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domenica 28 agosto 2022

RISTAMPE
di Federico Migliorati
 

Leonardo Sciascia

Torna in libreria il volume di Onofri su Sciascia.


Era il 1994 quando il giovane e poco più che trentenne critico letterario Massimo Onofri dava alle stampe per le edizioni Laterza quella Storia di Sciascia che metteva in risalto l’acume e la profondità di analisi su uno dei massimi scrittori dell’epoca contemporanea tale da assurgere a canone indiscusso. Un volume che ha segnato una tappa importante nella conoscenza dell’intellettuale siciliano, ma che ha rappresentato anche un’ottima base di partenza per ulteriori ricerche e approfondimenti se è vero che, come afferma lo stesso autore del saggio, “proprio il destino di ogni critico letterario, se ha lavorato bene, è quello di essere superato”. Da qualche mese Inschibboleth, attivissima casa editrice romana, ha congedato in libreria la ristampa dell’opera (358 pagine, 24 euro) che mantiene, nonostante i quasi 30 anni di distanza dalla prima edizione, una freschezza e un’attualità invidiabili. Merito, questo, di quelle suggestioni che si rintracciano qua e là nel volume, forme, metodi e sistemi mutuati dalla grande tradizione della critica che fu di De Sanctis, Borgese e Debenedetti. La vita e l’opera letteraria di Sciascia finiscono anche filologicamente sotto la lente di ingrandimento assumendo un valore ben più rotondo e ampio rispetto a quello fino ad allora consegnato alla conoscenza dei più. L’autore del Il giorno della civetta subisce una metamorfosi nel corso della sua produzione: il suo esordio lo vede convinto assertore della scrittura e della filosofia di Pirandello, verso quell’immagine di Sicilia “non libera, non giusta, non razionale”, ma dal Premio Nobel se ne distaccherà  fino a ripudiarlo in breve tempo (salvo riavvicinarlo a più riprese in là con gli anni) in nome di Vitaliano Brancati, altro nome prestigioso del Novecento in Trinacria, autore più solitario, antidannunziano ad onta degli esordi giovanili, fieramente antifascista. Cresciuto studiando Borges, Savinio, Trompeo e Cecchi, Sciascia affronta fin da giovane quel Potere di cui sviscererà soprattutto i connotati metastorici più che storici, all’insegna di una controstoria d’Italia di cui divenne l’indiscusso, rigoroso campione. È un finissimo narratore e romanziere, complesso e poliedrico, ci spiega Onofri che penetra nel linguaggio e nello stile sciasciano per riemergere conducendoci nei risvolti della sua scrittura e senza mai perdere di vista i fatti salienti dell’esistenza: scetticismo, pessimismo, laica religiosità sono i tratti distintivi dello Sciascia maturo, quello che riuscirà a dividere letterari e politici sulla sue prese di posizione e gli scritti riguardanti in particolare la mafia, su cui discettava due anni prima della nascita della ben nota commissione parlamentare antimafia. Come dimenticare quel 1971 quando preconizzò il futuro “compromesso storico” tra Dc e Pci, fulcro di una gestione del potere che non gli risparmiò, con l’affaire Moro, feroci e virulente critiche anche dal mondo intellettuale per la spietata, realistica analisi di quei drammatici 55 giorni, delle cause e delle conseguenze prodotte. 


La copertina del libro

Ma parlare dell’autore di capolavori come A ciascuno il suo e Todo modo significa ripercorrere anche quel filone del romanzo giallo e poliziesco su cui più volte Onofri (l’ultima occasione è stata un editoriale apparso su Avvenire pochi giorni fa con susseguenti discussioni social) ha avuto modo di sentenziarne la fine dopo Durrenmatt e Sciascia. Proprio quest’ultimo sosteneva in tempi non sospetti di ravvisare in questo genere “la zona più interessante, quella che riserva le sorprese più autentiche”. In lui c’era l’attenzione e quasi l’ossessione di ricercare un proprio riconoscibile stile nella scrittura, quell’aria della canzone, direbbe Proust. Il critico viterbese con la perizia che gli è congeniale intesse un lavoro di cesello, spostandosi costantemente dallo studio delle fonti, dalle testimonianze alle tappe del percorso di scrittore al contesto sociale, familiare e amicale di Sciascia fornendo in tal modo una visione completa di colui che Calvino, con estrema lucidità, definì nel 1964 un “moralista civile” invidiandogli l’assenza di “follia, di mito, di demoni”. Pagine illuminanti per comprendere il retroterra e il sostrato di diversi suoi lavori sono quelle che richiamano suggestioni e atteggiamenti tipici dello scrittore: “Una grande cautela negli affari privati e l’estrema temerarietà in quelli pubblici; l’insicurezza come ‘componente primaria della storia siciliana’ per le continue invasioni dal mare, radice di ‘paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo’; una specie di follia che tale insicurezza e vulnerabilità traduce in un singolare complesso di superiorità e ancora una vocazione al separatismo e all’indipendenza che, dando vita nei secoli a privilegi e franchigie, ha generato quella ‘coscienza giuridica astratta e involuta’ che è alla base di quelle ‘facoltà causidiche e sofistiche’ che già Cicerone attribuiva ai siciliani”. Vita e letteratura che si incastrano, si incrociano, si toccano ed ecco emergere, nel periodo di una temperie politiche che vede il racalmutese candidato tra gli anni Settanta e Ottanta prima con il Pci come indipendente e in seguito con i Radicali e in cui si innesta l’uscita del volume sulla “Scomparsa di Majorana”: anche in questo caso l’autore sarà vittima delle feroci invettive e contumelie che una parte della comunità scientifica gli rivolgerà per le sue posizioni, prodromo di ciò che dovrà affrontare negli ultimi anni di vita sulla questione Borsellino. Il Potere, quello da lui combattuto, sviscerato, analizzato e narrato nei suoi più intimi connotati, non perde occasione per manifestare la sua virulenza. Serve allora ritornare alla breve prefazione dello stesso Onofri del volume in oggetto laddove, richiamando padri e fonti nobili di Sciascia, egli afferma di vedere in lui un illustre scrittore, ma altresì “un uomo giusto e moralmente grandissimo”. È questo ritratto, intriso di virtù e di contraddizioni, di luci e di ombre, di contraddizioni e di pregi, di disagi esistenziali e di rigore etico, ma sempre e comunque di indubbio fascino culturale che il critico letterario intende affidare alle giovani generazioni, “sicuro che si tratti d’un atto non solo di civiltà, ma anche di bontà, perché di bontà abbiamo molto bisogno in tempi cupissimi come i nostri, in cui la bontà è irrisa da maestri di nulla, del nulla”.