Grandi
pericoli, piccole elezioni. Il
più grande pericolo immediato è quello della guerra. Quella in corso in Ucraina.
Non l’unica, nemmeno la più cruenta, ma più pericolosa perché sostenuta ed
alimentata da due imperi in declino, armati di denti nucleari. Lo percepiscono
i due terzi del popolo italiano, anche se la campagna elettorale lo ha ignorato,
salvo nella sua fase finale. La crisi ambientale, quella sociale e democratica
sono altrettanto gravi, ma i tempi di conflagrazione sono meno stretti.
Purtroppo siamo tra due fuochi. Alle minacce recenti di Putin corrispondono
quelle di Biden. Non a caso Cina ed India, potenze in ascesa, ne prendono le
distanze, invocando la fine del conflitto. Nessuna cancelleria aveva
programmato la Prima guerra mondiale, costata quasi cento milioni di morti. Soldati
semplici, guidati da giovani ufficiali in trincea. Non l’avrebbero voluta governi
e diplomazie nazionaliste, prigioniere della Realpolitik con la pretesa
di salvaguardare gli equilibri tra le alleanze in campo. Bastarono due colpi di
pistola, a Sarajevo, per far scattare una successione di eventi, scatenati dal
bisogno di salvaguardare la propria esistenza dell’impero Austro-Ungarico in declino,
che avrebbe travolto l’Europa per decenni, fino a sfociare in un’altra guerra,
ancora più sanguinosa perché estesa alle popolazioni civili. Quella in corso
oggi è la continuazione della guerra fredda che ha segnato la seconda metà del
secolo precedente, fino e oltre la caduta del Muro di Berlino. Continua a
sfuggire ai più che le intenzioni di Washington e di Mosca, pur diversamente
motivate, sono intimamente convergenti. Quella di Washington costituisce la
continuazione di una politica a salvaguardia e sviluppo di un’alleanza
subalterna, teoricamente obsoleta - come segnalato da uno dei suoi principali ispiratori,
Henry Kissinger - e a giustificazione di una spesa, tale da prolungare il suo
primato globale, ormai soprattutto militare, che richiede la presenza di una
credibile minaccia, a credible threat. Dal punto di vista di Mosca non
si tratta nemmeno di una trappola. La dittatura di Putin, a capo di una pur
grande potenza umiliata dalla storia recente, ha bisogno di consolidare il
proprio potere interno con la rioccupazione di una parte del suo ex territorio,
a contestuale riconquista dello status di nemico credibile
dell’Occidente. Egli non conosce remore nella violazione di principi e regole
di diritto internazionale, in ciò del tutto simile ai suoi predecessori di
Mosca e, in forme ideologicamente contraddittorie, ai suoi colleghi di
Washington. Le vittime sono le popolazioni colpite e in fuga, i coscritti
inviati a morire, e tutti coloro che si schierano anche solo idealmente al loro
fianco. Il continente europeo, di cui l’Ucraina costituisce parte integrante,
torna ad essere terreno di conquista e di conflitto tra soggetti ad esso
esterni, più coesi e più forti. Come dice la signora Nuland, che dirige gli
uffici competenti al Dipartimento di Stato: “Fuck Europe”, si
fotta l’Europa. Tutto
ciò non deve sorprendere. Ogni guerra, potenziale o in atto, determina
un’alleanza di fatto tra i suoi sostenitori contrapposti, tuttavia conniventi.
Potenziali alleati sono coloro che la subiscono, ne pagano le conseguenze, non
la vogliono. Vengono a mente gli atti di solidarietà tra soldati divisi dalle
trincee della Prima guerra mondiale, solitamente repressi dai plotoni di
esecuzione. Tuttavia, a questa banalità del male non può sfuggire l’ulteriore
dimensione che essa assume nel mondo di oggi. Quella che viene presentata come
soluzione del conflitto, dalla “nostra” propaganda di guerra, la sconfitta
della Russia, in mancanza di una tregua, di una pace negoziata sotto egida
internazionale, aumenta il rischio di un uso di armi diversamente letali, mai
del tutto controllate, nel mondo attuale meno che mai, perché sempre più
numerose, articolate e diffuse. Ciò che scaturisce dalla guerra che ci
coinvolge costituisce un esempio che potrebbe essere imitato, nel male come nel
bene, in altre parti del mondo. L’elezione di parlamento e governo costituisce
in regime di democrazia l’espressione solenne della sovranità popolare. Tale è
secondo la nostra Costituzione. Averla immeschinita da uno scioglimento
anticipato del Parlamento, nemmeno privo di una maggioranza, rendendo
automatica l’applicazione di una legge elettorale assurda, a suo tempo imposta
a colpi di voti di fiducia dal governo Gentiloni, in un contesto internazionale
come quello appena descritto, costituisce una grave responsabilità del
presidente della Repubblica e del capo del governo. A noi, cittadini elettori
resta soltanto la possibilità di programmare iniziative politiche atte a riunire
nel dopo voto le forze disponibili a contribuire, in Italia e altrove, ad una
prospettiva di sopravvivenza pacifica ed ecologica di un mondo più libero e più
giusto. Come farlo con la scelta elettorale? Non si sopravvalutino le tensioni,
pure presenti nella coalizione di centro-destra. Il primato del denaro unisce,
mentre quello delle idee divide. Anche se guardiamo prevalentemente a forze
sociali e ideali costruite dal basso, all’interno dei partiti politici esistono
forze oggi divise, che dovrebbero ritrovare unità nelle asperità del dopo voto.