DIALOGO IMMAGINARIO CON JOSÉ SARAMAGO di Pierpaolo Calonaci
José Saramago
La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce;
non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no. Angelus Silesius Incontro Josè Saramago seduto su
una panchina, intento a osservare l’aquilone che, sebbene legato al dito,
indica altre traiettorie invisibili. Mi siedo salutandolo e ringraziandolo per
questo incontro immaginario. Risponde con la soavità del poeta, sottolineando
che ogni incontro dovrebbe poter contenere, almeno all’inizio, la forma
dell’immaginazione, altrimenti si comincerebbe con l’utilitarismo.
Saramago: mi affascina l’aquilone, assomiglia un po’ all’idea
che l’Anima aveva per i Greci e che cercavano ovunque, sia nel corpo biologico
sia in quello razionale, sia nella natura come nella convenzione. Tuttavia il
suo volo non volevano né potevano definirlo o trattenerlo.
Pierpaolo: forse è per questo che non volano più gli aquiloni
oggi? Il desiderio di cercare, di scoprire, di comprendere è usato, o meglio,
deteriorato, tanto da rendere la vita sotto controllo, sana, prevedibile,
sicura, normale insomma, un mero contenitore da riempire col possesso?
S: la razionalità può diventare l’arma da guerra per
eccellenza con cui afferrare e stravolgere le parole, i concetti, le idee, il
linguaggio, finalizzandoli alla creazione di un nemico, ad esempio. Ovvero
annichilire il concetto, l’intuito e la libertà di cui entrambi devono godere
in modo da non sospingere la ragione e l’esistenza verso i confini dell’ignoto,
del bello, del sapere autentico. Per autocriticarsi e trascendersi. Direi che
questa razionalità è cecità. Immagino che tu voglia parlare di quel mio romanzo
oramai scritto nel 1995 che s’intitolava Cecità,
appunto.
P: beh, sì! È da tanto che aspettavo che l’immaginazione fosse
un filo lungo cui poter domandarti un incontro sul senso di quel romanzo. Sai
oggi con gli intellettuali non ci puoi parlare mica, li devi solo “ascoltare”
secondo quello che ti viene somministrato dai media. Mentre ricordo se volevi incontrare Pasolini, ad esempio, per
proporgli un lavoro lo potevi chiamare a casa poiché il numero era sull’elenco.
S: comincerei da qui, quindi, non negando che ci possano
essere delle somiglianze tra la mia poesia e la sua. Anche lui lottava contro
la cecità - quel sistema di dominio materiale e simbolico, per dirla un po’
accademicamente, che è oramai parte stessa della nostra natura storica – descrivendola,
analizzandola e denunciandone gli effetti esiziali sulla vita individuale e
collettiva. E, come me, non scappò davanti al suo artiglio.
P: sin dal primo rigo del romanzo il lettore è letteralmente assorbito,
come in una spira, dall’idea di capire cosa sia e da dove arrivi questo
biancore, questa lattiggine densa che copre gli occhi e poi via via tutta
l’esistenza. Tuttavia da questo avvolgimento sembra che non se ne esca poiché, tramite
un effetto ditirambico che la struttura linguistica conferisce al testo, con
questa cecità si riesce comunque a “vedere” bianco. Si vede quindi?
S: il problema del libro, e il suo senso, è la sua struttura a
chiasmo. Se l’approccio al romanzo è quello di volerne ottenere un viatico di
tipo parenetico utile alla paura di non farsi colpire da questa “malattia”, rimaniamo
nello schema lineare per cui la razionalità serve per difenderci. Suggerisco di
pensare che l’inversione prodotta dal gioco letterario sta nello sconquassamento
del piano rassicurante della realtà e di tutte le sue presunte sicurezze
esistenziali che la “malattia” invece, ecco il chiasmo, potrebbe introdurre
nella vita così cristallizzata e pensata; tutti i personaggi del libro vivono
un’esistenza “normale” e all’improvviso diventano “ciechi” fino a quando le
istituzioni che dovrebbero garantire la cosiddetta sanità e sicurezza, lo stato
e i militari, sono avvolti in quel biancore. Qui sta il chiasmo che si manifesta
tramite una cecità “vedente”, che viene paradossalmente rifiutata perché non ci
rassicura più e che invece, se le stessimo di fronte, squarcerebbe forse la
natura stessa della “realtà” in cui siamo imbrigliati, che non è altro che l’abominio
della strenua difesa di tutta l’impostazione del problema relativo al modo con
cui conosciamo se stessi, la nostra condizione e quella degli altri. Chiamiamo
malattia tutto ciò che, da un punto di vista della conoscenza, non vogliamo
conoscere.
P: quindi sono resi ciechi o sono ciechi e non lo sanno?
S: È il problema di come conosciamo e di come abbiamo paura di
questa avventura dello spirito. Niente di nuovo, lo avevano detto i Greci. Il
punto è che lo abbiamo tranquillamente dimenticato, sostituendolo con l’edonismo
più squallido. In soldoni, non guardiamo, non ci avventuriamo come se la
conoscenza, il sapere, il metodo scientifico fossero delle rivelazioni, rappresentassero
un vero e proprio ignotum pelagus che
attraversiamo con tentativi fallibili di cui l’errore (che non è conculcare
come ha fatto la scuola con l’infame penna rossa) ne costituirebbe la summa. Guarda cosa facciamo dell’Altro, il
sublime e solitario Io, questo ignotum
pelagus che non ci accorgiamo minimamente di rifiutare e che volentieri
uccidiamo. Sarebbe l’errore, se così osservato, a condurci in regioni lontanissime
dai nostri assunti, costituiti perlopiù dai falsi Io così seducenti, facendoci
toccare con mano (finalmente!) l’umanissima libertà dello smarrirsi, vietata da
un sistema di ideologie che crediamo reali e fondate ma che ci conducono dritti
a esacerbare l’odio in noi e verso gli altri. Ci affidiamo quindi al regno
delle ombre, delle immagini che ivi svolgono la funzione di rassicurazione
della propria meschina condizione. Noi facciamo, da ciechi normalizzati, della
scienza, della vita, del sapere, delle virtù, della politica una competizione,
cercando di definire, in maniera fondativa, dogmatica, universale cosa dover
credere. È per questo che l’età moderna non ha più il gusto dell’ignoto in cui,
peraltro, l’essere, cioè l’io come ente finito e l’Essere, sono una sinonimia. Cecità
è questa sinonimia, come fu l’Hybris.
Lo osservo questo fenomeno di consunzione liminale nell’uomo dispiegarsi attraverso
la prepotenza della tecnica e della tecnologia. L’età delle scoperte, pur nelle
sue enormi contraddizioni, fu tale non perché avesse una tecnica come fine a sé
stessa ma in quanto l’idea dell’ignoto era presente.
P: L’ignoto come paradigma e metafora del “Conosci te stesso”
partorito dal “sapere di non sapere”.
S: cos’era quel sapere
di non sapere se non la negazione e il rifiuto di ogni sua pretesa, di ogni
condizione che guardi alla conoscenza come dominio?
P: Insomma, la cecità non è un prodotto moderno …
S: Direi proprio di no, l’analogia con la medicina è inequivocabile
e esemplificativa. Nel romanzo l’ho messa quasi all’inizio proprio per questo.
La medicina antica educava il soggetto a conoscere le cause e i sintomi da cui
era affetto, spingendolo verso quelle regioni sconosciute di sé stesso in cui
era altamente probabile risiedessero le cause. Vedi che alla base essa aveva
una struttura circolare, eidetica, ontologica dell’esistenza. L’opposto della
struttura positivista della medicina moderna, per cui il sapere medico dice
cosa, come, quando e perché credere che quello che accade, accade in via di un
principio di “verità”; il quale è pronunciato, gestito, somministrato e
organizzato dalla terapia. Ecco, questa circolarità infausta è cecità perché
distrugge l’eidos, l’ignoto della cui
sostanza è fatta l’esistenza. È Hybris,
come ammonivano i Greci e tutta la tragedia classica. Infatti quando uno dei
primi individui colpiti da questo biancore si rivolge ad un oculista,
quest’ultimo non sa rispondere. Non soddisfatto, il medico cerca nei suoi
libri, nelle sue reminescenze accademiche la causa ma nulla; certo arriva a
ipotizzare che si tratti di amaurosi ma il dettaglio che questa si manifesti, sintomatologicamente,
con il colore bianco, ecco il senso di questa contraddizione, che lo salverebbe
forse, non lo sfiora nemmeno. Neanche la telefonata a un collega, più famoso di
lui, risolve il problema. Finché anche il medico diventa cieco. È una
conoscenza determinata dal possesso.
P: Mi persuado sempre più che il tuo romanzo sia radicalmente
scettico, molto simile al valore etico del sospetto nietzschiano ma in
particolare verso cosa?
S: Radicalmente scettico! davanti alla pretesa edonista,
paranoica e autocratica di uniformare l’intera esistenza! riducendo la sua
imponderabilità a misurazione, quantificazione e categorizzazione! Insomma,
un’eugenetica totalizzante! Il romanzo è oltremodo dissacrante e satirico
davanti alla funzione del governo e dei militari. Li irride sapendo che sono
loro che hanno le leve di quel meccanismo eugenetico. E nonostante tutto il
terrore e il dominio che essi storicamente riversano nelle vite anch’essi
diventano vittime. Arrivati qui, invece di fermarsi, sospingono l’uomo ad
accettare la guerra, il discrimine, l’odio e il pensiero che ci siano vite
degne e indegne, le prime a cui concedere il permesso di vivere e le seconde da
eliminare. E l’uomo volentieri vi fa affidamento perché è abituato a delegare
grazie alla mentalità legalistica cui vi è educato da sempre.
P: un romanzo che indaga il senso dell’ignoto e forse anche
del nulla, in antitesi radicale davanti alle pretese del bisogno dei perché e alla ragione positivista della
“verità” e della forza …
S: Indubbiamente! contro le “ragioni” della guerra e del
militarismo imperante che sono alla base della “civiltà” occidentale e dei suoi
“valori”, tanto che, lo sottolineo per inciso, la metafora della guerra serve
oggi più che mai per implementare una certa idea di scienza. Nel romanzo questa
idea di scienza così organizzata non salva affatto, anzi condanna l’umanità
alla guerra e alla violenza crescente. “Cecità”
accade, anzi è già “natura” umana tutte le volte che la conoscenza, i modi in
cui a livello sociale essa è organizzata, amministrata e dispensata (penso alla
scuola e all’università ovviamente) sono sinonimo di potere, di profitto, di
competizione. La guerra enuclea questo modello politico di “natura” umana. La
libertà, dentro questo tipo di modello, ne è lo stemma più tracotante: la
usiamo per l’aperitivo, in senso lato, oppure crediamo che dire “non mi piace”
senza alcuna referenza e senza alcuna motivazione sia di per sé libertà. Ciecamente
costruiamo muri perché siamo letteralmente terrorizzati dal fatto che la
libertà venga sottratta da qualcosa o qualcuno piuttosto che guardare al fatto
che non ne siamo degni, ecco perché la difendiamo coi muri. Facciamo uso della
libertà per affermare e implementare un’idea di avere, di dominio per
accreditarci a detentori ma di cosa? La libertà è quindi una sovrastruttura che
nasce da poteri eterodiretti ai quali ci aggrappiamo.
P: Una crisi trasversale della ragione attraverso una specie di
ritorno al fideismo? un pensiero talmente sclerotizzato da avere prodotto i
meccanismi della propria cecità...
S: Del Nulla, in senso estetico e filosofico, non dovremmo
temere niente. Forse lo schema letterario del romanzo è questo: siamo stati
educati a credere che la ragione sia una fede, e, altrettanto, che la fede
salvi. Come un dogma. Ma di quale ragione stiamo parlando? “Cecità” rappresenta un sistema di
credenze che è una sorta di “benessere” in cui l’inquietudine, il desiderio
erotico e la ricerca del Sublime sono espunti dalla vita ma li desideriamo
ottenere col possesso. Osserva come abbiamo mistificato la parola salute.
Questa è vissuta alla pari di un oggetto da proteggere e da alimentare per
accrescere la longevità e la produttività, e soprattutto per mantenere inalterate
le caratteristiche della nostra accettazione da parte del mercato sociale del
gusto e della bellezza. Il dolore, la sofferenza, il pianto, la fragilità, la
paura, l’angoscia sono condannate e questa condanna è resa possibile da un sistema
della “cura” che è solo tecnica fine a sé stessa. In quanto la perfezione, qui,
è l’oggetto del possesso invece di essere il mezzo per comprendere la propria
finitezza, dalla quale compiere quel volo che ci condurrà, presumibilmente, a
diventare ciò che vogliamo essere.
Saramago
P:“Cecità”potrebbe essere quasi un vangelo della dissacrazione delle cosiddette basi
della civiltà?
S: Adesso stai esagerando. O forse no. Davanti al termine
civiltà mi sono sempre sentito a disagio, come Freud insegnava tra l’altro. Come
lo sono se dovessi sentirmi occidentale, visto il baratro in cui siamo. In
senso estetico direi che mette in ridicolo la pretesa umana di erigersi a
detentore e somministratore dello sguardo. E la scienza, o cosiddetta tale, nel
romanzo non è né il rimedio terapeutico né il viatico morale.
P: La figura della donna che, per inciso, rimane l’unica a non
essere investita dal biancore, ma del quale ne ha comprensibilmente paura,
quale tensione richiama?
S: La tensione del femmineo nell’anthropos quale metafora del lasciar andare, del perdersi, del
viaggio interiore. La cecità è quella dimensione dove l’attaccamento alle forme
e agli schemi reazionari dell’antropocentrismo e dell’etnocentrismo con cui allegramente
disponiamo che gli altri si omologhino. La madre di Socrate era un’ostetrica, colei
che aiuta lo sguardo a schiudersi e a svelarsi. Non c’è metafora più pregnante
per cui la conoscenza, la sua fondatezza, il suo rigore come le virtù che da
essa nascono non si ricavano con l’estrazione forzata scandita da regole che
costringono l’individuo alla rassegnazione delle opinioni comuni e del potere
delle loro immagini ma col rendere esplicite, la domanda maieutica, le
condizioni della comunicazione che si usa. Questo permette di verificare criticamente
come la dialettica possa nascere o meno e come l’anima, in una sorte di
dantesca evoluzione, diventi bella e buona o meno. Direi, inoltre, che questo
tipo di metodo comunicativo e di verifica permette la nascita del rispetto,
senza il quale la condizione umana, come abisso descritto nel romanzo, è
funesta rassegnazione e intensificazione illimitata di ogni tipo di violenza sino
alla disumanizzazione generata proprio dall’attaccamento a quello schema
gnoseologico che fa della razionalità la perpetrazione della violenza. Ma ciò non
è colpa della cecità che ha colpito tutti gli uomini. E’ un preciso effetto di
quanto il pensiero si affidi alla forza estrinseca delle immagini, della
propaganda, delle ideologie e delle menzogne istituzionalizzate di ogni potere.
P: Quasi un richiamo all’anarchia, al suo valore costruttivo… ma,
con una sorpresa lacerante, un leggero “tic” mi vieta di pronunciare questa
domanda. L’aquilone ha trovato la sua traiettoria e ha rotto il filo. Saluto
dunque Saramago.