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domenica 19 giugno 2022

ERASMO E LA CRITICA DELLA GUERRA 
di Franco Toscani

 
1. Erasmo, “europeo consapevole”
 
Il più famoso umanista del suo tempo e grande interprete dell'umanesimo cristiano, il filologo, teologo, scrittore e filosofo Desiderius Erasmus Roterodamus (Geer Gerttsz, Rotterdam,1466-Basilea,1536), figlio illegittimo di un sacerdote, fu il primo bewuβte Europäer ("europeo consapevole", come lo definì ottimamente Stefan Zweig nel 1934),[1] non solo perché girò mezza Europa, soggiornando a lungo nei Paesi Bassi, in Germania, in Inghilterra, in Italia, in Svizzera, in Francia. Ancor più lo fu come un uomo libero che non aderì mai acriticamente alle posizioni dei cattolici e dei protestanti; come un intellettuale cosmopolita, un "funzionario dell'umanità" (secondo la definizione che nel XX secolo diede Edmund Husserl del filosofo), al servizio non di una corte, di un partito, di uno stato, di una chiesa, di un re, di un qualsivoglia potente, ma esclusivamente interessato alle sorti dell' "uomo planetario" (come direbbe oggi Ernesto Balducci). Va aggiunto che per noi il filosofo non può più essere nel nostro tempo "funzionario dell'umanità" senza essere, nel contempo, anche funzionario della Terra saccheggiata, sconvolta e minacciata, senza quella "cura del Tutto" che rende nobile e fruttuosa la nostra esistenza.
Sino all'ultimo Erasmo confermò il suo anticonformismo, rifiutando nel 1535 il cappello cardinalizio offertogli dal papa e morendo nel 1536 a Basilea, in piena coscienza, senza chiedere la presenza di un confessore.
Festina lente ("Affrettati lentamente", proverbio 1001 degli Adagia) fu sempre il suo motto (come pure del suo amico Aldo Manuzio e della sua stamperia a Venezia), all'insegna del delfino che si attorciglia all'àncora, dove il delfino è il simbolo della celerità/intensità dell'impegno lavorativo e l'àncora è il simbolo della stabilità e della lentezza caratterizzanti ogni lavoro accurato.


 
2. Sulle tracce di Erasmo. Lo sguardo filosofico e la critica della guerra
 
Gli Adagia sono una raccolta di motti e proverbi (gemmulae, piccole pietre preziose) della classicità greca e romana, raccolta che per decenni Erasmo continuò a rielaborare e ad arricchire: la prima edizione del 1500 conteneva 818 proverbi e detti, saranno ben 4151 nell'ultima del 1536. Nell'edizione degli Adagia pubblicata nel 1515 a Basilea dall'editore Froben, il commento dell'autore ad alcuni importanti proverbi dà vita alla formazione di saggi autonomi piuttosto lunghi dal rilevante significato politico, etico-religioso, teologico e filosofico: tra questi vi è Dulce bellum inexpertis, su cui soffermeremo qui la nostra attenzione e a cui faremo riferimento nell'ottima traduzione di Silvana Seidel Menchi. Su di esso, negli ultimi anni della sua vita, Delio Cantimori tenne due seminari presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Firenze e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Noi qui seguiremo passo dopo passo il discorso sulla guerra avviato in Dulce bellum inexpertis (e proseguito nella Querela pacis, 1517), cercando di fornire la nostra interpretazione, ma lasciando soprattutto spazio alle sue lucide riflessioni.
In saggi come questo, esplicitamente rivolto contro la guerra, il ricorso alla filologia e all'erudizione non è più sufficiente e si esplica pienamente la vena e la forte vocazione di teologo critico delle deviazioni della società e cultura cristiane del suo tempo. Nella lettera al suo antico allievo e mecenate Lord Mountjoy che accompagna nel 1508 l'edizione aldina degli Adagia, Erasmo scrive infatti che la teologia "non si limita a coltivare l'intelletto, ma riguarda anche la pietas della vita".[2]
Dulce bellum inexpertis (traducibile, come fa Seidel Menchi, con "Chi ama la guerra, non l'ha vista in faccia" oppure con "La guerra è piacevole per quelli che non l'hanno sperimentata") è tratto da un frammento di Pindaro (VI-V sec. a. C.): "Γλυκς δ πόλεμος πείροισιν, μπείρων δέ τις ταρβε προσιόντα νιν καρδί περισσς" ("La guerra è grata a chi non l'ha sperimentata, ma chi l'ha sperimentata prova un grande orrore se essa si avvicina al suo cuore", fragm. 110, ediz. B. Snell), poi ripreso da Vegezio (IV-V sec. d. C.) nel capitolo quattordicesimo, libro terzo del De re militari (Arte della guerra): "Nec confidas satis, si tyro praelium cupit, inexpertis enim dulcis est pugna" ("Non ti fidare se il coscritto anela allo scontro: la battaglia attrae chi non l'ha provata"). Dulce bellum inexpertis è dunque un adagium giustamente celebratum, letterariamente assai divulgato, per la sua tesi centrale secondo cui la guerra è fra quelle esperienze umane che non si possono comprendere appieno finché non si sono personalmente sperimentate (cfr. AD, 196-197).
Sono in gioco qui i rapporti molto stretti fra guerra, violenza e potere. Subito dopo aver citato Pindaro e Vegezio, infatti, assai significativamente Erasmo allarga il suo discorso all'esperienza e all'inesperienza del potere, mettendo in guardia circa l'amarezza, il disincanto e la delusione provati da coloro che sono troppo prossimi ai potenti. A questo scopo egli cita due versi lungimiranti tratti dalle Epistulae (I, 18, 86-87) di Orazio: " Dulcis inexpertis cultura potentis amici:/ expertus metuit" ("Per l'inesperto è dolce corteggiare/ un amico potente, ma l'esperto/ ne teme", trad. it. di Enzio Cetrangolo. Cfr. AD, 197-198).
In ogni caso, la guerra è per Erasmo ciò che bisogna modis omnibus fugere, deprecari, propellere ("in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana"), perché non alia res vel magis impia vel calamitosior vel latius perniciosa vel haerens tenacius vel tetrior et in totum hominem indignior, ut ne dicam christiano ("non c'è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell'insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano").


L'autore degli Adagia constata invece che si fa in generale un ricorso troppo frequente e leggero, per le ragioni più futili e inconsistenti, alla guerra, da parte di tutti: pagani e cristiani, giovani e vecchi, esperti e inesperti, principi e re, masse popolari, sacerdoti e vescovi; persino giureconsulti e teologi aizzano a compiere queste nefandezze e infamie (nefaria). La guerra è a tal punto recepita e conformisticamente accettata che nel XVI secolo passa per irreligioso, eretico e stravagante non colui che la pratica, ma colui che la rifiuta, come se non si trattasse dell’ “iniziativa più scellerata e calamitosa” (res sceleratissima ita miserrima) fra tutte quelle possibili. Fa dunque meraviglia l'opposizione alla guerra e non il fatto che l'uomo - preordinato alla civile e solidale convivenza, oltre che predestinato alla salvezza - si trasformi in un essere beluino, si faccia promotore o vittima di sterminio, di un tale flagello (pestis. Cfr. AD, 198-199).
Ciò accade quando l'uomo, cedendo alle opinioni e alle ideologie dominanti, non considera l'essenza e la natura delle cose, non vede più il mondo "con lo sguardo del filosofo" (philosophicis oculis), ossia con quell'ampiezza e lungimiranza di valutazione che sarebbero necessarie (cfr. AD, 198-201). Lo sguardo del filosofo non si abbandona a ciò che appare ovvio e scontato, ha una profonda tensione veritativa, è panoramico, dall'alto, non nel senso di una inesistente o inconsistente altezzosità, superiorità e arroganza dell'atteggiamento, ma nel senso di un peculiare e attento rivolgimento alla totalità e alla comprensione dell'interrelazione tra le parti, nel senso di una visione complessiva che tenta di soppesare e valutare il senso e il valore delle cose. Come ha rilevato ottimamente Pierre Hadot, lo "sguardo dall'alto" filosofico ci libera dalle visioni unilaterali e meramente egoistiche o individuali e ci apre a una prospettiva universale: "ciò che conta è liberarci dai paraocchi, (...) che riducono la nostra visione al nostro esclusivo interesse. Si tratta di mettersi al posto degli altri e di tentare di inserire la nostra azione nell'ottica dell'umanità, non dell'umanità astratta, ma degli altri uomini, e insieme anche nell'ottica del mondo, non tanto per dire che cosa noi possiamo apportare al cosmo, quanto per porre gli eventi in questa prospettiva più ampia. È un tema molto tradizionale ed essenziale che si può riassumere così: la terra stessa non è che un punto, noi siamo qualcosa di microscopico nell'immensità"[3]. Questo "sguardo dall'alto" esige uno sforzo dell'immaginazione e dell'intelligenza "destinato soprattutto a ricollocare l'essere umano nell'immensità dell'universo, a fargli prendere coscienza di quello che è. In primo luogo coscienza della sua debolezza, poiché gli fa sentire quante cose umane, che ci paiono di importanza capitale, siano, considerate in questa prospettiva, di una piccolezza risibile. (...) Si tratta inoltre di far prendere coscienza all'essere umano della grandezza dell'uomo, il cui spirito è in grado di percorrere tutto l'universo. Questo esercizio induce infatti a un ampliamento della coscienza, a una sorta di volo dell'anima verso l'infinito, quello che Lucrezio descrive a proposito di Epicuro. Soprattutto, ha come effetto di permettere all'individuo di vedere le cose in una prospettiva universale e di liberarlo dal suo punto di vista egoista. Ecco perché questo sguardo dall'alto conduce all'imparzialità".[4] È uno sguardo di questo tipo che accompagna sempre il discorso dell'autore di Dulce bellum inexpertis nella sua lucidissima fenomenologia della guerra, sulle cui tracce ci inoltriamo.

 
  
Note
1. Cfr. S. Zweig, Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, 1934; trad. it. di L. Mazzucchetti, Erasmo da Rotterdam, Rusconi, Milano 1994, p. 7.
 
2. Cit. in S. Seidel Menchi, Introduzione, in Erasmo da Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1980, pp. XXV-XXVI. Si tratta di una splendida edizione contenente i saggi Aut regem aut fatuum nasci oportere, A mortuo tributum exigere, Spartam nactus es, hanc orna, Sileni Alcibiadis, Scarabeus aquilam quaerit, Dulce bellum inexpertis. D'ora in poi l'opera sarà citata nel testo con la sigla AD.
 
3. Cfr. P. Hadot, La philosophie comme manière de vivre. Entretiens avec Jeannie Carlier et Arnold I. Davidson, 2001; trad. it. di A. C. Peduzzi e L. Cremonesi, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino 2008, pp. 183-184.