Confronti POLEMICHE CONTRO LE FORZE DELLA PACE Gianmarco
Pisa
Uno degli aspetti al centro del
dibattito, su cui sembra mancare ancora una riflessione più approfondita e meno
reattiva, è senza dubbio la polemica in corso, alimentata soprattutto dalla
grande stampa e da alcuni opinionisti, che ha preso di mira i
pacifisti e le pacifiste, le organizzazioni
impegnate nella lotta, per dirla nei suoi termini più generali, «contro la
guerra e per la pace», in definitiva, il movimento pacifista nel suo complesso. Una
polemica stucchevole, nel senso proprio del termine, per cui da una parte suscita
noia, dall’altra allestisce uno spettacolo francamente sgradevole. Se non la si
razionalizzasse nei termini della “polarizzazione”, della dinamica classica
“amico-nemico” e della logica di schieramento che (inevitabilmente?) la guerra
porta con sé, finirebbe per risultare, a dir poco, sorprendente. Ma come –
verrebbe da dire – proprio nel momento in cui la guerra è in corso, quando tutti
esprimono sconcerto di fronte alla guerra e tutti levano la voce per dire basta
con le ostilità, si colpiscono proprio quelli e quelle, operatori e attivisti,
operatrici e attiviste, che da sempre si battono
contro la guerra, si impegnano in campagne contro la
guerra e per la pace, si attivano in ricerche e iniziative, sperimentazioni e
progetti a salvaguardia della pace e a difesa di «tutti i diritti umani per
tutti e per tutte»? Eppure,
è proprio quello che sta succedendo, e sembra evidente che tale meccanismo
possa rientrare a pieno titolo nel clima di propaganda di guerra che anche in
questo caso la guerra (inevitabilmente?) porta con sé. Alcuni aspetti di questo
dibattito non sembrano meritare più di tanto tempo e inchiostro: bollare i
grandi eventi della storia come frutto di follie deliranti o pulsioni
individuali significa in sostanza non riuscire a ricostruirne la storia e il
contesto; immaginare che la ragione e il torto si dividano radicalmente, tutta
la ragione solo da una parte (dal punto di vista prevalente in Occidente, la
parte degli Stati Uniti, della NATO e del governo ucraino) e tutto il torto
solo dall’altra (secondo lo stesso punto di vista, la Russia, e, con accenti e
sfumature diverse, la Cina); ritagliare su misura del “dittatore” di turno
(oggi Putin, ieri Assad, ieri l’altro Milošević) una perfetta «immagine di nemico»
può soddisfare le ragioni della schematizzazione, della banalizzazione o della propaganda
di guerra, certo non soddisfa quelle dell’analisi e della comprensione degli
eventi e degli scenari.
Altri aspetti di questo dibattito, meno condizionati dalle contrapposte
propagande, meritano invece alcuni rilievi. A partire
dalla questione dell’ambiguità di una parola d’ordine che pure si sente
risuonare: l’ormai noto né-né, come ieri né con la NATO né con Milošević, così
oggi né con la NATO né con la Russia. Il né-né, purtroppo, non funziona: è una facile
soluzione che, proprio per la sua comodità, non aiuta ad approfondire la
questione e non sollecita un’iniziativa politica che sia, al tempo stesso,
rigorosa ed incisiva. Anche perché, nello specifico del conflitto che oppone la
NATO e la Russia in Ucraina, rischia di tramutarsi in banalità: ovviamente non
si può essere, dal punto di vista di chi sostiene le ragioni della pace con
giustizia sociale, dalla parte della NATO, con tutto il suo portato di espansionismo
e di militarismo;
così come, per le stesse ragioni, non si può essere dalla parte del governo
russo, di quel sistema di potere che esprime, sul piano politico e
istituzionale, le ragioni del capitalismo
nazionale e delle oligarchie politico-economiche dello sterminato Paese
euro-asiatico. Tanto
è vero che una recente presa di posizione
del Partito Comunista della Federazione Russa ha chiaramente messo in evidenza
che «il PC è guidato dalle idee di storica amicizia e fratellanza dei nostri
popoli, ha esposto l’essenza fascista dell’ideologia banderista, e ha
dimostrato la natura antidemocratica del regime di Kiev. Abbiamo difeso il
diritto del popolo del Donbass alla vita e alla dignità, alla lingua russa e
alla sua cultura, e al riconoscimento della sua giovane statualità. [...] Il
Partito ha inviato 93 convogli di aiuti umanitari nel Donbass» e ha espresso
l’auspicio che «in queste condizioni di crescenti minacce esterne la leadership
della Federazione Russa prenda la strada della “sicurezza nazionale omnicomprensiva”.
Nella nostra convinzione, essa può essere garantita solo da un cambiamento
radicale del corso socio-economico». L’idea è di superare il nazionalismo, lo
sciovinismo e il militarismo a partire dal superamento del modello economico
basato sulla esasperazione della competizione, sullo sfruttamento della forza
lavoro e sull’accumulazione dei profitti che sono tra le più potenti spinte
alla guerra. Del resto è noto, alle forze di progresso, l’antico monito di
Jean Jaurès,cui si deve la celebre affermazione per la quale «il capitalismo porta
la guerra come le nuvole portano la tempesta» Superare la logica del né-né significa sforzarsi di
comprendere l’articolazione e la dinamica delle ragioni e delle responsabilità.
Il contesto del conflitto attuale non è definito dagli ultimi mesi, ma semmai
dagli ultimi anni, a meno di fingere che il golpe di Maidan
non vi sia stato, che il collaborazionista
nazista Stepan Bandera non sia oggi eroe nazionale
in Ucraina, che l’adesione alla NATO
non sia oggi addirittura principio costituzionale del Paese. La stessa guerra
in Donbass, a partire dal 2014,
è praticamente “scomparsa dai radar” di certa stampa.
Come giustamente
è stato detto, se, dal punto di vista militare, la responsabilità della
campagna in corso è della Russia, dal punto di vista politico e strategico, le
responsabilità di USA, UE e NATO, spintasi fin sotto i confini della Russia e
ben dentro il territorio di quella che era l’Unione Sovietica, difficilmente,
ad uno sguardo lucido, possono essere sottaciute o diminuite. Per quello che
riguarda questa parte del mondo, sarebbe bene soffermarsi sull’irrazionalità di
una posizione che pretende di costruire la pace inviando armi e alimentando guerra
(qualcuno ricorderà gli ossimori, dalla «esportazione della democrazia» alla «guerra
umanitaria», tutti di conio occidentale, peraltro), e concentrarsi piuttosto
sul «preparare la pace attraverso la pace», sostenendo gli sforzi diplomatici
per una soluzione politica, positiva e di mutuo beneficio. Per quanto riguarda
i pacifisti, poi, dopo tutte queste polemiche, al netto di ogni altra
considerazione, un elemento sembra essere finalmente acquisito: ben
difficilmente, alla vigilia del prossimo conflitto, si potrà ancora
dubitare della loro presenza.