In
un articolo di Nadia Urbinati (“Domani” 5 giugno scorso) è stata ripresa la
teoria del “Partito Pigliatutto” descritta molti anni fa da Otto Kirchhmeier (poi declinata da Gianfranco Pasquino in “Pigliatutti”).
L’obiettivo dell’autrice era quello, nell’occasione, di ammonire il PD a non
costruire in vista delle prossime amministrative diversi sistemi di alleanza
nelle varie città non coerenti tra loro al fine di costruire una qualsiasi e
comunque “ipotesi di governo”. Non bisogna vincere, sostiene la politologa
della Columbia, ma ottenere un successo nell’interesse dalla città generatore
di effetti durevoli. E
aggiunge: “Ammesso che sia realistico voler vincere occorrerebbe pensare a
vincere con il consenso largo di tutti gli elettori del proprio bacino ideale
invece di pescare ovunque, anche a destra”. L’articolo
è interessante perché finalmente si torna a discutere della natura del fine
della costruzione partitica dopo che per molti anni ci si è limitati a
constatarne il declino sia dal punto di vista della capacità istituzionale e
amministrativa sia sotto l’aspetto del radicamento e della rappresentanza
sociale. A questo proposito sono state via via coniate diverse definizioni: dal
“partito azienda” al “partito professionale-elettorale” fino al “partito
liquido”. Definizioni cresciute assieme ai concetti di personalizzazione della
politica, di “democrazia del popolo”, di “democrazia recitativa”. Proviamo
allora a ritornare su alcuni punti di analisi che possono consentirci di
riprendere il discorso sui partiti: un discorso tanto più importante che adesso
da più parti si sta cercando di riattualizzare il sistema elettorale
proporzionale.A suo tempo,
nello specifico del “caso italiano” il passaggio dal sistema elettorale
proporzionale utilizzato tra il 1958 e il 1992 (modificato soltanto con l’introduzione
della preferenza unica) al “Misto, maggioritario/proporzionale con scorporo”
(il cosiddetto “Mattarellum” utilizzato tra il 1993 e il 2006) avvenne
attraverso una ordalia referendaria giudicata salvifica e non fu certo pensato
in funzione di una modifica della struttura dei soggetti politici. Successivamente
abbiamo vissuto la stagione dei sistemi elettorali dichiarati incostituzionali
dalla Corte. Si è anche verificato il paradosso di una bocciatura in corso d’opera,
senza che la formula fosse ancora stata sperimentata sul campo (il cosiddetto “Italikum”)
mentre il sistema attuale presenta, sotto il profilo della legittimità, diversi
punti molto discutibili che potrebbero essere presto oggetto di esame presso la
già citata Corte Costituzionale. In questa sede non è il caso di ricostruire
tutti i passaggi (molteplici e complessi) attraverso i quali si è arrivati alla
determinazione dell'assetto attuale dell'offerta politico-elettorale;
scomposizione e ricomposizione delle coalizioni, scissioni e riaggregazioni;
mutamenti nella strategia delle alleanze. Sommovimenti in gran parte
individualistici o di piccolo gruppo che nel corso della XVIII legislatura che
sta per concludersi, come ha ben dimostrato la triste parabola del Movimento 5Stelle,
hanno raggiunto tratti di “trasformismo” a livelli mai raggiunti nella pur
ricca storia, da questo punto di vista, della democrazia italiana. L’aspetto
più importante di trasformazione del sistema che si è però realizzato, nel
corso di questi anni, intorno al tema della struttura dei partiti politici è
stato quello del superamento del modello basato sulla “identità- appartenenza”
che poteva essere descritto così sommariamente: un partito attento alla
rappresentanza di una quota frazionale ma ben delimitata della società. Nel
frattempo sono falliti i tentativi di modifica costituzionale e si sta
pericolosamente affermando un'idea di una forma di governo addirittura
indipendente dall'esito elettorale. Quale
unica soluzione possibile rispetto alla debolezza strutturale del sistema
risulterebbe quasi automatico, infatti, il prosieguo delle maggioranze di “larga
intesa” riferite al cosiddetto “uomo forte”. Da
altre parti si spinge verso il modello presidenziale inteso quale vero e
proprio punto di saldatura nel processo di riduzione del rapporto tra complessità
sociale e rappresentanza democratica quasi momento di sublimazione del grande
equivoco generato dalla proposta di “democrazia diretta” che sfocerebbe, alla
fine, in una riduzione della rappresentanza politica (già sottoposta a vincolo
dalla riduzione del numero dei parlamentari) e di una minore agibilità del
confronto politico-sociale. Pur
in un quadro di complessità sociale e crescitasul piano elettorale di fenomeni come quelli dell'astensione e della
(esagerata) volatilità un soggetto di sinistra che intenda riproporre i temi di
fondo di una vocazione di “democrazia repubblicana” avrebbe l’obbligo di
allontanarsi dallo schema del “partito-elettorale” recuperando invece un
rapporto stretto con la propria area sociale di riferimento (nel caso quella
parte di Paese che difende l'identità costituzionale fondata sulla centralità
del Parlamento e quei settori particolarmente colpiti dall’inflazione e dalla
precarietà del lavoro, comprendendo bene anche l'arretramento della cosiddetta “transizione
ecologica”) ed elevando così il proprio tasso di identificazione “sociale” pur
tenendo conto della configurazione “pasticciata” dell'insieme del sistema. Sarebbe
utile allora, fin dalla prossima tornata elettorale che si potesse ricercare la
rappresentatività istituzionale per una capacità di articolazione di una
progettualità all'altezza delle contraddizioni emergenti con al centro una
proposta di organizzazione dell’agire politico posta sul terreno della
promozione di un riequilibrio tra concetto di governabilità e concetto di
rappresentanza.