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domenica 28 agosto 2022

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada

 

La piazza.


Il pastore greco aveva coniato un verbo per indicare un’azione (radunare il gregge) che faceva tutti i giorni: γείρω: raduno, convoco, metto insieme, avvalendosi di questa perifrasi: dal generare dall’andare lo scorrere, a rappresentare, nel grembo, l’addensamento (come nucleo) del flusso spermatico. Da questo verbo dedusse γορά: adunanza, assemblea popolare, piazza pubblica, mercato, tribunale, quindi: discorso. Inoltre, da γορά fu coniato γορεύω: parlo in pubblico, parlo nell’assemblea, annuncio, proclamo. L’γορά fu il cuore della città e, fra le tante funzioni, sorse come luogo di raduno dell’ecclesia, quindi come centro della vita politica, e divenne anche il luogo della vita economica (mercato), giudiziaria e religiosa. L’ecclesia, in quanto adunanza/assemblea, discende da κ-καλέω: mando a chiamare, invito, convoco, azioni, che sicuramente afferiscono a chi godeva di alcuni diritti politici (anche perché faceva parte dell’esercito cittadino), che veniva convocato, per mezzo degli araldi. Forum dei latini, che, inizialmente, significò: mercato, piazza del mercato, è di difficile decodifica, anche perché da forum fu dedotto, essenzialmente, forensis: appartenente al foro, alla piazza pubblica, che si trova nel foro. Livio utilizzò espressioni come queste: vestito forense (da portare fuori, in piazza) e fazione forense (il partito della piazza). Per questo motivo il legame di forum è, presumibilmente, con foras o con foris, con il significato di: fuori. Anche oggi, nel mio paese, che è un centro piccolissimo, come poteva essere la Roma delle origini, con l’espressione: vado fuori, si vuol dire: vado in piazza. Poi la parola è divenuta, anche e soprattutto, per lo sviluppo edilizio della piazza. Il foro originario era un luogo largo di aggregazione sociale, idoneo alle attività commerciali: forum boarium, forum holitorium (mercato delle erbe), il mercato del pesce (forum piscarium) ecc. Altri possibili significati potrebbero rimandare ad una perifrasi di questo tipo: è ciò che faccio dopo che ho finito il mio lavoro. Infine, potrebbe collegarsi ad un verbo conosciuto dai latini: φορ-έω: porto, trasporto, mostro, ad indicare il luogo dove si porta quanto sopravanza della pastorizia e dell’agricoltura. Anche a Roma, inoltre, come nelle città della Grecia, il foro era il luogo delle assemblee e dei comizi. Incidentalmente, si ricorda che dalla radice φορ, da tradurre: quando nasce lo scorrere, furono dedotti: fors (sorte), fortuna, fortis, fornix (volta) con il significato anche di bordello, da cui, poi, fornicare, furnus/fornus e, nel mio dialetto, furis’ (forese), che, nelle masserie, erano gli uomini che trasportavano, addetti alle più dure fatiche.

La parola comizio è un deverbale di comitor comitaris: unirsi come compagno, accompagnare, da cui furono dedotte le aggregazioni sociopolitiche del mondo latino. Da comitor fu dedotto il deverbale comitatus comitatus: accompagnamento, scorta, séguito, mentre oggi ha acquisito il significato di raggruppamento per.



Le aggregazioni sociali, invece, presero il nome di classis, il cui significato, nel tempo, è divenuto, ma che, inizialmente, fu collegata a: καλ-έω (per metatesi: kla/κλα): chiamo, convoco e a: (klesis) κλσις: chiamata, invito, convocazione di cittadini, ripartizione per classi. Infatti, come da κλσις fu dedotta ecclesia ad indicare adunanza, così i latini da καλέω ricavarono classe per indicare i convocati appartenenti allo stesso anno di nascita (esercito o scuola), mentre, successivamente, con classe indicarono quelli che avevano lo stesso censo. Nel linguaggio militare indicò: esercito e flotta; quindi, da classis fu dedotto classico, ciò che attiene all’esercito, ma anche cittadino della prima classe, mentre Gellio parlò di classicus scriptor: di prim’ordine, esemplare.
Gli italici coniarono piazza, parola dedotta da (plethos) πλθος, in dorico: (plathos) πλθος, con i significati: moltitudine, folla, plebe, anche: assemblea popolare. Da plethos furono dedotti: pletora e pletorico. I filologi fanno discendere piazza dal latino platea: strada larga/slargo/piazza, a sua volta dedotta dall’aggettivo (platùs/plateia) πλατύς/πλατεα: largo, ampio, che, diventando sostantivo, si traduce anche piazza. Personalmente, propendo per un dedotto dα πλθος, sia perché il collegamento è più plausibile (la piazza si addice alla moltitudine), sia perché non solo la cultura latina, ma anche quella italica adottarono parole di origine dorica: μάτηρ al posto di μήτηρ, στάμων: stame, trama, ordito, al posto di στήμων, per formare stamen staminis, σμα, al posto di σμα: segno (del grembo), per dedurre eksamen/examen: esame, nel senso di ciò che si esamina. Bisogna anche dire che i latini utilizzarono anche σμα per formulare: eksemplum/ exemplum o semper.



La piazza, come l’agorà e il foro, è il luogo del popolo, in altri termini dei prestatori d’opera, perché questo è il significato di demos [dem si può rendere: dal legare (qui per indicare: faticare per produrre) il rimanere], di popolo e di plebe. La piazza fu il luogo in cui il prestatore d’opera era in attesa di una chiamata. In greco per indicare moltitudine, massa, turba disordinata si adottò anche la parola (ochlos) χλος, che il Rocci indica come calco di vulgus, a seguito di questa metatesi: (ϝolchos con oscuramento dell’omicron) ϝόλχος e della trasformazione dei suoni. La massa del popolo è stata spesso contraddistinta per la mutevolezza degli umori e per le grandi confusioni, che i latini definirono turba: confusione, schiamazzo, tumulto, folla, calca, parola da collegare a (tyrbé) τυρβή: confusione, trambusto, tumulto. Le folle sono state sempre manipolate, nel corso della storia, dai tanti demagoghi o tribuni di turno.
L’agorà, il foro, la piazza, oltre alle funzioni sin qui dette, furono il cuore degli scambi commerciali e delle compravendite. Il pastore e il contadino nelle epoche primordiali socializzarono, mettendo tante cose in comune sia con lo scambio di prestazioni di lavoro sia con il baratto di beni.
Con λλάσσω: muto, cambio, prendo in cambio, baratto e dai dedotti di questo verbo come: νταλλαγή: scambio, i greci indicarono non solo lo scambio di merci eccedenti, ma, inizialmente, anche di prestazioni d’opera. Si ricorda che nel mio paese c’è una sorta di istituto socioeconomico denominato “a ritenn‘ “, di cui ho parlato nel testo: “Alla ricerca della genesi delle parole “.



I greci avevano espresso questo modo di socializzare anche con il verbo μείβω: do in cambio, prendo in cambio, da cui l’aggettivo: μοιβαος: scambievole, mentre i latini coniarono reciproco e da muto mutas dedussero non solo commutatio, ma soprattutto l’aggettivo mutuo. Molti lavori, molte realizzazioni furono e sono possibili con il concorso (reciproco/mutuo) di tanti.  Per quanto riguarda la parola della lingua italiana: baratto, bisogna dire che sicuramente fu ideata con una delle immagini del divenire del grembo materno: la crescita iniziale del flusso gravidico per ottenere la formazione dell’essere. Nel mio dialetto si usa solamente il verbo “varattare (barattare)” ad indicare il dispensare (per sovrabbondanza), a seguito dell’inseminazione, che rappresenta il mancare.
Inizialmente, Il concetto di vendita fu mutuato da una metafora del grembo, da ciò che si deduce dalla primigenia crescita: πιπράθκω/πιπράσκω: vendo, poi: πρσις: vendita. Anche i latini si avvalsero della stessa immagine per coniare vendo/ venditum: è ciò che si fa dentro il concetto di accumulo, che per il pastore è il legare. Da sottolineare che gli italici dedussero da vend: vendico e vendetta, che rimanda a chi si lega le angherie, a chi non dimentica i torti subiti.
I greci dedussero il commercio da πόρος: passaggio (per cui in italiano usiamo la parola: i pori), coniando emporio, termine usato anche nella lingua latina. Questo legame di poros con emporio si spiega, presumibilmente, con le merci di passaggio nei vari porti della Grecia.
I latini per indicare la compravendita inventarono il verbo deponente: mercor mercaris, mercatus sum, mercari: compro, acquisto. Da chi ha comperato furono dedotti: mercatus, mercato, mentre, inizialmente, con mercantes si indicarono gli acquirenti. Da mercor fu dedotta merx mercis, a voler dire che l’accumulo di un bene, oltre quello che serve o può servire, determina l’alienazione. Da merce derivarono mercede come ricompensa (in merce), mercenario, gli italici mercimonio (per i latini: mercatus turpissimus) e mercè, nel senso di: per grazia, in quanto quel legare che genera il mancare di ciò che acquisto rimanda ad un parto difficile, risoltosi, miracolosamente, bene.



Voglio ribadire una considerazione di carattere generale di formazione delle parole: la desinenza di una parola contribuisce a determinare il significato, per cui nel mio dialetto: merco/mirco (genera il legare il mancare il rimanere) indica una cicatrice profonda deturpante, per cui in alcuni casi si usa il verbo smircare/smercare, nel senso proprio di: sfregiare in modo permanente. Tanto per restare in questo tema, nel mio dialetto, la cicatrice viene denominata: cesa, da ricollegare a: caedo/caesum: taglio, ad indicare quel che resta ad uno che si è tagliato, mentre altri ricavarono cesoie.
Se c’è chi vende, c’è anche chi compera. Greci, latini e italici videro nella nascita della creatura ciò che si compera. Nel mio dialetto ai piccoli si dice: i nati si comprano (s’accatt’n’). I greci, infatti, si erano avvalsi, e non solo, di κτάομαι, metafora della nascita e dell’attività del pastore, traducendo: acquisto, mi procuro, guadagno, posseggo. Dato per certo che accattare del dialetto è da collegare a κτάομαι, c’è il verbo latino capio/captum (prendo/preso), che, verosimilmente, ha dato luogo a: d’accatto, accattone, cattura, accattivare, cattività, incattivire. Inoltre, dedussero compero da πρίαμαι attraverso questa perifrasi: è ciò che si genera per me il far lo scorrere dal rimanere (che è: il nascere). Tanto ho citato perché, nel mio dialetto, c’è il verbo priarsi, che è un gioire dal profondo, per quanto di buono accade, in primis: la nascita. I latini si avvalsero di πρίαμαι, deducendo: pro-πριius: proprio (mio personale), proprie: propriamente, in modo appropriato, da cui furono ricavati: proprietà e proprietario.
I latini assegnarono a emo il significato di: compero, acquisto da questa brevissima perifrasi: è ciò che faccio dal rimanere, che può essere la nascita o anche ciò che mi rimane, nel senso che diventa mio. Poi da emo si ebbe: red-imo/red-emptum. Infine, gli italici coniarono compero, che, parimenti, è la creatura che nasce.