Nella
storia della sinistra italiana l’argomento del rapporto tra tasso d’inflazione
e crescita del salario è stato elemento fondamentalmente divisivo e riprenderlo
adesso potrebbe apparire ancora elemento per una separazione che al punto
attuale andrebbe attentamente rianalizzata per il passato e superata per il
futuro. Ci troviamo in tempi di inflazione schizzata su all’8% e con ricadute
ancor più pesanti dal punto di vista dell’andamento dei prezzi sui generi di
prima necessità. Il quadro generale del mondo del lavoro è quello di un
frastagliamento, di un intreccio perverso che tiene chi vi appartiene, in
particolare i giovani, gli immigrati, le donne, nella tragica connessione tra
precarietà e povertà. Abbiamo registrato nel corso degli anni una frammentazione
degli stessi strumenti di ammortizzazione sociale mentre l’invenzione del
reddito di cittadinanza pare essere stata costruita per tenere comunque ai
margini del mercato del lavoro un esercito ancora diverso da quello
marxianamente definito come “di riserva” posto a disposizione di un
allargamento delle forme di sfruttamento in gran parte “sotterranee”. Non
vanno dimenticate le differenziazioni territoriali causate da una politica di
disgregazione che si vorrebbe portare avanti con l’autonomia differenziata. Attuate
le privatizzazioni la disgregazione territoriale ha contribuito
all’abbattimento del welfare state sostituito per la gran parte
dall’elargizione di incentivi destinati all’individualismo competitivo e
consumistico. Si
tralascia in questa sede l’analisi (che pur sarebbe necessario sviluppare)
dell’impatto su questo stato di cose dell’innovazione tecnologica e della
conseguente diversificazione del quadro delle contraddizioni sociali “classiche”
e del rapporto dato tra struttura e sovrastruttura. Il
ritorno dell’inflazione dovrebbe costituire il tema dominante nell’analisi
politico-economica in una fase sovrastata dal ritorno della guerra in Europa,
dalle difficoltà produttive dettate dalla crisi energetica, dall’evidente
arrancare delle istituzioni sovranazionali (a proposito: quando la BCE
presenterà il conto del QE e in che forma? Con la stagflazione all’angolo?). Così
torna per intero il tema dell’adeguamento dei salari alla crescita dei prezzi
in un mondo del lavoro dove il numero dei cosiddetti “garantiti” è diminuito di
numero e la gran parte dei pensionati (molti dei quali partiti nella nuova
condizione dalla situazione di “pre” espulsi prematuramente dal processo
produttivo) in buona parte sulla soglia della povertà. In
questa occasione si chiede uno sforzo di ripensamento a sinistra su quanto
avvenne all’inizio degli anni ’80. Sicuramente vivevamo in tempi diversi dagli
attuali, quando la presenza dell’industria e quindi delle grandi concentrazioni
operaie era ancora forte. All’inizio degli anni ’80, a fronte del mutare delle
condizioni economiche con l’elevarsi dell’inflazione, la crescita del debito
pubblico in maniera esponenziale (siamo agli inizi del pentapartito), la crisi
delle partecipazioni statali, l’avviarsi del progetto di divisione del
sindacato del resto contenuto nello stesso documento di “Rinascita Nazionale”
elaborato dalla P2 nel 1975, si avviò un’intensa campagna ideologica contro
l’istituto dell’adeguamento salariale al tasso d’inflazione, accusato –
ingiustamente – di essere parte della crescita esponenziale del fenomeno
inflattivo stesso, di “schiacciare” in una dimensione eccessivamente
egualitaria i salari, di togliere spazio alla contrattazione. Sono
due le categorie sulle quali andrebbe riaperto il discorso: 1)
Il valore del Contratto Collettivo nazionale di categoria; 2)
La scala mobile. Oggi,
a distanza di tanti anni, credo si debba cercare di comprendere meglio il
valore di quella battaglia perduta.