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mercoledì 26 ottobre 2022

DONNE E GUERRA
di Maria Carla Baroni

Emma Goldman
 
Una questione multiforme
. 
 
Ci furono nell’antichità imperatrici e regine che a capo dei propri eserciti combatterono gli invasori: le egizie Ahotep (1750 a. C.) vittoriosa contro gli ittiti, e Cleopatra (69 - 30 a. C.); Teuta (III secolo a.C.) regina dell’Illiria, Boudicca o Baodicea di Britannia (33-66 d.C.) e Zenobia di Palmira (240-275 d.C.) che, nonostante il loro coraggio e le loro capacità, dovettero alla fine soccombere alla potenza dell’impero romano; Kahina, figura fondamentale nella resistenza berbera durante la conquista homayyade del Nord Africa nel VII secolo; varie sultane cape di Stato nell’Islam. Ci furono aristocratiche che difesero i loro territori armi in pugno, la più nota delle quali, in Italia, fu Caterina Sforza (1463-1509). Ci furono regine e imperatrici che ampliarono i loro domini ricorrendo alle armi per terra e per mare (Elisabetta I d’Inghilterra e Caterina II di Russia). In tempi a noi assai più vicini ricordo Mika Feldman Etchebéhère (1902-1992), che, succedendo di propria iniziativa al marito  ucciso durante la guerra civile spagnola, comandò una milizia antifranchista del Partido Obrero de Unification Marxista prendendosi particolarmente cura, per quanto possibile, delle condizioni di vitto, alloggio e salute dei suoi uomini e organizzando una scuola dietro le trincee (vederne l’autobiografia: “La mia guerra di Spagna”, ripubblicata in Italia nel 2016 da Alegre). Anche Teresa Noce (1900-1980), la grande rivoluzionaria e sindacalista della Cgil di origine operaia, combatté con le Brigate Internazionali nella stessa guerra. Segnalo inoltre i casi emblematici di altre donne efficacissime combattenti: le giovani aviatrici sovietiche nella regione di Stalingrado nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale, le “streghe della notte”, terrore degli occupanti nazisti (vedere Ritanna Armeni “Una donna può tutto”, Ponte alle Grazie, 2018), e negli anni scorsi le donne curde del Rojava, che, organizzate nel loro movimento autonomo combatterono contro l’ISIS e lo sconfissero; allora tanto ammirate da conquistare le prime pagine dei giornali in tutto il mondo e poi dimenticate, lasciate in balia del dittatore turco Erdogan.


Rosa Luxenburg

Spuntano qua e là, nel tempo e nello spazio, a mano a mano che studi recenti le scoprono, donne che fecero parte strutturalmente di eserciti combattenti a difesa della loro terra comunque intesa: ad esempio le donne longobarde in Europa nel VI secolo e le donne samurai in Giappone dal secolo XVI al XIX.
Le donne di ogni classe sociale, dunque, sanno combattere quando lo ritengono importante, qualunque ne sia la motivazione. Negli eserciti contemporanei le donne entrano per scelta e vi fanno carriera, così come alcune praticano sport violenti tipicamente maschili come la boxe, probabilmente per dimostrare a sé stesse e alla società che non esistono mestieri e incarichi preclusi alle donne.
Le donne sono soprattutto vittime in massa delle guerre, particolarmente a partire dalla Seconda guerra mondiale, da quando le guerre hanno coinvolto via via sempre più la popolazione civile: sono state bombardate, uccise, costrette alla fuga, deportate, costrette all’emigrazione anche al di fuori del proprio continente, come le africane e le mediorientali. Sono state usate come schiave sessuali al servizio dei militari: i casi più noti sono state le ebree da parte dei nazisti e le coreane da parte dei giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Durante le guerre le donne dei popoli occupati sono state violentate e stuprate. Probabilmente ciò è avvenuto fin dalla notte dei tempi (nell’Iliade troviamo le aristocratiche troiane rese schiave dei condottieri greci...), ma il fenomeno è diventato di dominio pubblico soprattutto a partire dalla Seconda guerra mondiale: in Italia, nella ex Jugoslavia, in Cina e ora in Ucraina. Lo stupro di massa è stato particolarmente feroce nella ex Jugoslavia, dove ha assunto il carattere dello stupro etnico. Gli uomini di una etnia e di una religione hanno voluto punire quelli avversari conquistando e distruggendo il loro territorio, ma pure usando le donne non solo come oggetti di loro proprietà, ma soprattutto come componente essenziale del territorio conquistato, piantando il loro seme nel ventre delle donne per umiliare gli avversari e per imbastardirne la discendenza, lasciando così il segno della loro conquista e del loro dominio anche per il futuro.


Giulia Molino Colombini

Come fanno le donne ad amare figli e figlie frutto di uno stupro, invece che dell’amore o del piacere o del bisogno/scelta di perpetuare la vita? Figli e figlie che con la loro stessa esistenza possono ricordar loro in ogni istante la violenza subita. Le legislazioni di alcuni Paesi, pur contrarie all’aborto generalizzato, lo riconoscono in caso di stupro. Ma la cattolicissima Polonia, in pieno secolo XXI, lo nega adesso alle ucraine…
Paradossalmente la tragedia delle due guerre mondiali ha favorito, almeno per la loro durata, l’emancipazione femminile: le donne hanno sostituito gli uomini impegnati al fronte nelle fabbriche e nei servizi pubblici. Appena gli uomini sono tornati ne sono state cacciate, ma intanto avevano dimostrato di essere perfettamente in grado di svolgere compiti ritenuti maschili. Un episodio va particolarmente segnalato. Nel 1914 alcune chirurghe londinesi, che in patria potevano esercitare solo in istituzioni di carità, impiantarono a Parigi un ospedale militare interamente gestito da donne, con il corpo medico interamente costituito da donne, contestate e rifiutate all’inizio dagli stessi soldati e ufficiali gravemente feriti. L’esperienza si rivelò validissima e poco dopo fu replicata con un analogo ospedale impiantato a Londra, dedicato alla cura e alla riabilitazione fisica e psichica dei feriti di guerra più gravi, spesso amputati.


Clara Zetkin

Vediamo ora la voce delle donne contro la guerra, partendo da alcuni loro scritti. Si espressero chiaramente contro la guerra sia Rosa Luxemburg (1871-1919), sia Clara Zetkin (1857-1933), sia Virginia Woolf (1882-1941), note e apprezzate tra le donne, non ancora abbastanza tra gli uomini.
Straordinaria è stata la capacità di Rosa Luxemburg di cogliere l’importanza economica dell’industria militare come modo privilegiato di accumulazione del capitale, cui è dedicata l’ultima parte del suo capolavoro “L’accumulazione del capitale”. Sia lei sia Clara Zetkin furono tra le prime ad avviare e poi a percorrere il cammino secondo cui la lotta contro il militarismo è un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato. Virginia Woolf, cui era stato chiesto che cosa possono fare le donne per prevenire la guerra rispose, nel suo saggio “Le tre ghinee” del 1938, che occorreva mettere a disposizione delle donne tre simboliche ghinee: una per costituire il fondo per l’istruzione femminile, l’altra per garantire l’accesso delle donne alle libere professioni e l’ultima per creare un’associazione femminile pacifista chiamata “la società delle estranee”, le estranee al patriarcato, al militarismo e alla guerra, abominio tipicamente maschile. È stata una donna a “inventare” l’obiezione di coscienza al servizio militare: Emma Goldman (1869-1949), una delle figure centrali del movimento anarchico e una delle pioniere del femminismo.
Poiché però ho a disposizione solo un articolo e non una antologia, passo ad altre due scrittrici.
Christa Wolf (1929-2011), la più importante scrittrice tedesca contemporanea, nel suo capolavoro “Cassandra”, attraverso le vicende della sacerdotessa di Apollo figlia di Ecuba e di Priamo, che si unisce alle comunità femminili dissidenti dello Scamandro, mette in luce la multiforme tragedia della guerra, le mistificazioni intorno alle sue origini quando si tratta solo di una contesa per il dominio dell’Ellesponto, e il sogno di una società femminile e incruenta.
Svetlana Aleksievic (nata nel 1948, Premio Nobel per la letteratura 2015) per scrivere il suo “La guerra non ha un volto di donna” (Bompiani, 2015) ha condotto centinaia di conversazioni e di interviste con donne che, quando avevano diciotto o diciannove anni, erano accorse, in buona parte volontarie, al fronte per difendere l’URSS, ovvero la patria e i propri ideali, contro uno spietato aggressore. Alla fine furono un milione, non solo infermiere, radiotelegrafiste, cuciniere e lavandaie e neppure solo aviatrici come le “streghe della notte”, ma anche soldate di fanteria, carriste, addette alla contraerea, tiratrici scelte, geniere sminatrici. Ne emerge che per creature dispensatrici di vita dispensare morte non era stato affatto facile e che nella percezione delle donne la guerra è ancor più carica di sofferenza di quanto sia per gli uomini.

Christa Wolf

Moltissime donne si espressero in poesia contro la guerra, da Saffo alle poete dell’Ottocento e del Novecento, ignorate dalla generalità delle donne e completamente dimenticate dalla cultura maschile dominante: un po’ per volta - alcune - riportate alla luce da altre donne. Il Risorgimento italiano ebbe due poete, assai note ai loro tempi: Giannina Milli (1825-1888) di Teramo e Giulia Molino Colombini (1812-1879) di Torino. La composizione migliore della prima è un sonetto del 1859 dedicato “Ai volontari toscani che partivano per la guerra dell’Indipendenza”, in cui madri e sorelle, pur “con sembiante smorte” al momento dell’addio, sono fiere del “disio di pugnar” che infiamma i cuori dei loro cari. Del resto quale donna, dopo aver portato un figlio in grembo - nel suo proprio corpo - per nove mesi, dopo averlo partorito con dolore e dopo averlo allevato e accudito per circa diciotto anni, può essere spensierata nel vederlo partire per la guerra destinato a essere carne da macello? Se lo sostiene in tale sua scelta dimostra un coraggio civile e una coscienza patriottica decisamente ammirevoli. Bruna Bianchi nel suo libro “Versi sovversivi. Le poetesse pacifiste della Grande guerra” porta alla ribalta quanto espressero suffragiste, pacifiste, infermiere di vari Paesi (europee, russe, statunitensi), per dare voce a un dolore insieme personale e universale che invece  il potere voleva tener nascosto, per denunciare - contro l’uso distorto delle parole a opera della propaganda - il vero volto di una guerra che si accaniva sui deboli, per far conoscere il senso di colpa delle donne per non aver contrastato la guerra ed essere state acquiescenti alla visione patriarcale del mondo contro l’ordine naturale delle cose; per far conoscere anche il disagio delle operaie  che avevano sostituito nelle fabbriche di armi gli uomini al fronte e perfino lo scoramento delle infermiere nel “rappezzare” uomini che poi sarebbero stati restituiti all’esercito e rispediti in guerra.
Desidero ricordare che anche nella seconda metà del Novecento ci furono poete e cantautrici contro la guerra: tra i loro testi riporto come a mio parere particolarmente significativa una poesia del 1964 di Buffy St. Marie, cantautrice canadese, intitolata “Soldato universale”: “È alto un metro e 50 e più di due metri / combatte con i missili e con i giavellotti / ha 31 anni e ne ha solo diciassette / è stato un soldato per un centinaio di anni. / È un cattolico, un indù, un ateo, un gianista / un buddista, un battista e un ebreo / e sa che non dovrebbe uccidere / e sa che lo farà comunque. / Combatte per il Canada, combatte per la Francia / combatte per gli Stati Uniti d’America / per la Russia e per il Giappone / ed è convinto che in questo modo noi porremo / fine alla Guerra. / Combatte per la democrazia / dice che è per la pace di tutti / è lui che deve decidere / chi può vivere e chi deve morire / e non vede mai le scritte sui muri.  / Ma senza di lui come avrebbe potuto Hitler /   realizzare Dachau? / senza di lui Cesare sarebbe rimasto da solo. / (…) È il soldato universale... i suoi ordini vengono da qui e da lì / e voi, fratelli, non capite / questo non è il modo con il quale porremo fine alla Guerra”.

Buffy St. Marie

I
n una mia poesia degli anni ‘90 - “A un volontario alla guerra del Golfo” – metto in evidenza come il desiderio di andare in guerra sia stato talmente immesso nella cultura dominante da diventare quasi connaturato all’essere maschio, fino a permeare adolescenti che si offrono volontari, senza alcun riferimento al proprio Paese, in questo caso gli Stati Uniti, ma dall’altra parte del mondo (forse proprio per questo?): “Un volto ancora tondo di bambino / sui nostri giornali un diciassettenne / volontario alla guerra del Golfo. / Ti avranno attirato / con l’onore la patria la gloria / l’avventura la virilità. / Sbandierata una buona paga. / Bambino violentato e comprato / anche se non ucciderai / anche se non sarai ucciso / una parte di te sarà la morte”.
Nel Novecento le donne più coscienti e attive si sono organizzate contro la guerra, cominciando dalla Federazione Democratica Internazionale delle Donne, fondata a Parigi nel dicembre 1945, con lo scopo di portare avanti la “lotta contro il fascismo e il militarismo, la sola che può permettere di assicurare le condizioni di una pace durevole”. Della delegazione italiana, fra le più nutrite, facevano parte, tra le altre, Camilla Ravera, Ada Marchesini Gobetti, Lina Merlin, Marisa Rodano. Un caso interessante è quello delle Donne in Nero, movimento fondato nel gennaio 1988, tre settimane dopo lo scoppio della prima intifada, da nove donne di Gerusalemme per protestare contro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Il movimento si diffuse in seguito spontaneamente, prima in Canada e negli Stati Uniti e poi in Europa, a partire dall’Italia, e in Australia. 


Erella Shadmi

Come scrisse Erella Shadmi, l’uso del corpo delle donne, con la sua presenza ammantata di nero, costante nel tempo e nello spazio, stabilisce il legame tra l’esperienza delle donne e la politica nazionale, tra l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e l’occupazione maschile del corpo delle donne.
Nel 1999, nello stesso anno in cui maturava l’idea di contrapporre al Forum Economico Mondiale di Davos un forum dei popoli, nasceva nella provincia canadese del Québec un movimento femminista che poi sarebbe divenuto globale, la Marcia Mondiale delle Donne, contro le violenze e contro la povertà: la guerra è l’estrema delle violenze e una delle cause principali dell’aumento della povertà nel mondo. Non a caso, nella imponente coloratissima manifestazione dell’ottobre 2000 a Bruxelles, la delegazione italiana sbandierava uno striscione di oltre sette metri con la scritta “Donne contro la guerra”.
La Federazione Democratica Internazionale delle Donne, struttura organizzata, continua la sua attività anche settantadue anni dopo la sua fondazione: ha celebrato il suo XVII congresso nell’aprile 2022 a Caracas e fa parte dei soggetti che hanno organizzato il Vertice per la Pace di fine giugno a Madrid per opporsi alla guerra e alla NATO e per difendere la pace, vero e proprio controvertice alla NATO. Nell’ambito di tale vertice la FDID ha coordinato il panel “Unità delle donne nella lotta contro l’imperialismo” e ha partecipato alla manifestazione finale “Unite per la pace e contro l’imperialismo, No alla NATO”.


Giannina Milli

I movimenti delle Donne in Nero e della Marcia Mondiale delle Donne, invece, non sono più attivi: i movimenti nascono con slancio ed entusiasmo, si innalzano, poi decrescono e infine finiscono. Questo andamento a meteora nulla toglie alla loro importanza e alle loro idee e proposte, ma dovrebbe far capire a tutte e a tutti, dentro e fuori dai movimenti, nei partiti anticapitalisti e nei sindacati, che gli obiettivi dei movimenti possono essere raggiunti solo costruendo una unità d’azione su obiettivi condivisi capace di durate nel tempo, capace di far lottare insieme per lunghi periodi differenti forme della politica, pur mantenendo ognuna la sua autonomia politica e organizzativa. È quanto proponiamo noi donne del PCI, comuniste e femministe insieme: contro la guerra, contro il capitalismo, contro il patriarcato.
Nel 2016 però è nato in Argentina un nuovo movimento femminista e trans-femminista: Non Una Di Meno, con chiari connotati anticapitalisti, che in breve si è diffuso in settanta Paesi di vari continenti.
Il messaggio propagandato da Non Una Di Meno l’8 marzo 2022 non potrebbe essere più chiaro: “rifiutiamo la guerra, tutte le guerre perché sappiamo che la violenza che produce è la forma più estrema di un patriarcato strutturale che da sempre combattiamo nelle case e nelle strade, nei luoghi di lavoro, negli ospedali, nei tribunali e nelle carceri, nelle relazioni, sui confini”.
“La guerra cerca di ristabilire con la sua violenza ruoli e gerarchie basate sul genere. Gli uomini devono essere sacrificabili, combattenti che difendono le “proprie” donne e i “propri” figli/e. Le donne tornano a essere solo madri che scappano con i figli, mogli che piangono i mariti, vittime da salvare, proteggere e controllare, ma mai protagoniste delle proprie scelte e delle proprie lotte”. “L’opposizione alla guerra è parte di una lotta che pratichiamo ogni giorno per la trasformazione radicale della società”.


Svetlana Aleksievic

Nello specifico dell’attuale guerra in Ucraina Non Una Di Meno scrive “il militarismo serve a definire nuove strategie di profitto, impoverimento, devastazione ambientale. La corsa al riarmo e l’aumento delle spese militari pagate con i fondi del PNRR si ripercuote sulle nostre vite. Il perdurare della guerra significa anche la fine delle già parziali e insufficienti misure contro l’inquinamento e il riscaldamento globale”. L’unica affermazione mancante, implicita ma che occorre invece urlare chiaramente, è che la guerra è l’estrema espressione della violenza capitalistica: non solo patriarcale, ma capitalistico/patriarcale. Dobbiamo urlarlo soprattutto come donne, dato che il sistema capitalistico è un sistema di dominio maschile, pensato e attuato da menti, corpi e ormoni maschili.
Lo stesso movimento femminista russo - Resistenza femminista contro la guerra - ha lanciato un appello alle compagne attiviste di tutto il mondo per fermare la guerra in Ucraina, ribadendo anch’esso che “la guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani”. Nell’atrio della Casa delle Donne di Milano campeggia un cartello che riporto: “Noi femministe vogliamo urlare la nostra rabbia contro la virilità guerriera che porta la barbarie nella storia. Gridiamo contro l’orrore degli stupri che sono l’orrore di tutte le guerre. Vogliamo disertare la guerra e crediamo che deporre le armi sia l’unica soluzione al conflitto; vogliamo che si avvii il negoziato di pace subito; condanniamo l’invio di armi per impedire l’escalation della guerra e il baratro del rischio nucleare; vogliamo che la parola torni all’ONU che deve riprendere l’ispirazione sulla quale è nata;
vogliamo che si blocchi la vendita e il traffico di armi che arricchiscono i soliti poteri; siamo contro l’aumento delle spese militari e vogliamo risorse per salute welfare e scuola; ci appelliamo a tutti gli esseri umani perché i confini degli Stati non siano più soglia per la morte; sappiamo che costruire ponti tra i popoli, e non muri e confini, è l’unica strada; vogliamo accogliere con le sorelle ucraine tutte le donne migranti ferme ai confini dell’Europa; rifiutiamo l’ondata di violenza patriarcale e bellicista che si sta diffondendo in tutta Europa; gridiamo l’orrore per le donne stuprate rifugiate in Polonia a cui viene impedito di abortire; crediamo che la guerra e tutte le guerre siano evitabili e che un altro mondo è possibile”.


Virginia Wololf

La guerra non è per le donne, salvo eccezioni. Non è neppure per moltissimi uomini: oltre ai milioni di morti e di invalidi, non è stata per i proletari in divisa che nella Prima guerra mondiale tentarono di sottrarvisi con l’autolesionismo e furono fucilati; per i militari statunitensi che tornarono dal Vietnam interi nel corpo, ma incapaci di reinserirsi nel mondo del lavoro e nella vita di coppia, o che caddero in depressione o finirono preda di disturbi psichiatrici. La guerra è solo per gli uomini ai vertici delle multinazionali capitalistiche che la promuovono per lucrarvi enormi profitti, sia nella produzione di armi sia nella ricostruzione, e per i governanti al loro servizio.
Che facciano parte dei cosiddetti vincitori o dei cosiddetti vinti, le donne possono solo perdere in guerra, mai vincere.