La prima parte di questo reportage è apparsa ieri sulla prima pagina di "Odissea"
Parte Seconda 1)Coro: il mito di Odessa Per chi arrivi
da Mykolaiv, Odessa si annuncia con una coorte di palazzi di epoca socialista
talmente alti da fermare anche il buran, quando soffia d’inverno. La periferia
della città è estremamente povera. Appartamenti su appartamenti, con la carta
argentata alle finestre a difendersi dal sole giaguaro estivo. I tram si
scuotono nella corsa, spesso trascinano bambini che si aggrappano alla parte
posteriore della vettura per viaggiare gratis. Non perché non abbiano i soldi
per comprare il biglietto, ma perché il viaggio diventa così più eccitante. Le
rotaie, incassate nella sede stradale, sono ben visibili perché l’asfalto che
li dovrebbe coprire fino alla cima del fungo, dove c’è la superficie di
rotolamento, è in molti punti corroso dal freddo e dalle alte temperature aeree
estive. La periferia di
Odessa era, già prima della guerra, una delle più povere in tutta l’area ex
sovietica. È destinata a diventarlo ancora di più dopo il conflitto armato con
la Russia. Il popolo non si è mai arricchito sotto le bombe. La maggior parte
dei piccoli appartamenti, in cui d’estate a mala pena entra l’aria, è adesso
vuoto o è occupato da uomini che, a causa della legge marziale, non hanno
potuto lasciare l’Ucraina. Non sono obbligati a combattere ma non possono
lasciare il Paese. Il centro della
città, invece, conserva il fascino di un tempo, quello della città di mare,
aperta e ricca, abituata al confronto con la diversità. Odessa è anche un mito,
nato nel XVIII secolo, a opera di scrittori e giornalisti, che incensavano il
centro urbano, allora parte integrante dell’Impero Russo, e lo definivano “la
città d’oro”. Grazie allo scrittore Vladimir Zhabotinski, il leader sionista
famoso in tutto il mondo, la cultura alta europea arrivò a Odessa. Zhabotinski
era un faro per gli intellettuali del tempo, soprattutto ebrei, ed ebbe un
ruolo importante nel magnificare i fasti del borgo più importante del mar Nero.
La città fu
fondata nel 1791 dai russi; prima di allora, al posto di Odessa c’era una
fortezza turca che esisteva sin dal XV secolo. La postazione ottomana cadde nel
1789, quando l’esercito imperiale russo riuscì a sconfiggere il nemico; la
guerra russo-turca fu il coronamento, e anche la risoluzione definitiva, della
“questione turca”, che per secoli aveva agitato i circoli culturali di San
Pietroburgo. Come sbarazzarsi dei turchi dalle coste settentrionali del mar
Nero? Nel 1789, furono necessari solo 15 minuti perché i soldati russi
entrassero nel forte nemico. Due anni dopo, fu fondata Odessa, in cui abitavano
quasi esclusivamente greci: gli ortodossi, che non volevano stare più sotto la
Porta, ricevevano un trattamento agevolato per stabilirsi nell’impero russo,
nei luoghi deserti appena liberati dai turchi. In questo contesto, trovarono
ricetto nella zona di Odessa anche bulgari (che ricevettero case e terreni non
solo a Odessa, ma anche a Mykolaiv), serbi e albanesi. Caterina l’imperatrice
sedeva nel Palazzo d’Inverno e si chiedeva cosa fare di Odessa: lasciare che
restasse una semplice colonia greca o trasformarla in un porto internazionale.
Scelse la seconda alternativa e fece di Odessa quello che la città è oggi:
Odessa, appunto. Quando morì l’imperatrice, l’erede al trono, lo zar Paolo I
Petrovich, sospese tutte le concessioni che la madre aveva dato alla neonata
città. Gli odessiti, però, spedirono a San Pietroburgo 3.000 arance fresche,
appena raccolte, e l’imperatore si commosse a tal punto da fare marcia indietro
e ridare a Odessa ciò che era di Odessa. Nel 1795 il governatore De Ribas varò
un atto che invitava tutti gli stranieri che lo desiderassero a trasferirsi
nella neonata città. All’appello risposero tutti, anche italiani, francesi,
inglesi, oltre che ovviamente russi, ucraini, cosacchi e commercianti turchi.
Odessa diventò una città definitivamente cristiana e, purtroppo, l’eredità
turca, presente sulle coste settentrionali del Mar Nero, venne rimossa, se non
cancellata, come spesso accade nella Storia. Anche Odessa, patria della
diversità, aveva un diverso che non tollerava: l’Islam. Alla metà del XIX
secolo arrivarono invece gli ebrei, che ancora oggi sono l’anima della città.
Erano commercianti di successo e la cosa diede fastidio ai greci, che
organizzarono pogrom contro i nemici in nome della religione. Gli ebrei, però
tornarono presto, perché molti greci avevano già lasciato la città ed erano
tornati nella madrepatria, che aveva ottenuto l’indipendenza dall’impero turco
nel 1829. Nel 1897, le nazionalità principali che componevano il mosaico
demografico odessito erano quella russa (circa il 51% degli abitanti), quella
ebrea (32%); quella greca era ormai limitata e quasi ininfluente (1,3%). Il problema
principale di Odessa, e di tutta la costa settentrionale del Mar Nero, era
l’acqua: il primo acquedotto fu costruito solo nel 1870 e fino ad allora il
vino era più economico dell’acqua. Uno dei motivi, se non il principale, che ha
spinto Putin ad attaccare l’Ucraina è proprio la cronica mancanza d’acqua della
Crimea. Conquistare solo la Crimea, infatti, non ha senso: serve anche il
Donbass per poter collegare la penisola, di per sé arida, alle fonti di collina
e di montagna che si trovano a nord. La guerra in Ucraina scoppiata il 24
febbraio scorso è anche una delle tante guerre per l’acqua che affliggono il
nostro pianeta in questo momento.
2) Aria: Moldavanka, oh cara! L’anima
di Odessa non è il centro turistico, quello dei palazzi dei mercanti, dei caffè
turistici, dell’Opera, che in questi giorni è protetta da sacchi di sabbia, o
della scalinata che guarda al mare, quella su cui il regista Eisenstein girò La
corazzata Potiomkin. Il cuore della città è a Moldavanka, un quartiere
dagli edifici bassi, a due o tre piani, le cui facciate nascondono cortili
interni misteriosi e odorosi. Profumo di lavanda, di panni stessi, di aria
stantia e un po’ ammuffita negli androni, il posto ideale per cercare un po’ di
frescura durante la calura estiva. I cortili interni hanno la pavimentazione in
pietra squadrata, luccicante per via dei frequenti passaggi; raramente sono
asfaltati. Sono il regno indiscusso dei gatti, che a Odessa sono da sempre
presenti: nei porti di mare, infatti, a farla da padrone sono i topi: si
infiltrano nei magazzini di grano, mangiano ciò che resta del pesce che i
pescatori portano a riva, arrivano e partono con le navi di linea, con i cargo;
alcuni giungono dalla campagna, con i carichi di merci che devono essere
trasportati altrove via mare. I felini hanno più volte salvato Odessa dalle
invasioni dei roditori e per questo godono di un riconoscimento speciale
da parte degli abitanti della città: vanno dove vogliono, si sdraiano dove
vogliono, entrano a piacimento nelle case dei primi piani, dalle finestre
sempre aperte e dalle porte socchiuse per fare corrente. Le strade di
Moldavanka sono anonime, il turista in cerca di bellezze da fotografare non
troverebbe nulla di interessante in questa parte della città: solo facciate con
l’intonaco cadente, motorini che sfrecciano nelle vie, sguardi sfuggenti di
ragazze schive e il buio dei portoni. Non ci sono caffè, non ci sono
ristoranti, a meno che non si vada verso il mare; Dopo una breve corsa in tram,
si arriva in un quartiere residenziale dagli edifici moderni, che somigliano a
quello Bauhaus di Budapest. Ferro e cemento, androni spaziosi e ariosi
inquadrati in un minimalismo architettonico che passa quasi inosservato.
L’incauto passante che si fidi del vento non arriverà mai al mare. La brezza
spira dal mare ma rimbalza sui palazzi e sui boschi del promontorio sui cui
sorge Odessa, che ricorda moltissimo quello su cui troneggia Ancona. Nella città
adriatica, però, il vento spira dal mare, qui invece, nell’intrico di case e
alberi, si perde, impazzisce e le folate d’aria arrivano da ogni lato, dalla
vigna e dal mare, dalla collina e dai tetti. Meglio chiedere informazioni ai
gentili passanti, raggiungere l’ospedale, girare a destra e addentrarsi nel
bosco che separa la città dalla costa. Le scale scendono verso il litorale – un
po’ selvaggio, con la vegetazione tipicamente mediterranea di agavi e pini
abbarbicati sui declivi friabili di argilla – un po’ antropizzato, con hotel e
ristoranti a picco sul mare, il cui odore si sente solo a ridosso della
battigia. I russi non sono arrivati a Odessa, speriamo non arrivino mai. La
costa, così come tutto il sud dell’Ucraina, sono però già vittime di un’invasione,
anche se ben più pacifica di quella militare: le mimosacee hanno infatti preso
il sopravvento su tutte le altre forme di vegetazione: acacie, ailanti, robinie
pseudacacie crescono ovunque e costituiscono una seria minaccia per la
biodiversità non solo delle coste del Mar Nero, ma di tutta l’area mediterranea
europea. Apparentemente innocue, queste piante si riproducono in maniera
strabiliante, resistono ai climi aridi e torridi della zona causati dal
cambiamento climatico e distruggono le altre specie vegetali. 3) Sinfonia A tarda estate,
le foglie delle acacie si agitano allegramente al vento, ignare della propria
pericolosità. Spesso soffia il vento da ovest, che porta un cielo plumbeo sotto
al quale navigano a mezz’aria nubi diafane, che si spostano velocemente come
banchi di nebbia. Grasse gocce di pioggia colpiscono violentemente il volto dei
passanti, si insinuano sotto i tendoni dei ristoranti e, quando il cielo si
decide a liberarsi dell’umidità eccessiva e piove, il lungomare si trasforma in
un grande lago: le foglie secche degli alberi otturano gli scarichi e l’acqua
piovana ristagna per ore, finché qualcuno, dotato di buona volontà e di un
rastrello, non li pulisce e permette alle acque di defluire lì dove è naturale
che vadano, vale a dire in mare.
4) Coro:
la follia Come tutte le
città di frontiera, Odessa è anche una città della follia. Il centro sul Mar
Nero, infatti, ospitava già all’epoca degli zar il più grande ospedale
psichiatrico dell’Impero russo. La frontiera è il luogo ideale per allontanare
dal Centro i soggetti più pericolosi; quelli politicamente più problematici
venivano spediti in Siberia, coloro che invece avevano problemi psicologici, e
che sono altrettanto pericolosi in quanto la follia non è solo una patologia ma
anche un modo diverso - rivoluzionario - di vedere il mondo, a Odessa. Lontano
dalla capitale e in una città che alla diversità era già abituata. Da questo
punto di vista, Odessa è la Trieste dell’Est (e Trieste è l’Odessa dell’Ovest).
Non è un caso che in Italia la rivoluzione psichiatrica sia avvenuta proprio
nel capoluogo della Venezia Giulia e a opera di un goriziano, il dottor Franco
Basaglia. La frontiera è una forma di follia, una variante socialmente
accettata del male della scissione, che viene popolarmente chiamato schizofrenia.
Quale altra ragione, se non la pazzia, può portare infatti il genere umano a
dividersi in razze, nazioni, religioni? 5) Recitativo:
Vladimir Chaplin Vladimir
Chaplin cammina sul lungomare. Il sorriso sincero, gli occhi da bambino
soddisfatto, i tratti del viso delicati, Vladimir è ebreo ed è uno dei
direttori e dei custodi del museo ebraico di Odessa. Racconta con estrema
passione la storia del suo popolo e sostiene che Odessa è da sempre un mondo a
sé, che non fa parte di nessuno Stato e di nessuna cultura in particolare ma
nello stesso tempo appartiene a tutte. Odessa, come tutte le città di mare, è
universale, multietnica, così come è universale e multinazionale tutta l’area
che si estende a ovest della città e che prende il nome di Budzhak, o Bessarabia.
6) Aria:
il Sud dell’Ucraina e il Budzhak Il
meridione dell’Ucraina è una zona estremamente variegata, che durante la
propria storia ha visto numerosi e drammatici cambiamenti in termini
demografici e politici. Ogni provincia, poi, ha delle caratteristiche proprie,
che ne fanno entità autonome e completamente diverse dalle altre, anche se
confinanti. La Crimea, per esempio, ha una storia davvero differente rispetto a
quella di Zaporizha o della città di Kerson. Il nord dell’Ucraina, invece, non
è mai dipeso dal territorio e dalle nazionalità che lo abitano, quanto dalle
città: Kiev e Leopoli hanno plasmato i dintorni da loro controllati. A sud,
invece, le città sono state sempre un punto di incontro fra le diversità che
abitavano la regione e non hanno mai esercitato una vera e propria forma di
controllo sui paesi e le campagne circostanti. Il Budzhak, o Bessarabia, è un
esempio lampante di quanto ho appena sostenuto. Budzhak è un termine turco che
significa “angolo”: l’eredità ottomana è rimasta nella toponomastica. La
denominazione “Bessarabia” deriva invece con molta probabilità dai signori che
nel ‘400 controllavano questa provincia, i Bassarabi, o forse dal nome di un
popolo antico – i Bessi – che si era trovato nell’area compresa fra il Dnestr,
il Danubio, il Dnupr e il mar Nero in tempi preistorici. Il Budzhak è al
confine fra Ucraina, Romania e Moldavia e una parte del suo territorio è
controllato da Chișinau. Al contrario della Crimea, questa provincia ha
conosciuto solo una volta nella sua storia un cambio drammatico di popolazione.
Durante la dominazione dei turchi, dal XV al XVIII secolo, le steppe di
quest’area erano abitate dai nogaizi, un popolo nomade arrivato in Europa con
L’Orda d’Oro di Gengis Khan che rappresentava un conglomerato di tribù mongole
e turche. Le città del Budzhak erano sotto il controllo diretto di Istanbul,
mentre le tribù dei nogaizi beneficiavano di una certa libertà ed erano
vassalli della Porta. Godevano di uno status particolare perché difendevano il
territorio dagli attacchi dei nemici, soprattutto dei moldavi. Il cambiamento
radicale subentrò fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a seguito
della guerra russo-turca, che “liberò” anche il Budzhak dalla sudditanza a
Istanbul. Fu proprio in questo periodo che, a mano a mano che i “nogari” si
ritiravano, arrivarono i nuovi abitanti, chiamati da San Pietroburgo a
colonizzare le steppe danubiane: greci, turchi, albanesi, bulgari, armeni,
greci, ebrei, moldavi, tedeschi (molti dei quali si sono trasferiti in Germania
dopo il crollo dell’URSS e sono stati i primi ad accogliere i profughi ucraini
arrivati in Germania nel 2022), rom, russi, ucraini e gagauzi. Il Budzhak
assunse allora la sfaccettata coloritura etnica che ancora lo contraddistingue.
Cambiarono le capitali: dopo la guerra di Crimea, il Budzhak passò sotto il
controllo del regno di Romania, per tornare sotto l’URSS fra il 1940 e il 1941
e poi nuovamente alla fine della Seconda guerra mondiale. Il Budzhak, però,
rimase sempre uguale a sé stesso. Sostiene il professor Alexandr Prigarin,
docente all’Università di Odessa e figlio della steppa bessaraba, che le uniche
tensioni etniche che la Storia abbia registrato in quest’area siano legate a
dissapori amorosi fra giovanotti di diversa nazionalità che amavano la stessa
donna. Per il resto, i popoli del Budzhak hanno sempre convissuto in pace. Le
periferie, però, vengono spesso trascurate dai centri del potere: l’Ucraina, in
questi giorni di guerra, è Kiev. A nessuno viene in mente che una nuova
geopolitica potrebbe cominciare proprio da territori come il Budzhak. Per
eliminare ogni tipo di attrito e di rivalità, bisognerebbe uscire, una volta
per tutte, dall’idea-ideologia di nazione, che è fallace, falsa e fuorviante.
Un Grande Altro, la definirebbe lo psicanalista Jacques Lacan. I popoli del
Budzhak si riconoscono in ciò che veramente sono, specie umana. I contadini
della Bessarabia sembrano aver fatto proprio, se non anticipato, il discorso di
specie che faceva il filosofo francese Jean-Paul Sartre: il mondo è a tal punto
interconnesso e globale, che l’umanità può solo unirsi per salvare sé stessa. O
ci si salva tutti insieme o tutti insieme si affonda. Il Budzhak è
l’incarnazione della filosofia del greco Filodemo Di Gadara: salviamoci l’un
altro. Se Zelenski e Putin avessero soggiornato più spesso nel Budzhak, forse
non si sarebbe arrivati alla guerra. E la periferia avrebbe avuto la propria
rivincita sul centro, che non sempre è sinonimo di progresso e innovazione. In
questa assurda guerra fra Mosca e Kiev, ha già vinto Tarutino.
7) Coro:
le anime del Budzhak e Tarutino I paesi della
Bessarabia somigliano a quelli della Voivodina serba e del Banato rumeno: case
basse - con motivi barocchi alle facciate - la chiesa ortodossa, quella
cattolica e una manciata di strade perpendicolari fra loro. Fra le case e la
strada un fosso a convogliare l’acqua piovana verso il canale più vicino. I
paesi della Bessarabia hanno nomi originali: Tarutino, Borodino, persino
Parigi. I coloni tedeschi a cui furono consegnati questi territori, infatti,
vollero ricordare i luoghi in cui l’esercito prussiano aveva battuto Napoleone
e ripeterli nella nuova toponomastica. Nomi francesi nella steppa, che comincia
subito dopo il liman, vale a dire, il delta del Dnestr. Una sottile
lingua terra divide il liman dal mare; una fila di case, la ferrovia, la
strada e si entra in Budzhak. La luce solare della sera, obliqua, illumina le
chiese diroccate dei paesi, quelle che furono costruite dai tedeschi che
lasciarono le proprie case alla fine della Seconda guerra mondiale per
rifugiarsi in Germania. Non c’è davvero differenza fra la pianura del Budzhak e
quella della Voivodina; Parigi sembra Apatin, o Prigrevica in Serbia, dove ci
sono edifici sacri diroccati e la gente vive una vita tranquilla, scandita dai
ritmi del sole e della natura. È la vita degli agricoltori, che non guardano
alla nazionalità ma solo alla fertilità dei propri campi e hanno buoni rapporti
con tutti i vicini, e non si chiedono neppure a che nazionalità appartengano. Tarutino si
trova a nord del Budzhak, al confine con la Moldavia. Il paese è stato fondato
dai tedeschi nell’’800, anche se di tedeschi ne sono rimasti pochi. C’è anche
un ginnasio tedesco, in parte diroccato, che adesso ospita il museo di
Tarutino. Se ne occupava Vladimir Kubiakin, morto di infarto poco prima
dell’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. Vladimir aveva un viso
regolare, tondo e il sorriso di chi è contento di ciò che è e di ciò che fa.
Insieme ad Aleksandr Prigarin e a Elena Menshikova, professoressa di tedesco
all’Università di Odessa, era l’anima del Budzhak. Si incontravano spesso a
Tarutino, nella casa di Svetlana, trasformata in un piccolo albergo per i rari
visitatori che decidono di visitare la Bessarabia. Si tratta soprattutto di
tedeschi che tornano al paese di origine dei loro genitori o di gruppi di scolaresche
in gita di istruzione. L’abitazione di Svetlana è una delle ultime del paese;
basta proseguire lungo la strada principale per arrivare alla frontiera
moldava. Tarutino è in una valle, alla fine della steppa. Il borgo si sviluppa
lungo la strada principale: case, la chiesa, un bar, un negozio, poi di nuovo
case. Intorno, sui crinali delle basse colline, campi e boschi lussureggianti,
una rarità in un territorio glabro come quello bessarabico. In cima a una
collina, il traliccio metallico del ripetitore delle telecomunicazioni e un
serbatoio per l’acqua, che viene parsimoniosamente distribuita a tutti gli
abitanti durante i torridi mesi estivi. A Tarutino non c’è molto vedere, ma c’è
tanto da ascoltare. Le storie dei tedeschi e delle altre nazionalità che
abitano questo centro, quelle dei rumeni, dei moldavi e dei greci, i racconti
dei matrimoni misti, gli amori e i rancori, i ricordi di chi era bambino
durante l’occupazione nazista e di chi era già grande e maturo durante il
comunismo. La Storia non ha mai risparmiato Tarutino, un po’ come in Voivodina
e in Istria. È la bellezza, un po’ maledetta, dei paesi e delle regioni di
frontiera. Elena e
Svetlana sono al momento in Germania; aspettano la fine dei bombardamenti russi
per tornare definitivamente nel Budzhak. Aleksandr invece è rimasto; visita
spesso la tomba dell’amico Vladimir e aspetta che le ostilità belliche
finiscano. Sa che in ogni caso, il Budzhak non cambierà; non riusciranno a
cambiarla i russi se mai riuscissero ad arrivare fin qui, non la cambieranno i
moldavi nel caso in cui la Bessarabia dovesse ritrovarsi sotto il controllo di
Chisinau. Il Budzhak, così come la Voivodina e l’Istria, è il cuore
dell’Europa; gli sforzi di Bruxelles volti a costruire una coscienza unitaria
fra le diverse nazionalità che animano il progetto europeo sono destinati a
fallire se il Centro non guarderà a queste realtà, che già da secoli sanno cosa
sia la tanto agognata e lodata multiculturalità. Un concetto in Occidente
abusato ma che a Tarutino esiste da sempre a tal punto da essere considerato
ovvio, scontato.
Gli autori di
questo coro: Pippo Delbono, Pina Bausch, Gustav Mahler, George Frideric Handel,
Predrag Matvejević, Nelida Milani, Gëzim Hajdari, Snežana Gudurić, Aleksandr
Prigarin, Vladimir Kubiakin, Elena Menjshikova, Alexandra Filonenko, Anastasija
Mikhieieva, Olya Grigorievna, Tanja, Vladimir Chaplin, Elena Uvarova, Vladimir
Gamza, Jakob Walosczyk, Nina Kreher, Stefan Gorski, Vladimir e Tatjana Bakhtov,
Nicolas Edward Cinosi.