Una
botta, non letale, agli extraprofitti. Da
cosa cattiva, anzi pessima, può nascere una cosa buona, o quasi? Alcuni forse
ricorderanno che tra le tante citazioni di MaoTsetung - autentiche o apocrife
che fossero - che più di mezzo secolo fa abbondavano sulle labbra e negli
scritti di esponenti dei vari movimenti “filocinesi”, vi era quella in cui il
Grande Timoniere raccontava che alcuni secoli prima erano state spezzate le
ginocchia a uno scrittore non gradito ai potenti per impedirgli di tentare la
fuga dalla prigione in cui era stato rinchiuso. Ma proprio questa condizione di
immobilità lo spinse a scrivere il suo capolavoro. La controprova che avrebbe
potuto scriverlo anche con le ginocchia intere non è data. Allo stesso modo
dall’economia di guerra nella quale siamo entrati per la scelleratezza dei
nostri governanti, spunta un provvedimento che tra le altre cose contiene
un’elevazione dal 10% al 25% della tassazione sugli extraprofitti realizzati in
questi ultimi mesi dalle imprese produttrici di energia. Una misura in realtà
ancora timida, sia nella quantità sia nella durata, essendo limitata a colpire
il margine tra operazioni attive e passive a fini Iva generato dagli
eccezionali rincari di gas ed elettricità riguardanti il periodo dall’ ottobre
dello scorso anno all’aprile di quello in corso. La causa di tali aumenti viene
attribuita alle misure sanzionatorie contro la Russia e le relative reazioni,
insomma agli sconvolgimenti provocati dalla guerra in atto in Ucraina. Ma a ben
vedere le cose non stanno esattamente così. In primo luogo gli aumenti dei
prezzi sono antecedenti allo scoppio della guerra, risalendo al periodo nel
quale l’attenuazione della violenza pandemica ha permesso una certa ripresa
economica e quindi maggiore domanda di energia. In secondo luogo il prezzo del
gas non è più frutto di accordi contrattuali con i produttori, ma viene deciso
alla Borsa di Amsterdam, il che facilita le manovre speculative sui futures che portano ad un aumento dei
prezzi. Dopo di che la guerra ci ha messo un carico da novanta. Grazie
all’innalzamento della tassazione al 25% il governo conta di ricavare un
introito di oltre 6 miliardi di euro, in luogo dei 4,4 stimati quando la
tassazione era prevista al 10%. Illudendosi così di evitare un necessario
scostamento di bilancio. Appena tale misura è stata annunciata si è verificata
una levata di scudi da parte delle aziende interessate.
Si è parlato di
stangata, di una nuova Robin Hood tax, si è gridato addirittura alla
incostituzionalità della norma, appellandosi alla sentenza della Consulta
contro l’addizionale Ires a carico delle imprese del settore energetico introdotta
nel 2008. In altre parole per i general manager delle grandi compagnie
l’economia di guerra avrebbe dovuto comportare semplicemente maggiori sacrifici
per la cittadinanza, mentre qualunque provvedimento teso a ridurne i profitti,
come è stato esplicitamente e senza pudore dichiarato, avrebbe potuto
compromettere la capacità operativa delle imprese. In realtà - ed è lo stesso
organo della Confindustria che ce lo dice - la pubblicazione del decreto si è
rivelata “una notizia negativa, ma con impatti limitati”. Non ci sono stati
crolli a Piazza Affari, anche se utility ed
energetici sono in coda al listino. È
soprattutto la natura una tantum del
provvedimento a calmare le reazioni isteriche al momento dell’annuncio. Ma
naturalmente questo non significa che le imprese abbiano rinunciato del tutto a
sollevare la questione della presunta incostituzionalità della norma. Malgrado
che la Corte Costituzionale abbia qualche anno fa sostenuto che un trattamento
formalmente discriminatorio delle imprese è giustificato proprio dallo “stampo
oligopolistico del settore” e dalla scarsa elasticità della domanda. Insomma
gli uffici legali sono al lavoro concentrando la loro attenzione sul criterio
di misurazione che qualifica l’extraprofitto. Anche qui: senza pudore. Fa
davvero senso che venga invocato l’articolo 3 della Costituzione e l’articolo 53
sulla progressività del sistema tributario, da parte di forze che pongono
divieti alla stessa revisione del catasto per paura che la tassazione sia
coerente con il valore effettivo delle proprietà immobiliari. Proprio per
questo non ci si dovrebbe fermare a un 25% una tantum. Non solo perché cifre
ben superiori troverebbero la loro giustificazione nell’attuale contingenza, la
cui durata non può essere valutata solo in qualche mese, come anche l’ultimo
bollettino di Bankitalia ci dice con i suoi negativi scenari sull’andamento
dell’economia internazionale e italiana. Sia e soprattutto perché questo timido
e insufficiente passo, come pure quello che si muove a livello internazionale
sulla tassazione delle multinazionali, sottolinea a sua volta che una tassa
patrimoniale sulle ricchezze, in qualsiasi forma esse si presentino e si siano
formate, è una misura non solo di igiene fiscale, ma di riequilibrio, seppure
parziale, della crescente diseguaglianza sociale. E non ci sarebbe stato il
bisogno di una guerra per farlo capire.