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giovedì 26 maggio 2022

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
 


La scuola


Il significato delle parole viene dedotto da una perifrasi, fatta con i simboli del codice (alfabeto), attinente al processo di riproduzione, di cui ne inquadra un aspetto. Pertanto, essendo le perifrasi vaghe e generiche, è possibile ricavare più significati da un simbolo fonico-grafico. Sfogliando il vocabolario greco, talvolta, anche quello latino, un solo lemma rimanda a più significati. Inoltre, ci sono parole che, inizialmente, il pastore non coniò, perché non ne avvertiva il bisogno. Il simbolo σχολή significò: tempo libero, riposo, ozio, lentezza, pigrizia, occupazione intellettuale, scuola, anche: conferenza, studio, tregua, finanche: corpo di soldati, da cui, probabilmente, le scolte. Tutti questi concetti furono desunti da una perifrasi che si può rendere così: passa il mancare, fa lo sciogliere dal generare il legare.
Alcuni pensarono al periodo di gestazione come attesa (senza nulla fare) dell’evento, ad indicare un periodo (le rigide giornate invernali) di inattività, altri pensarono alla metafora del travaglio come guerra (corpo di soldati), altri alla stasi (come tregua) che precede il travaglio, altri pensarono che, durante la gestazione (il mancare), le cogitazioni erano continue (occupazione intellettuale).
Quando, poi, si sentì la necessità di definire il concetto di scuola, perché le realtà sociali della Grecia avevano capito l’importanza della formazione dei piccoli, si scoperse in σχολή il simbolo adatto per indicare il bambino, che passa il mancare (che non sa), dal legare, che rappresenta un fare, per cui, facendo e osservando come si fa, s’impara. La scuola necessita di una guida: il pedagogo, come persona preposta all’educazione del bimbo. Pertanto, il simbolo di σχολή, al di là dei significati originari, passò ad indicare, in Grecia, a Roma, nel mondo, in tutti i tempi, la particolare istituzione che tutti conosciamo.



A scuola si insegna, si istruisce: (didasco) διδάσκω. Il grembo materno consente al pastore di identificare tutto il reale. La creazione dell’essere è un’opera, una grande opera, da cui si evincono tante cose: le tecniche per portare a termine un lavoro, i processi/sequenze, i materiali, il tempo necessario, ecc.; inoltre, chi possiede un’arte (un artigiano) ha la possibilità di insegnare agli apprendisti. Pertanto, διδάσκω è da tradurre: è ciò che consegue dal generare il legare, che consente, per divenire, la creazione dell’essere, dal crescere il mancare (ciò che non c’è). Questa sibillina perifrasi vuole significare, attraverso la metafora del grembo che realizza un’opera, che insegnare è mostrare come si fa. Il compito di insegnare quello che è importante trasmettere è demandato al (didascalos) διδάσκαλος (maestro), che si avvale della (didaxis) διδάξις (insegnamento), che fa le sue didascalie, che è didascalico, che svolge la sua attività nella scuola: (didascaleion) διδασκαλεον. In chi ha già insegnato o in ciò che è stato insegnato (didaktos) διδακτός si riverbera chi ha imparato, talvolta anche da solo: autodidatta, ma il διδακτός (colui che ha insegnato) è didattico, che è il modo di chi si adopera per tramettere al meglio le conoscenze importanti e necessarie. Il bravo didatta, dissero i greci, prepara la costruzione dei saperi, in quanto sa quanto è importante essere propedeutici, da (propaideuo) προπαιδεύω: istruisco prima, nel senso che c’è sempre un’istruzione preliminare e preparatoria, ed ha un metodo, in greco: (methodos) μεθ-όδος: ricerca, modo d’investigare, anche: stratagemma. In realtà con metodo indicarono gli espedienti (stratagemmi) per insegnare e per imparare: trovare la via (odòs) δός opportuna per crescere e far crescere nei saperi, utilizzando al meglio le conoscenze scientifiche pregresse.



Per imparare, occorre la diatriba (διατριβή), sinonimo di σχολή, una sorta di maieutica socratica, cioè: lo studio, la conversazione serrata anche per acquisire conoscenze scientifiche, ma anche: perdita di tempo, ritardo, passatempo, divertimento. Occorre anche la (spoudé) σπουδή, che indicò cura, interesse, diligenza, zelo e, infine, per i latini, lo studio (studium), come amore per/predilezione; la σπουδή dei greci divenne sia la passione (da πάθος nel senso di: partecipazione) sia lo zelo (ζλος), l’ardore della cultura italica, di cui si avvale colui che cerca di ottenere e/o di realizzare qualcosa che desidera intensamente. Mi piace soffermarmi sul significato assegnato a cura dal pastore latino: l’attenzione ai bisogni della gestante. Prendersi cura indica, come primo significato, accudire la gravida, venendo incontro ai suoi bisogni. È ciò che deve fare un docente nei riguardi di un alunno.
Se c’è uno che insegna, c’è anche chi impara, in greco (manthano) μανθάνω: imparo, osservo, studio. Dalla radice (math) μαθ (genera il crescere il rimanere) furono coniati: (matema matematos) μάθημα μαθήματος: studio, scienza, disciplina, quindi: (matemata) μαθήματα: scienze matematiche e matematico. Nella lingua italiana da μαθ fu dedotta materia come disciplina d’insegnamento. Inoltre, sempre da questa radice, gli italici dedussero μαθtro (mastro), attraverso questo ragionamento: se c’è uno che impara, si deve dedurre che c’è uno che insegna. Il mastro, nelle zone della Magna-Grecia, è l’artigiano che, nella sua bottega, trasmette la sua arte ai discepoli, da disco: imparo, identifica gli apprendisti.
I latini, con una perifrasi di questo tipo: fa dallo scorrere il passare da dentro il legare, coniarono prehendo: prendo (la creatura che nasce), afferro, poi dedussero che il legare del grembo, come divenire, determinava la comprensione di quanto avveniva, ma anche apprendo come far proprio/a (quella creatura), per cui, in italiano, si ebbe apprendimento, come possesso (ciò che è rimasto legato/impresso) dell’arte e delle arti per realizzare la creatura in grembo.
L’omologo del didatta/didascalo, in latino, fu magister, dedotto dalla radice (mag) μαγ (dal generare il rimanere) di (masso) μάσσω: impasto (da lievitazione). Il magister è colui che sa, che sa ottenere di più, è il competente nelle singole attività, che sovraintende, per cui c’è il magister populi, equitum, militiae, navigandi, morum, artium, magister ludi (maestro di scuola elementare, che sa dare, anche attraverso il gioco, quello di cui il bambino necessita), c’è, inoltre, il maestro tuttologo: est omnium rerum magister usus.



Per capire il processo formativo di magister da parte dei latini, occorre ripercorrere tutti i passaggi. Dalla radice μαγ (è ciò che si genera dal rimanere in grembo) aggiungendo is, in cui il sigma è da leggere δ con il significato, probabilmente, di legare, i latini dedussero più/di più, in quanto pensarono che il flusso gravidico, quando lega con la madre, fa sviluppare l’essere in formazione. Poi, pensarono ad una persona, che non solo fa crescere, ma che realizza, con l’inventiva e in modo sequenziale, la creatura, diventando maestro di una grandissima arte. Pertanto, il magister è colui che sa ottenere di più, che possiede l’arte a lui demandata e che, quindi, riesce a trasmetterla. A questo punto, bisogna aggiungere che la vera maestra, che possiede la maestria (in dialetto, si realizza in chi ha ottima capacità manipolativa: mastriid’) è la massaia (da μάσσω), che dal chicco del grano riesce a formare il pane fragrante! Mi piace ribadire che i latini, da μαγ, ricavarono: magnus, maior, maximus.
La parola professore, oggi molto qualificante, non dice nulla di ciò che è inerente all’attività dell’insegnare. Infatti, dalla radice fat (fa generare il tendere, quando il grembo è evidente: di fronte a fatti incontestabili) fu coniato il deponente fateor: ammetto, riconosco, poi: confiteor (ammetto, confesso) confessus (che ha confessato) e confessione, poi, profiteor: mi qualifico pubblicamente per, da chi si è professato pubblicamente ricavarono: professione, nel senso iniziale di pubblica ammissione e/o dichiarazione, e professor: pubblico maestro.
Il magister docet, da doc-eo: insegno, istruisco, mostro, informo, indico. Doceo compendia διδάσκω; infatti, il pastore latino asserisce: quando lego, faccio, costruisco, realizzo qualcosa, mostro come si fa, insegno. Per indicare questo concetto usa questa perifrasi: è ciò che consegue (eo), quando la creatura si lega alla madre: l’inizio del processo di creazione/realizzazione. Da questo verbo furono dedotti: docente, docenza, dotto (colui che è dotto), edotto, dottore, dottrina, indottrinare ecc. Il docente è dotto, spazia per teoria (ha la sua dottrina) e pratica in un determinato ambito operativo; in quanto tale, è capace di trasmettere ai discenti competenze teoriche, con valenza scientifica, e abilità operative per eseguire bene quanto proposto. Inoltre, da doc fu dedotto: documentum: prova, esempio, modello, testimonianza, per cui il bravo docente comprova, fa gli esempi, si avvale di modelli, si documenta e, quindi, documenta le sue affermazioni.



Il pastore greco aveva coniato il verbo medio (theaomai) θεάομαι: osservo, contemplo, da cui aveva dedotto il verbo (theoreo) θεωρέω: osservo, medito, esamino, paragono, giudico, quindi: teoria e teorico, in quanto nell’osservazione dei processi di natura si deducono le giuste sequenze, ma anche ciò che è sempre uguale, che ha valore di scienza: la dottrina/teoria.
Da doceo fu, sicuramente, dedotto docile, in latino: che si può istruire, che si lascia ammaestrare. Il bravo docente rende docili i suoi studenti, perché, dando al momento opportuno quello che serve (conoscenze puntuali ed esempi pratici), con il suo modo di essere e di fare, è capace di legarli, di avvincerli. Nel mio dialetto, per rendere docile un bambino, si dice: hai, nel senso di devi, accuccivuia’ (dare lo zuccherino, le caramelle, che una volta erano i cocciarelli).
Un sinonimo di doceo è in-struo: innalzo, fabbrico, ordino, istruisco, dedotto da struo: elevo, erigo, in cui l’arte muraria diventa metafora della costruzione dei saperi. Certamente, il docente non può e non deve essere un istruttore, che mostra come si fa la costruzione, ma deve essere consapevole che i saperi vanno costruiti in sequenza e che, senza il possesso delle conoscenze e senza strutture salde, ogni costruzione si sfalda. Inoltre, non si può sottacere che da instruo fu dedotto instrumentum: mezzo, strumento, da intendere nell’accezione la più ampia possibile. Gli strumenti per costruire sono indispensabili!
Gli italici coniarono insegnare, che, probabilmente, rimanda a doceo, perché signare significò, oltre a marcare, noto, osservo, considero (faccio notare quello che si è realizzato e, quindi, come si fa), oppure, ma è poco plausibile, può indicare: esplicitare il segno, ad indicare l’interpretazione dei segni, di tutti i segni, per conoscerne il significato. Pertanto, l’alunno cui si insegna non è un soggetto passivo in cui si imprimono conoscenze, in cui si lascia il segno, ma un essere attivo che apprende, osservando il reale e conservando il frutto delle esperienze. Il deverbale di insegnare è insegnamento, che è ciò che mi resta dalle riflessioni su quanto ho osservato o su quanto mi è stato proposto di osservare.
I latini per indicare imparo, coniarono disco, che è il risultato della seguente perifrasi: è ciò che consegue dal mancare l’andare a legare, che indica che, dal grembo, c’è la possibilità di discere (imparare), osservando come si realizza la creatura. Nel discente c’è anche la voglia di apprendere (legare), in quanto si rende conto che manca dell’arte per la quale prova interesse. Ciò vuol dire che senza motivazioni non c’è apprendimento, per cui il maestro stimola ad apprendere, infondendo fiducia (accrescendo l’autostima).



Inoltre, gli italici coniarono im-paro, che rimanda alla radice par, largamente usata da greci, latini ed italici, che è estremamente generica e rimanda a: fa generare lo scorrere, che indica un qualcosa che avviene durante i nove mesi. Pertanto, con imparare si indicò, anche qui, osservare ciò che avviene. L’apprendimento è frutto di un interesse, di intelligenza (capire cosa e come si fa) e di capacità applicativa. A scuola è molto importante stimolare ad imparare, per cui l’apprendimento diventa un bisogno ed una conquista. A questo punto, voglio ricordare che nel mio dialetto imparare è usato anche nel senso di: insegnare: la mia maestra m’impara tutto.
Infine, in un gruppo di ragazzi facilmente s’innesca la competizione, che il bravo maestro non alimenta, perché la gara determina la vittoria di uno o di pochissimi, causando frustrante sconfitta in tutti gli altri.
I greci da zelo, cura, ardore dedussero (zelotès) ζηλωτής, che è colui che mette impegno nel fare, ma è anche imitatore, mentre i latini coniarono aemulus, che è colui che prende a modello chi sa fare meglio. Essere emulo di significa voler prendere a modello una persona geniale, quella che ha realizzato la creatura, determinando una spinta a crescere con l’ausilio dell’altro, da cui devo apprendere, come dal maestro.



Il maestro ha tanti altri compiti: saper esaminare, saper valutare, che, inizialmente, erano sinonimi. I latini da σμα, che è la forma dorica di σμα: segno (della gravida), ricavarono ekσμen examinis: esame e, poi, esamino. Il pastore, per esaminare, aveva dei parametri, ai quali era necessario ed indispensabile attenersi. La valutazione consegue all’esame che si è fatto. I greci da δοκέω, con il significato di stimo, dedussero: (docimo) δόκιμος, nel senso di saggiato, idoneo a, che è l’essenza della vera docimologia: saggiare se è idoneo. Pertanto, la scuola, a fine percorso, potrebbe indicare le idoneità che lo studente ha conseguito.
Si evita di parlare di misure correttive, che nel mondo antico erano particolarmente dure e traumatizzanti. Uno dei modi, per i greci, per indicare punizione è δίκη, che rimanda a giustizia, quella del grembo: chi sbaglia viene legato. I latini per indicare pena e punire si avvalsero di (poiné) ποινή, che indica la condizione della creatura nel grembo: legata e ristretta. Il verbo educare fu coniato dai latini, ma il vero significato fu attribuito dagli italici, che, per educare, si avvalevano dei castighi. Educare rimanda alla radice duc, alla greca: δυχ (lego durante il passare, che è la gestazione). I latini diedero al verbo educare il significato prevalente di nutrire, crescere, in quanto il legame tra madre e creatura fa crescere l’essere in formazione (infatti Foscolo poté dire: “le fontane versando acque lustrali/educavano amaranti e viole”), mentre gli italici pensarono a legare con funzione correttiva. Il significato di castigo, oggi, è del tutto improponibile, in quanto rimanda alla radice (stig) στιγ, che dette luogo a (stizo) στίζω: imprimo segni, marchio, bollo e a στιγμή: puntura, marchiatura.
Tutta l’attività scolastica (insegnamento-apprendimento) deve mirare a dare competenze e abilità, ma soprattutto a fare cultura, che è la metafora dell’attività agricola; da cultus (coltivato), participio passato di colo (coltivo), nascono: il colto (colui che ha colt0 e, quindi, conosce tutto il processo), il cultore, la coltivazione (coltura/cultura), che attiene a dissodare il terreno, seminare, curare i germogli perché possano fruttificare, secondo la loro natura. Nel curare, nel coltivare con dedizione la pianticella-uomo si coglie il frutto, che è la cultura: obiettivo finale del fare scuola. Dal seme della mela si forma, attraverso un complesso processo, il frutto della mela, che è qualcosa del tutto diverso dalle singole componenti e dalle varie fasi sequenziali.