1962:
sessant’anni fa un punto di svolta per la classe operaia La dolorosa scomparsa di
Piergiorgio Bellocchio ha fatto riscoprire la storia di “Quaderni Piacentini”. Il primo numero dei “Quaderni piacentini” uscì appunto a
marzo del 1962, ciclostilato in proprio come pure il secondo, apparso il mese
successivo. A fondare la rivista furono due giovani intellettuali appartenenti
alla borghesia piacentina, Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi (entrata
ufficialmente nella direzione con il n. 16), che tra il 1958 e il ’60, insieme
ad Augusto Vegezzi e ad un gruppo di giovani studenti (composto da ex
comunisti, radicali, socialisti delusi, anarchici, ecc.), nella loro sonnolenta
città avevano dato vita al circolo culturale “Incontri di cultura”. Quella
esperienza ebbe una particolare importanza per la loro formazione e la loro
maturazione culturale e politica, in quanto ebbero l’opportunità di conoscere e
di frequentare scrittori e studiosi del calibro di Vittorini, De Martino, Paci,
Dolci e Fortini. Per l’orientamento teorico e politico dei
direttori dei “Quaderni piacentini” una considerevole importanza ebbe anche
l’incontro con Raniero Panzieri, caldeggiato dallo stesso Fortini e avvenuto
dopo i fatti di Piazza Statuto, e la conoscenza di Danilo Montaldi, che però
non ha mai collaborato direttamente all’attività della rivista. Oltre alla
durissima critica della società neocapitalistica, del centrosinistra, del
regime sovietico e della strategia della “coesistenza pacifica”, allora in
voga, ciò che accomunava personalità così diverse era l’adesione alle
aspirazioni e alle istanze autonome e libertarie delle classi subalterne, alle
esperienze del comunismo di sinistra e consiliare, basate sulla democrazia di
base e sulla partecipazione diretta delle masse, in netta contrapposizione
all’assetto burocratico dei gruppi dirigenti della sinistra ufficiale. I fatti di Piazza Statuto a Torino
costituirono un punto di svolta nella storia del movimento operaio e della
lotta di classe in Italia: la piazza fu sede di
uno dei primi grandi scioperi operai del dopoguerra. Durante la stagione dei
contratti dell'industria metalmeccanica, decine di migliaia di dimostranti
provenienti dalla Fiat e dalla Lancia, a ondate successive, si riversarono in
Piazza Statuto fra il 6 e il 10 luglio 1962, per protestare contro il sindacato
della UIL, che qui
aveva sede e che aveva firmato un accordo separato con la Fiat. Seguirono gravi
e prolungati scontri con la polizia e centinaia di fermi e arresti tra i
manifestanti. Erano gli anni del miracolo
economico, dei primi governi di centro-sinistra, dell’ondata di migranti,
soprattutto giovani, che abbandonavano le campagne e le periferie meridionali
per cercar fortuna nel “triangolo industriale” Torino-Milano-Genova.
Erano anche
gli anni di una forte invadenza politica delle destre, che, quando la Dc di
Tambroni osò pensare a un governo che includesse il MSI nell'area di governo,
provocarono nel luglio del ’60 una grande sollevazione operaia e giovanile. Ci fu chi la chiamò la rivolta delle
“magliette a strisce”, per via della povera moda che univa, quasi una divisa
comune e non programmata, una generazione di giovani proletari e studenti. Gli
scioperi nei molti stabilimenti Fiat di Torino, i primi dopo anni e anni di silenzio,
erano stati preparati da quelli di molte piccole fabbriche e in particolare da
quelli della Lancia, e furono esplosivi, entusiasmanti. In occasione degli avvenimenti di
Piazza Statuto, «Quaderni piacentini» pubblica una cronaca dei fatti criticando
le posizioni dei giornali, dei partiti di cui sono espressione, dei singoli
esponenti degli stessi e di tutti i sindacati, salutando con favore
l’intervento di quei gruppi di operai, in maggioranza immigrati, che sono i
protagonisti di questi avvenimenti e che non sono facilmente inquadrati. Sarà
proprio da questo momento che la rivista dedicherà uno spazio sempre maggiore
alla posizione dei giovani operai immigrati considerati come una forza
innovativa capace di modificare il sistema in quanto non fortemente integrata
in esso. Si affronta inoltre il tema del legame tra le lotte operaie e quelle
studentesche, sostenendo che tale legame, vada sostenuto ma non affrettato,
soprattutto viene segnalata la necessità di un’attenta analisi e considerazione
delle diversità dei due gruppi, per fare in modo che questa unione risulti
forte e sostanzialmente duratura.
Allo stesso
tempo viene rilevato il carattere di fondamentale innovazione del movimento
studentesco, argomento a cui «Quaderni piacentini» dedica molto spazio
intravedendone le possibilità fin dalle prime mobilitazioni. La società italiana e soprattutto, all’ interno di essa, il
perpetuarsi di una struttura classista, viene vista come il frutto di tutta una
serie di avvenimenti storici che partono dall'avvento del fascismo.Per trarre insegnamento da quelle esperienze
era necessario comprenderle a fondo, demitizzarle, ma soprattutto
riattualizzarle. «Quaderni
piacentini», che rappresenta il parere più autorevole della Nuova Sinistra
italiana di quel momento, cioè di quella cultura politica che si andava
formando intorno agli anni ’ 60, totalmente ostile alle scelte «revisioniste e
riformiste dei partiti operai ufficiali», è invece favorevole alla stretta
collaborazione con le forze giovanili e studentesche per la protesta e la
progettazione rivoluzionaria. Il collettivo di lavoro riunito
attorno a questa rivista si caratterizza anche per la sensibilità e l'analisi
critica, rivolte ai temi di politica internazionale, e soprattutto ai metodi di
interpretazione, ritenuti incompleti e inadeguati, portati avanti dalla
sinistra ufficiale intorno a questi temi. Viene messa in luce l'indifferenza
delle coscienze di fronte alle violenze e ai massacri perpetrati nelle lotte di
liberazione nel Terzo Mondo, indifferenza prodotta dall’ abitudine e dal senso
di impotenza di fronte ad essi. Ed è proprio in questo senso di impotenza, di
fronte a violenze che appaiono troppo lontane e incomprensibili, che le
coscienze vengono fatte vittime, secondo la rivista, di una diversa ma non meno
profonda forma di violenza.
Fu
esplicitata una forte critica alla posizione del PCI, del PSI, della CGIL che
videro in quei fatti e in quelle posizioni elementi di provocazione, senza
riuscire a leggere il nuovo disagio sociale che derivava dalla modernizzazione
capitalistica e dalla conseguente ristrutturazione nei rapporti di classe e
nella metodologia della vita quotidiana ormai impostata su di un processo di
gigantesca "rivoluzione passiva" fondata sul consumismo non si
realizzò un incontro "politico" con le altre posizioni di critica
radicale a sinistra di ciò che stava accadendo. Emerse in quel periodo anche
la critica portata avanti dall’operaismo di Panzieri, che pure su Piazza
Statuto aveva assunto posizioni lontane da quelle di "Quaderni
Piacentini". Panzieri era promotore di una riscoperta della democrazia
consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico
tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della
programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e
identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo
della produttività. Panzieri era anche fortemente critico
con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del
recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello
“scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore
dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione” (così si
identifica, rispetto allo scontro interno al PCI, la posizione di Amendola). La scomparsa prematura di Panzieri, il
disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique
d’abord” di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono
a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una
soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico
allo storicismo togliattiano, che del resto non fu mai contestato fino in
fondo. Nella Nuova Sinistra in formazione,
infatti, si affermò che era necessario andare "oltre Togliatti" e non
"contro Togliatti". Nel PCI, dopo che nel 1962 al convegno
dell'Istituto Gramsci sulle "Tendenze del capitalismo italiano"
Trentin e Magri avevano aperto il fronte nei riguardi, proprio delle posizioni
amendoliane in nome di una lettura avanzata del processo di ristrutturazione
capitalistica in Italia, una volta morto Togliatti e poi spenti i fuochi
dell’XI congresso e radiato il gruppo de “il Manifesto” non risultò possibile
di aprire un confronto di fondo portando avanti il dibattito aperto ad
iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”:
iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda
e Lucio Magri . I due fondatori de “il Manifesto” rimproveravano,
sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di
Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema ne “Il sarto di Ulm”, testo
fondamentale da confrontare soprattutto nella definizione del “genoma” Gramsci
e per affrontare seriamente quello che può essere ancora definito come “lascito
inevaso”).
Secondo
Magri e Rossanda nel post – togliattismo il marxismo era stato annacquato nel
quadro di una tradizione dai contorni imprecisi. Il PCI nella fase turbinosa
degli anni’60 aveva così stabilito un primato del politico sull’economico
smarrendo il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così
tra il riferimento di una realtà di pura empiria ( ancora attribuita all’ala
amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico e non
riuscendo ad individuare così lo svilupparsi di nuovi livelli di espressione
della contraddizione di classe e di profonda modificazione nel rapporto tra
struttura e sovrastruttura. Entrambi i due punti di osservazione
critica fin qui citati, quello dei “Quaderni Rossi” e quello del “Manifesto”
affrontarono anche il nodo di fondo del rapporto tra il partito e la classe,
mettendo in discussione la forma sostanziale del “centralismo democratico” e
inerpicandosi per diversi sentieri nella ricerca della “via consiliare”. Non si
riuscì però a realizzare un sufficientemente incisivo dato di contrasto e, alla
fine, si scoprì che all’interno del PCI proprio il modello del “centralismo
democratico” aveva scavato un vuoto di dibattito che risultò esiziale, nella
contrapposizione delle mozioni, al momento di affrontare le proposta di
scioglimento. Dai "Quaderni Piacentini" ai
“Quaderni Rossi” a “il Manifesto” restarono così punti irrisolti di dibattito
che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata
molto più a fondo di quanto non fu possibile concretamente realizzare in quel
tempo. Quegli spunti di dibattito appena
citati incontrarono, del resto, limiti forti di vero e proprio politicismo
allorquando nel PCI emerse la linea del “compromesso storico”, elaborata
attraverso una ipotesi di non semplice intento di determinare equilibri tattici
dettati dal momento storico (golpe cileno) ma come frutto di una lettura che
arrivava direttamente dall'antico fronte antifascista ma ormai insufficiente e
fortemente ritardata del rapporto che si era modificato tra sistema politico e
società italiana nella fase più acuta di passaggio dalla ruralità
all'industrializzazione e di modernizzazione del capitalismo. Modernizzazione del capitalismo che
avrebbe dovuto prima di tutto essere considerata nella nuova logica della
globalizzazione e della scarsità di risorse (ritardo di analisi che poi emerse
in tutta la sua crudezza al momento della crisi energetica del '74, cui
Berlinguer rispose tardi invocando una ipotesi di "austerità"
interamente sovrastrutturale). Il PCI (e non solo) ripiegò allora,
dopo le elezioni del '76 sulla traduzione al ribasso della solidarietà
nazionale portando avanti un politicismo esercitato al punto che sviluppato una
sorta di mal interpretato “primato della politica” condusse al collasso della
teoria:ciò avvenne ben in precedenza
alla stagione degli anni’80 nel corso dei quasi per via obbligata si arrivò
alla liquidazione del partito segnandosi un sorta di destino ineluttabile nel
collegamento con il fallimento dei fraintendimenti marxiano-leninisti
dell'inveramento statuale. Intanto i gruppi post-'68 avevano
intanto percorso tutt'altra strada.Una
divaricazione perniciosa e per certi tratti pericolosa (nella quale era emerso
anche un terrorismo frutto di una torsione idealistica e radicale della
soggettività). Una divaricazione che forse era già stata
tracciata in quell'analisi divergente sui fatti del 1962, sessant'anni fa e al
riguardo della quale erano risultate impotenti "minoranze
illuminate", incapaci anch'esse di cogliere il senso pieno della
contraddizione di massa.