Torna in libreria il volume di Onofri su Sciascia.
Era il 1994 quando il giovane e poco più che trentenne critico letterario
Massimo Onofri dava alle stampe per le edizioni Laterza quella Storia diSciascia che metteva in risalto l’acume e la profondità di analisi su
uno dei massimi scrittori dell’epoca contemporanea tale da assurgere a canone
indiscusso. Un volume che ha segnato una tappa importante nella conoscenza dell’intellettuale
siciliano, ma che ha rappresentato anche un’ottima base di partenza per ulteriori
ricerche e approfondimenti se è vero che, come afferma lo stesso autore del
saggio, “proprio il destino di ogni critico letterario, se ha lavorato bene, è
quello di essere superato”. Da qualche mese Inschibboleth, attivissima casa
editrice romana, ha congedato in libreria la ristampa dell’opera (358 pagine,
24 euro) che mantiene, nonostante i quasi 30 anni di distanza dalla prima
edizione, una freschezza e un’attualità invidiabili. Merito, questo, di quelle
suggestioni che si rintracciano qua e là nel volume, forme, metodi e sistemi
mutuati dalla grande tradizione della critica che fu di De Sanctis, Borgese e
Debenedetti. La vita e l’opera letteraria di Sciascia finiscono anche
filologicamente sotto la lente di ingrandimento assumendo un valore ben più
rotondo e ampio rispetto a quello fino ad allora consegnato alla conoscenza dei
più. L’autore del Il giorno della civetta subisce una metamorfosi nel
corso della sua produzione: il suo esordio lo vede convinto assertore della
scrittura e della filosofia di Pirandello, verso quell’immagine di Sicilia “non
libera, non giusta, non razionale”, ma dal Premio Nobel se ne distaccherà fino a ripudiarlo in breve tempo (salvo
riavvicinarlo a più riprese in là con gli anni) in nome di Vitaliano Brancati,
altro nome prestigioso del Novecento in Trinacria, autore più solitario,
antidannunziano ad onta degli esordi giovanili, fieramente antifascista.
Cresciuto studiando Borges, Savinio, Trompeo e Cecchi, Sciascia affronta fin da
giovane quel Potere di cui sviscererà soprattutto i connotati metastorici più
che storici, all’insegna di una controstoria d’Italia di cui divenne
l’indiscusso, rigoroso campione. È un finissimo narratore e romanziere, complesso
e poliedrico, ci spiega Onofri che penetra nel linguaggio e nello stile sciasciano
per riemergere conducendoci nei risvolti della sua scrittura e senza mai
perdere di vista i fatti salienti dell’esistenza: scetticismo, pessimismo,
laica religiosità sono i tratti distintivi dello Sciascia maturo, quello che
riuscirà a dividere letterari e politici sulla sue prese di posizione e gli
scritti riguardanti in particolare la mafia, su cui discettava due anni prima
della nascita della ben nota commissione parlamentare antimafia. Come
dimenticare quel 1971 quando preconizzò il futuro “compromesso storico” tra Dc
e Pci, fulcro di una gestione del potere che non gli risparmiò, con l’affaire
Moro, feroci e virulente critiche anche dal mondo intellettuale per la
spietata, realistica analisi di quei drammatici 55 giorni, delle cause e delle
conseguenze prodotte.
La copertina del libro
Ma parlare dell’autore di capolavori come A ciascuno
il suo e Todo modo significa ripercorrere anche quel filone del
romanzo giallo e poliziesco su cui più volte Onofri (l’ultima occasione è stata
un editoriale apparso su Avvenire pochi giorni fa con susseguenti discussioni
social) ha avuto modo di sentenziarne la fine dopo Durrenmatt e Sciascia.
Proprio quest’ultimo sosteneva in tempi non sospetti di ravvisare in questo
genere “la zona più interessante, quella che riserva le sorprese più
autentiche”. In lui c’era l’attenzione e quasi l’ossessione di ricercare un
proprio riconoscibile stile nella scrittura, quell’aria della canzone, direbbe
Proust. Il critico viterbese con la perizia che gli è congeniale intesse un
lavoro di cesello, spostandosi costantemente dallo studio delle fonti, dalle
testimonianze alle tappe del percorso di scrittore al contesto sociale,
familiare e amicale di Sciascia fornendo in tal modo una visione completa di
colui che Calvino, con estrema lucidità, definì nel 1964 un “moralista civile”
invidiandogli l’assenza di “follia, di mito, di demoni”. Pagine illuminanti per
comprendere il retroterra e il sostrato di diversi suoi lavori sono quelle che
richiamano suggestioni e atteggiamenti tipici dello scrittore: “Una grande
cautela negli affari privati e l’estrema temerarietà in quelli pubblici;
l’insicurezza come ‘componente primaria della storia siciliana’ per le continue
invasioni dal mare, radice di ‘paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni,
incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza,
pessimismo, fatalismo’; una specie di follia che tale insicurezza e
vulnerabilità traduce in un singolare complesso di superiorità e ancora una
vocazione al separatismo e all’indipendenza che, dando vita nei secoli a
privilegi e franchigie, ha generato quella ‘coscienza giuridica astratta e
involuta’ che è alla base di quelle ‘facoltà causidiche e sofistiche’ che già
Cicerone attribuiva ai siciliani”. Vita e letteratura che si incastrano, si
incrociano, si toccano ed ecco emergere, nel periodo di una temperie politiche
che vede il racalmutese candidato tra gli anni Settanta e Ottanta prima con il
Pci come indipendente e in seguito con i Radicali e in cui si innesta l’uscita
del volume sulla “Scomparsa di Majorana”: anche in questo caso l’autore sarà
vittima delle feroci invettive e contumelie che una parte della comunità
scientifica gli rivolgerà per le sue posizioni, prodromo di ciò che dovrà
affrontare negli ultimi anni di vita sulla questione Borsellino. Il Potere,
quello da lui combattuto, sviscerato, analizzato e narrato nei suoi più intimi
connotati, non perde occasione per manifestare la sua virulenza. Serve allora
ritornare alla breve prefazione dello stesso Onofri del volume in oggetto
laddove, richiamando padri e fonti nobili di Sciascia, egli afferma di vedere
in lui un illustre scrittore, ma altresì “un uomo giusto e moralmente
grandissimo”. È questo ritratto, intriso di virtù e di contraddizioni, di luci
e di ombre, di contraddizioni e di pregi, di disagi esistenziali e di rigore
etico, ma sempre e comunque di indubbio fascino culturale che il critico
letterario intende affidare alle giovani generazioni, “sicuro che si tratti
d’un atto non solo di civiltà, ma anche di bontà, perché di bontà abbiamo molto
bisogno in tempi cupissimi come i nostri, in cui la bontà è irrisa da maestri
di nulla, del nulla”.