Al
confine di Medyka, tra Polonia e Ucraina, decine di associazioni hanno
posizionato i propri stand pronte ad
accogliere i nuovi rifugiati. Alcuni una volta varcato il confine trovano
contatti personali ad aspettarli, altri vengono smistati nei vari centri
presenti nel paese. In prossimità della frontiera, un grande supermercato ex
Tesco ormai in disuso, è stato messo a disposizione delle organizzazioni per
accogliere i profughi. In Polonia ce ne sono molti altri. Passeggiando tra una
via dello shopping ed un'altra, nel pieno centro di Cracovia, capita di
imbattersi in grandi tendoni, organizzati con lettini da campeggio su più file,
stanzoni unici privi di ogni privacy e dignità. Qui
a Przemysl il centro Tesco è diretto da semplici volontari che si danno il
cambio nella gestione. Basta arrivare nel grande parcheggio antistante per
potersi accreditare, si riceve un braccialetto e si viene smistati nelle varie
mansioni di turno. Fino a poco tempo fa gli ospiti soggiornavano all’interno
tutto il giorno, ora gli è richiesto di uscire tutte le mattine e rientrare la
sera, con il chiaro intento di spingere le persone a darsi da fare. L’attenzione
internazionale non è eterna e, come per tutti i conflitti nel mondo, alla fine
ci si abitua.Questa volta però, il
circo mediatico messo in piedi serve a giustificare i governi che, lungi dal
ricercare una soluzione al conflitto, hanno deciso di cavalcarlo, chi per un
interesse chi per un altro.
Alle
5 del mattino mi incammino per oltrepassare il confine polacco. La fila di
camion che cinge la lingua di terra tra i due stati si perde a vista d’occhio.
Per poter entrare nel paese ci vogliono ore di fila. Il passaggio pedonale
invece è ancora vuoto alle prime luci dell’alba. Oltrepasso il confine senza
che mi venga posta alcun tipo di domanda e mi dirigo verso la frontiera
successiva, in un percorso in salita delimitato da recinzioni di ferro. Una
donna di mezza età, dal corpo ossuto, trascina dall’altra parte diverse
valigie, prima ne porta avanti alcune e poi ne torna a prendere le altre.
Quanta della sua vita sarà in quelle borse, e quanta ne ha dovuta abbandonare.
Mi piacerebbe aiutarla nel suo percorso ma la frontiera divide e non ci dà
punti di contatto. Procedendo la strada arrivo ad un gabbiotto, dove, una
ragazza ucraina poco più che trentenne, capelli biondo cenere legati sotto il
berretto militare, con lo sguardo stanco di chi è stato di servizio tutta la
notte, mi chiede quali siano le mie intenzioni di viaggio, quali città voglia visitare
e se sono un giornalista. Nutro in questi momenti quel minimo di tensione che
si crea nel varcare la frontiera di uno stato in conflitto, ho già epurato il
mio telefono di tutte quelle foto, applicazioni e contenuti che mi potrebbero
creare problemi e con semplice ingenuità rispondo di essere in viaggio nel
paese per vedere la situazione. Quando un altro militare impegnato ad osservare
la scena da poco distante si unisce alla conversazione, brandendo il fucile in
quello stato semi intimidatorio che serve a metterti a disagio, la giovane
ragazza seduta dietro il bancone decide di credermi. Guadagno così il mio
accesso in Ucraina.
Appena
entrato trovo un banchetto che recluta soldati stranieri per combattere. Fino a
poco tempo fa qui la presenza dei volontari internazionali era massiccia, oggi
i flussi in questa parte del paese si stanno invertendo. La guerra ormai è
iniziata da più di 2 mesi e alcuni rifugiati hanno deciso di rientrare nelle
proprie abitazioni. Un volontario mi racconta che la Polonia non è più disposta
a lasciar passare tutte le donne e i bambini come in principio. Alcune zone vengono considerate più sicure e
per poter entrare nel paese non basta più lo status di rifugiati ma viene
richiesto il passaporto, un documento che non tutti gli abitanti hanno e che
possono impiegare anche fino a 3 mesi per ottenerlo. Camminando
lungo la strada del confine, noto un autobus con una scritta in cirillico che
indica la direzione di Leopoli – Lviv per
i locali. Pago all’autista 100 grivna, poco più di 3 euro nella moneta del
posto, sedendomi in fondo al pullmino per non dare nell’occhio ai check-point
lungo la strada. Il mezzo impiegherà quasi 2 ore a percorre gli 80 chilometri
che separano il confine dalla prima grande città ucraina. Tra una fermata e
l’altra salgono molti passeggeri, perlopiù donne. Il pullman ci lascia nella
periferia di Leopoli da dove dovrò prendere un altro autobus per poter arrivare
in centro città. Il paesaggio rurale fatto di boschi, campi coltivati e case di
campagna dal tetto spiovente lascia spazio ad una vera e propria metropoli. In
città le macchine si muovono tranquillamente formando dei veri e propri
ingorghi. Arrivato
alla stazione dei treni comincio a camminare verso il centro, notando una città
nelle sue piene funzioni. I supermercati sono riforniti di tutte le derrate, trovo
sugli scaffali sia cibi conservati che freschi: i primi a scarseggiare in un’economia
di guerra. Il fronte da qui è lontano. La battaglia si sta combattendo nel sud
est del paese. A Leopoli le principali criticità sono state rappresentate da
due attacchi missilistici negli ultimi due mesi. In uno dei quali, nel
tentativo di abbattere una casa cantoniera vicino la ferrovia, hanno perso la
vita 6 persone. Qui, non c’è nessun regime ad opprimere, non c’è l’invasore,
alle persone non resta che vivere normalmente, per quanto possa essere disumanizzante
una normalità in cui una bomba da un momento all’altro può cadere dal cielo
distruggendoti la casa, uccidendo un tuo caro o mettere a rischio la tua vita.
Si respira un clima di tensione. Una tensione mantenuta a regola d’arte in tutto
il paese dall’esercito di Putin, che piano piano avanza nella sua conquista del
territorio. La battaglia non sarà lampo e non lo poteva essere. Conquistare
militarmente un territorio, anche se vasto come l’Ucraina, per la Russia non
sarebbe stato difficile. Il problema è mantenerlo. Distruggere i territori del
sud est ora in maniera lenta, servirà dopo per il tentativo di ricostruzione e
russificazione della zona. Una guerra lunga porterà grandi conseguenze
sull’Ucraina e su parte dell’Europa, indebolendone inevitabilmente le establishment politiche e a trarne i
benefici saranno i due imperialismi contrapposti: quello filorusso-cinese e
quello americano.
Una
ragazza in un piccolo chiosco mi racconta come le cose nel paese non siano
tutte uguali: a Kharkiv mancano i beni di prima necessità, l’acqua è consegnata
con le cisterne e di aiuti umanitari non si vede traccia.Milioni di euro raccolti per la causa ucraina
si infrangono nelle maglie della burocrazia e, proprio dove servono, mancano. Nel frattempo migliaia di Ucraini sono stati
fatti evacuare in una prima fase del conflitto. Di alcune donne e bambini
si sono purtroppo perse le tracce, andando probabilmente ad alimentare il
business della tratta di esseri umani della criminalità organizzata. Altri
sono arrivati in Europa e non hanno soldi né capacità per affrontare il viaggio
di ritorno, con il rischio eventuale di una ripresa del conflitto nel loro
territorio. A
che prezzo abbiamo deciso di armare la resistenza? Tutti condanniamo l’invasione, ma le persone
muoiono, le città vengono distrutte e un abitante del posto ha tutto da perdere
e nulla da guadagnare se non il rimanere vivo. Una presenza maggiore di
volontari internazionali, con una riduzione di invio delle armi nel paese,
potrebbe portare ad una de-escalation del conflitto. Putin non si può permettere vittime accidentali
tra gli europei. Ricordando le parole di Don Primo Mazzolari: “La guerra si può
combattere solo tra lupi, con le regole del lupo, mentre la resistenza la si
può fare rimanendo agnelli nel metodo e nell’anima”. Siamo sicuri che non
rispondere alla provocazione russa non avrebbe permesso di salvare delle vite?
E che una resistenza nonviolenta sul territorio non avrebbe reso le cose più
difficili alla Russia di quanto non sia rispondere con i loro mezzi, sapendo
già di andare a sbattere contro il muro? Un muro fatto da un esercito e
composto da uno degli arsenali maggiormente equipaggiati al mondo. Senza
contare la molteplice vita delle armi, una volta armati i civili, se anche il
conflitto finisse ora, ci vorrebbero decenni per toglierle dalla strada.
Rientro
in Polonia prima del tramonto, neanche il tempo di poter riorganizzare i miei
pensieri che ricevo la notizia di cinque esplosioni avvenute a Leopoli. Sono
state colpite alcune infrastrutture elettriche e la città è per metà al buio.
Vorrei essere lì, per capire, partecipare, condividere. Provo un senso di
impotenza, ero appena tornato da una città viva, che mi dava speranza e ora è sprofondata di nuovo nel terrore. Chi c’era ad assistere quelle persone, a
rassicurarle? Per la prima volta, ci ritroviamo in una
guerra in diretta, di cui sappiamo tutto, a volte anche prima che accada. Questo
perché la maggior parte delle infrastrutture sono ancora in piedi, con le
dovute eccezioni per alcune parti del paese. È quasi una guerra semplice da
seguire, che ha resuscitato inviati stampa di mezzo mondo, fino ad ora
impegnati a seguire i conflitti dalle scrivanie delle loro redazioni. La
spettacolarizzazione dello scontro non fa altro che giustificare l’unica via
possibile, dandone per scontato la continuazione. Si parla di vincitori e di
vinti, di territori occupati e di resistenza, ma la resistenza è sempre quella
armata, non viene mai sottolineata la resistenza di chi è rimasto e continua a
vivere tra mille difficoltà. Se si vogliono evitare altre morti bisogna
smettere di inviare armi e, allo stesso tempo, interrompere il flusso dei rubli
che gonfia le tasche del Cremlino.