Una
delle parole centrali nel mondo odierno, come ho già presentato nel mio
precedente articolo, è la parola fratellanza. Oggi però vorrei concentrarmi su
un altro aspetto di questa parola, ovvero su che cosa ci rende veramente fratelli?
Devo confessarvi, prima di continuare, che purtroppo o per fortuna, questo non
sta a me deciderlo, sono figlio unico. Ammetto quindi di aver sempre vissuto il
rapporto fraterno da semplice osservatore. Questa
posizione però forse mi ha permesso di indagare più a fondo gli aspetti
centrali di tale tematica. Una domanda che ha sempre accompagnato questa mia
osservazione è che cosa permette ai fratelli e alle sorelle di litigare,
insultarsi e così via in un momento e nel momento successivo invece
abbracciarsi o aiutarsi a vicenda. Penso che una possibile riposta a questa mia
domanda sia che i fratelli riescono a strutturare un rapporto di questo tipo
perché sotto a tutte quelle litigate c’è l’amore. Più precisamente, amore del
diverso, ovvero volto al riconoscimento di un altro. In altre parole, il
rapporto tra fratelli ci permette di vedere come una prima e fondamentale forma
di amore sia il rispetto delle differenze. Un caro amico mi diceva una volta
riguardo al rapporto con suo fratello: “Certo che a volte non lo sopporto,
ma non per questo lo odio è semplicemente diverso da me ecco tutto”.
Nella
semplicità di questa affermazione è presente un punto però di fondamentale
importanza che la società moderna sembra aver dimenticato. Oggi,
infatti, si pensa che dire di essere fratelli significhi che siamo tutti uguali
e questo è almeno per quanto mi riguarda un ragionamento sbagliato. Difatti,
dire di essere tutti uguali significa anche affermare l’esistenza di un
prototipo di persona. Purtroppo, però un prototipo, ovvero un ideale, non può
esistere all’interno di un mondo concreto e reale come il nostro. In
sintesi, riprendendo l’affermazione del mio amico è facile immaginare come la
sua idea prototipica sarà sicuramente diversa da quella di suo fratello, quindi
una ricerca di totale uguaglianza porterebbe soltanto ad una forma di scontro
tra le due parti. Lo scontro in realtà può essere a volte però fautore di
fratellanza. Ciò mi è stato svelato durante un incontro a Sarajevo. Difatti, una
sera del mio viaggio ho avuto la possibilità di incontrare alcuni terziari
francescani con i quali ho parlato della loro esperienza di minoranza religiosa
durante e dopo la guerra. È stato proprio uno di questi francescani ad un certo
punto della nostra chiacchierata a dire: “Durante la guerra si era più uniti
e vicini (...)”. Riprendendo
poi questo punto quello che è emerso è che di fronte ad una difficoltà comune,
quelle stesse differenze che normalmente sembrano insuperabili, come ad esempio
il proprio credo, scompaiono permettendo così alle persone di riconoscersi più
facilmente come fratelli. È
quindi necessario ricordarci che essere fratelli non significa essere uguali e
che un discorso basato sull’estrema uguaglianza è paradossalmente un discorso
volta a dividere le persone piuttosto che ad unirle.
In
questo mi pare possa essere utile richiamare alla nostra memoria il celebre
discorso di Shylock nel mercante di Venezia di Shakespeare: “Ma un ebreo non
ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non
mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli
stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle
stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non
sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non
moriamo?” Penso
infatti che se iniziassimo a chiederci più spesso che cosa ci differenzia
effettivamente così tanto da un altro diverso da noi scopriremmo di essere più
simili a lui di quanto pensiamo.