Sono
pietre tante (troppe) parole che si scagliano di questi tempi, a sproposito. Pietre
le parole di Biden, che dovrebbe riflettere prima di parlare. Dare del
macellaio a Putin non fa che il gioco di Putin. E non solo Macron, ma la stessa
Casa Bianca ha subito dovuto usare dei “distinguo” per correre ai ripari. Non
meno pietre le parole di Putin, non solo quando ha usato il termine
“denazificare” (con quale diritto?) o ha dato del “drogato” a Zelensky; ma
soprattutto quando ha rifiutato di usare la parola “guerra” sostituendola con
“azione speciale”. Ma se non è guerra questa, che cosa è davvero guerra? Ha
perfino utilizzato il Vangelo di Giovanni per giustificare l’attuale conflitto! Anche
Zelensky, talvolta, usa le parole come pietre. Lo ha fatto, ad esempio,
parlando alla Knesset, il Parlamento israeliano, e paragonando l’attuale situazione
ucraina alla Shoà. Un riferimento, fatto oltretutto da una persona di origine
ebraica, che ha suscitato la riprovazione di tutte le comunità ebraiche. O
l’insistenza con cui reclama la necessità di una “no fly zone”: troppo
rischiosa per non far deflagrare un conflitto più ampio. Diceva
Camilleri, poco prima di morire: “Stiamo perdendo la misura, il peso, il
valore della parola. Le parole sono pietre. Le parole possono trasformarsi in
pallottole. Bisogna pesare ogni parola…”. Parole sante. Le parole non sono
pietre solo quando vogliono suscitare uno “scandalo” morale: ecco allora che
“la guerra è una follia” oppure “vergognatevi di fabbricare armi”, parole dette
da papa Francesco, hanno un significato nobile, alto, incontrovertibile. Ma
poi ci sono le parole più difficili da declinare. Ad esempio: cosa vuol dire
essere “pacifista”? Ho sentito il teologo Mancuso dire: “Io mi sento
pacifico, non pacifista”. Cosa voleva dire? Essere pacifico vuol dire
essere in pace con sé stessi, non volere la guerra in nessun atto della vita
umana, non cercare lo scontro, mai. Essere pacifista vuol dire altro: volere,
cercare, costruire la pace con gli altri e per gli altri. Ma è qui che le cose
si complicano: si può essere pacifisti “idealisti”, e sostenere il no alle armi
sempre e comunque, fino al primato della vita sulla libertà; e ci può essere un
pacifismo “realista” che fa prevalere la libertà alla vita (è sempre Mancuso a
sostenerlo) e dunque la possibilità e la necessità di difendersi quando si
subisce un sopruso. “Libertà vo cercando
ch’è si cara / come sa chi per lei vita rifiuta” faceva dire Dante a
Catone.
Chamberlain
E
ancora: come si può costruire una pace che sia davvero duratura, e che serva
nel lungo periodo? Ricordiamo Chamberlain tornare fiero da Monaco, dove aveva
sancito un trattato di “pace” con Hitler, dopo l’annessione dell’Austria.
Pacifista, certo. Ma di lì a poco Hitler, dopo aver stretto un patto con
Stalin, ha invaso la Polonia, ed è di fatto iniziata la Seconda guerra
mondiale. Purtroppo
con certi “dittatori” non bastano le buone maniere, e tanto meno il disarmo
unilaterale, per farli desistere dai loro propositi. E stare zitti, tollerare,
rischia di essere il miglior viatico perché l’incendio si allarghi. Avesse
avuto il via libera sino a Kiev, Putin si sarebbe poi fermato? O non avrebbe
pensato, per allargare la zona di protezione attorno alla Russia, di prendersi
un po’ di Moldavia, dove esistono minoranze russofone, o un po’ di Polonia, o
un po’ di repubbliche baltiche? Essere
pacifisti, dal mio personale punto di vista, non esime dall’essere “realisti”
e, nel caso il più debole voglia difendersi, aiutarlo concretamente a
difendersi. Senza incitarlo ad offendere a sua volta e a proseguire fino alla
“vittoria”, come qualcuno imprudentemente dice, scagliando di fatto pietre. Nessuno
esce davvero vincitore da una guerra. L’importante, per una soluzione di lunga
durata, è che non ci sia né la resa senza condizioni del più debole, né la
prevaricazione senza limite del più forte.