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domenica 3 luglio 2022

INFLAZIONE E SALARI
di Franco Astengo

 
Nella storia della sinistra italiana l’argomento del rapporto tra tasso d’inflazione e crescita del salario è stato elemento fondamentalmente divisivo e riprenderlo adesso potrebbe apparire ancora elemento per una separazione che al punto attuale andrebbe attentamente rianalizzata per il passato e superata per il futuro. Ci troviamo in tempi di inflazione schizzata su all’8% e con ricadute ancor più pesanti dal punto di vista dell’andamento dei prezzi sui generi di prima necessità. Il quadro generale del mondo del lavoro è quello di un frastagliamento, di un intreccio perverso che tiene chi vi appartiene, in particolare i giovani, gli immigrati, le donne, nella tragica connessione tra precarietà e povertà. Abbiamo registrato nel corso degli anni una frammentazione degli stessi strumenti di ammortizzazione sociale mentre l’invenzione del reddito di cittadinanza pare essere stata costruita per tenere comunque ai margini del mercato del lavoro un esercito ancora diverso da quello marxianamente definito come “di riserva” posto a disposizione di un allargamento delle forme di sfruttamento in gran parte “sotterranee”.
Non vanno dimenticate le differenziazioni territoriali causate da una politica di disgregazione che si vorrebbe portare avanti con l’autonomia differenziata.
Attuate le privatizzazioni la disgregazione territoriale ha contribuito all’abbattimento del welfare state sostituito per la gran parte dall’elargizione di incentivi destinati all’individualismo competitivo e consumistico.
Si tralascia in questa sede l’analisi (che pur sarebbe necessario sviluppare) dell’impatto su questo stato di cose dell’innovazione tecnologica e della conseguente diversificazione del quadro delle contraddizioni sociali “classiche” e del rapporto dato tra struttura e sovrastruttura.
Il ritorno dell’inflazione dovrebbe costituire il tema dominante nell’analisi politico-economica in una fase sovrastata dal ritorno della guerra in Europa, dalle difficoltà produttive dettate dalla crisi energetica, dall’evidente arrancare delle istituzioni sovranazionali (a proposito: quando la BCE presenterà il conto del QE e in che forma? Con la stagflazione all’angolo?).
Così torna per intero il tema dell’adeguamento dei salari alla crescita dei prezzi in un mondo del lavoro dove il numero dei cosiddetti “garantiti” è diminuito di numero e la gran parte dei pensionati (molti dei quali partiti nella nuova condizione dalla situazione di “pre” espulsi prematuramente dal processo produttivo) in buona parte sulla soglia della povertà.
In questa occasione si chiede uno sforzo di ripensamento a sinistra su quanto avvenne all’inizio degli anni ’80. Sicuramente vivevamo in tempi diversi dagli attuali, quando la presenza dell’industria e quindi delle grandi concentrazioni operaie era ancora forte. All’inizio degli anni ’80, a fronte del mutare delle condizioni economiche con l’elevarsi dell’inflazione, la crescita del debito pubblico in maniera esponenziale (siamo agli inizi del pentapartito), la crisi delle partecipazioni statali, l’avviarsi del progetto di divisione del sindacato del resto contenuto nello stesso documento di “Rinascita Nazionale” elaborato dalla P2 nel 1975, si avviò un’intensa campagna ideologica contro l’istituto dell’adeguamento salariale al tasso d’inflazione, accusato – ingiustamente – di essere parte della crescita esponenziale del fenomeno inflattivo stesso, di “schiacciare” in una dimensione eccessivamente egualitaria i salari, di togliere spazio alla contrattazione.
Sono due le categorie sulle quali andrebbe riaperto il discorso:
1) Il valore del Contratto Collettivo nazionale di categoria;
2) La scala mobile.
Oggi, a distanza di tanti anni, credo si debba cercare di comprendere meglio il valore di quella battaglia perduta.