Guitti in cerca d’ autore L’indecoroso
spettacolo cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, e non il primo negli ultimi
decenni, nel corso dei quali grandi elettori sono rimasti impantanati
nel rito della elezione del Presidente della Repubblica, ha fatto risaltare la
crisi del sistema rappresentativo italiano, nella forma attuale di leaderismo
personalistico, che fa ricordare derive oligarchiche. Deduzioni che possono
apparire improprie, se non si considera che il popolo non elegge più i propri
rappresentanti, e che quelli attualmente eletti sono stati scelti tra
fedelissimi e non tra i migliori. Sono frutti marci di leggi elettorali illusoriamente
furbe di tale leaderismo, prima col c.d porcellum
(o mattarellum) e poi col rosatellum, che avevano il preciso
obiettivo di una democrazia priva di sostanza e linfa vitali, ridotta a una
ritualità esangue, di un sovranismo autoreplicante e autoelettivo. Il
risultato ovvio è che quasi il 50 % degli italiani, nauseato, non sia più andato
a votare, non riconoscendosi nei nomi proposti da comitati ristrettissimi di
fantasmi-partito rispetto a quelli di circa 50 anni fa. I quali erano corpi
politici con strutture, visioni e interessi – pur contrapposti – radicati nel
corpo sociale, attraverso circoli e altre sedi di discussione tra rappresentati
e rappresentanti. A
che cosa è dovuto il passaggio dal partitismo a questo leaderismo
antidemocratico? Penso che occorra capire le cause di fondo che hanno determinato
il degrado e lo sgretolamento delle strutture precedenti, avvenuto per ragioni tutt’altro
che misteriose e incomprensibili. Sono ragioni e logici risultati connessi, per
me, alla affermazione della visione neoliberista del capitalismo globalizzato, per
il quale le furiose innovazioni tecnologiche sono state e sono armi
fondamentali di potere finanziario e di controllo delle masse. I
partiti degli anni ’40-70 sono stati spezzati e spazzati via più che da azioni giudiziarie,
da una erosione e cooptazione crescenti di tale turbocapitalismo, che è
riuscito a smontare come tasselli di un domino il precedente assetto. Per il
pensiero unico neoliberista, lo Stato sociale, che esercita controllo e
redistribuzione della ricchezza prodotta, è un residuo retrivo, fonte di “lacci
e lacciuoli” nemici di sviluppo e progresso – termini-coperchio di profitto
privato vs interesse pubblico, cardine
della nostra Costituzione.
Mario Draghi
Il
primo decisivo colpo è stato assestato nel 1982, quando – grazie ad Andreatta e
Ciampi, e nel silenzio assenso di tutti i partiti, compreso il PCI – venne
decisa, con un atto amministrativo e senza discussione parlamentare, la
privatizzazione della gestione del debito pubblico e della Banca d’Italia. Quanti
Italiani sono stati coinvolti dai loro partiti nella discussione su tale grave mutamento
d’indirizzo, deciso da una decina di architetti finanziari, tra cui Mario
Draghi, in una riunione sul panfilo della Regina Elisabetta al largo di Ostia? L’esproprio
dell’interesse pubblico, col contemporaneo svuotamento di potere di
rappresentanza e controllo dei partiti, era avviato. La diga era rotta e ciò
che seguì fu una piena di privatizzazioni, con risultati che non potevano che
essere quelli che abbiamo sotto gli occhi (per chi li vuole vedere), in primo
luogo disparità socioeconomiche crescenti – cause di fondo della crisi della
sinistra. Ma proprio per questo, la strategia della globalizzazione
neoliberista scelse di avere come interlocutori privilegiati i gruppi dirigenti
dei partiti della sinistra storica, in primo luogo il vecchio PCI. I processi contro
la diffusa corruzione politica, messi in atto da Mani pulite, sono stati certamente utili alla strategia di tale
rinnovato capitalismo, liberato da ogni freno. Ma se il PCI fu l’unico tra i
vecchi partiti a non essere travolto dall’azione giudiziaria, per il suo
smembramento e la sua cooptazione nel nuovo orizzonte, bastò l’azione diretta e
vincente dei capitali coraggiosi. Dentro
e fuori le vicende processuali degli anni ’80 vennero destrutturate le
precedenti organizzazioni politiche, asservendo i rispettivi gruppi dirigenti,
compensati più che da simbolici 30 denari e onori formali, da corpose e ricche
prebende in arco internazionale, per cui i vecchi riferimenti di sinistra o destra, diventarono man mano solo nominali, tra ruderi residuali
delle vecchie strutture. I
referenti di tali ruderi hanno così vestito ruoli di leadership, senza eserciti e senza il seguito di coloro che decenni
prima se ne sentivano rappresentati. Su ognuno di tali residui, si è installato
– come un signorotto medioevale decaduto – un fantasma di leader, con l’unico obiettivo di rimanere vivo nel ribollio
ossimorico, tra liberismo e autoritarismo, dell’ideologia neoliberista globale.
Un ircocervo ideologico con due anatemi ossessivi e paranoici, tipici di ogni
pensiero assoluto, lanciati su sovranismo
e populismo.
Una
delle colpe storiche dei residui di sinistra è stata quella di aver abbandonato
a praterie di destra cardini di democrazia come popolo e sovranità, lasciando
che venissero squalificati e storpiati dalla lingua del potere vincente,
insieme alla Costituzione antifascista, che all’Art. 1 afferma: “la sovranità appartiene
al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La
falsificazione ideologica agì così sulla coscienza del fatto che le conquiste e
le pur limitate ridistribuzioni di ricchezza ottenute della classe lavoratrice nel
Dopoguerra, non sarebbero mai state possibili senza una cornice di sovranità
nazionale, che è l’opposto del nazionalismo parafascista. Per
la religione neoliberista, il connubio di popolo e sovranità è una bestemmia,
ed è doloroso vederlo richiamare magari solo da parti della destra, con visioni
opposte a quelle radicate nella sinistra sociale. Ma va detto che è altrettanto
insopportabile la propaganda strumentale degli adepti a tale religione, lo
sventolio del pericolo fascista. Giorgia Meloni è fascista quanto Letta è
comunista, entrambi residui di radici disseccate. Con la differenza che, tra i
due, quella con maggiore lucidità critica e azione radicante è lei. Per cui si
prospettano derive molto difficili per la sinistra sociale. Fermo restando il
potere decisionale del dio degli invisibili, onnipresenti mercati, che – stando
al contesto attuale – farebbero saltare come un birillo chiunque al governo non
rispondesse agli indirizzi voluti. Il debito, non più gestito da Banca d’Italia
e risparmio nazionale, in 40 anni è stato moltiplicato e tradotto in un cappio
al collo da parte dei meccanismi finanziari globali. Per i quali basta cliccare
su tasti ignoti, per far salire o scendere indici, con cui si impongono scelte
e governi. Come abbiamo visto con le entrate in campo, nel 2012 di Monti, e
ultimamente di Draghi. Se
dunque, populismo e sovranismo sono certamente forme del degrado
politico in essere, qui e ora sono termini di una bolla ideologica che
qualifica e legittima di sinistra ogni
riformismo consono a una visione neoliberista, tesa a rendere fonte di profitto
privato la gestione di beni e servizi (sanità, scuola, beni essenziali e
primari di vita, dall’acqua ai trasporti, ai settori dell’energia e della
comunicazione), che sono di primario interesse pubblico, e che dovrebbero
essere gestiti da una struttura statale degna di tale funzione. Il
neoliberismo, a partire dagli anni ’80, ha utilizzato la corruzione delle
gestioni pubbliche per promuovere una soluzione peggiore del male: privatizziamo
tutto e ogni corruzione sparirà, verbo fatto proprio con poche differenze da tutti
i partiti, che hanno cestinato persino un referendum vinto, in difesa dei beni pubblici.
Tale
abbandono a sinistra produsse via via vari effetti. In un primo momento, la
crescita di un elettorato deluso e rabbioso, che confluì in altre formazioni (dalla
berlusconiana FI alla Lega Nord, infine nei 5Stelle). Berlusconismo e
riaggregazioni a sinistra (Ulivo o PD) tennero inizialmente insieme i pezzi
delle rispettive aree. Che si combattevano mentre mettevano in atto le stesse
politiche neoliberiste, ed erano perciò destinate a frantumarsi tra tattiche e
obiettivi personalistici, privi di visioni critiche alternative. Gran
parte dell’elettorato disilluso confluì così, nel corso degli ultimi due
decenni, nel movimento 5Stelle, nel quale in pochi anni si è ripetuto il moto
disgregante fondato sui due anatemi suddetti, efficaci quanto più non si ha una
robusta analisi critica del neoliberismo, evidenziata dal loro definirsi né di destra né di sinistra. Segno di una povertà culturale, radicale e focalizzata
sul solo ambito istituzionale o elettorale, con una visione interclassista, chiusa
nella scatola di tonno delle aule parlamentari e non aperta alla sinistra sociale.
Il furore ingenuo di aprire quella scatola si è così risolto nell’essere aperti,
loro, come tonni dentro una mattanza di un Mefistofele che va oltre famelici privilegi
elitari – certo insopportabili, ma solo riccioli della sua barba – e che da fuori
riduce al suo servizio frantumi, pupazzi e pseudo-leaders. Nel
frattempo, il degrado ha raggiunto un apice, anche grazie alla pandemia, ulteriore
occasione per accentuare il processo di asservimento delle istituzioni e degli
interessi pubblici. Lo “stato di emergenza” infinito della gestione pandemica,
ha portato sul ponte di comando uno dei massimi architetti mondiali di tutto il
processo neoliberista, Mario Draghi, definito dallo storytelling mediatico unica nostra speranza di salvezza dai mille
guai in cui siamo. Come chiedere sul patibolo al boia di salvare l’osso del
collo. Draghi (nome omen), ha sancito
l’occupazione dello zoccolo mercantile nelle stanze sacre dell’interesse comune.
Il dio di quest’ultimo e quello della Costituzione sono morti, lasciando libero
da lacci e lacciuoli né intermediari capaci
di frenarlo, il dominio in atto. In
più, nel corso della vicenda dell’elezione del Capo dello Stato, Draghi non
poteva non coltivare, tra le generali santificazioni e i dettami internazionali,
una hybris personale, che lo ha
spinto a cercare in tutti i modi di farsi eleggere. Le contraddizioni tra frantumi
interessati solo ai propri compensi e privilegi, hanno portato al rinnovo (per
la seconda volta) del mandato al Presidente uscente, che scalderà la sedia all’illuminato del Destino. Una tragicomica
commedia che ha messo a nudo viscere maleodoranti dell’immenso disastro cui è
pervenuta la corruzione ideale e morale della classe dirigente politica ed
economica, asservita alle magnifiche
sorti e progressive della globalizzazione finanziario-capitalistica. Ma
siamo solo a una puntata, di una telenovela grave e rivoltante, che vedremo
nelle prossime puntate. Non per pessimismo congenito, che non ci appartiene, ma
sulla base dei dati di fatto. (*)
Contributo sviluppato a partire dall’articolo di Massimo Pamio “Odissea” sabato
29 gennaio 2022 https://libertariam.blogspot.com/2022/01/quirinale-dimassimo-pamio.html