morale” risultata alla base
dell’implosione dell’intero sistema dei partiti verificatasi dieci anni dopo i
fatti che si rammentano in questa occasione. Quel
che è certo, e che deve essere ribadito nell’occasione, fu l’aprirsi di un vero
e proprio “varco”, di una codifica della separatezza tra la gestione della cosa
pubblica a livello locale e gli interessi e i bisogni della popolazione. Le maggiori forze politiche, adagiate
sul terreno della governabilità intesa quale fattore esaustivo dell’agire
politico, finirono con il favorire un processo di spostamento riguardante il
“privato” al centro di tutto e la “questione morale” resa quasi funzionale a
una falsa idea dello sviluppo. Nel caso savonese d’inizio anni’80
questi elementi c’erano già tutti, a volerli vedere e analizzare.A Savona dopo la bufera degli arresti la formazione di una giunta
monocolore comunista rappresentò sicuramente una svolta positiva sul piano
della tenuta democratica, ma il successivo ritorno (peraltro dopo un
brillantissimo risultato elettorale che aveva premiato proprio la formula del
monocolore PCI, confermando il risultato delle politiche 1983) ad un ormai
antistorico sistema di alleanze aprì comunque la strada a ciò che accadde
all’inizio del XXI secolo quando lo scambio industria/territorio assunse una
dimensione tale da far smarrire senza ritorno l’identità della Città causandone
provincializzazione e impoverimento.
Nel frattempo però la “questione
morale” assieme ad altri fattori pur essi fondamentali (la conclusione della
stagione dei “blocchi” e l’avvento dell’egemonia delle logiche monetarie nella
costruzione dell’UE) avevano letteralmente capovolto il sistema politico
italiano uscito dal quadro costituzionale del riferimento alla
rappresentatività in una fase di ibrida transizione (non ancora conclusa)
all’insegna del primato di una “governabilità senza governo”. Oggi non possiamo limitarci a ricordare
una vicenda come quella savonese e ligure come una storia di periferia.Rammentare quella vicenda anche nei suoi risvolti politici più
complessivi collegandola agli eventi successivi di Tangentopoli può far
risaltare il ritardo di analisi sulla questione morale e far riflettere sulla
debolezza delle contromisure che furono assunte in allora, lasciando che la
Magistratura svolgesse, come in tante altre occasioni nella storia d’Italia,
una funzione di supplenza rispetto ad un agire politico e amministrativo
costantemente in ritardo. Un ritardo che ha pesato e pesa ancora
sull’insieme del nostro sistema quale componente ben presente nella
determinazione di una ormai atavica fragilità.