Alcune parole che ne aiuterebbero la costituzione. “Un altro elemento da
tenere presente è questo: che nella lotta politica
non bisogna scimmiottare i metodi di lotta delle
classi dominanti, senza cadere in facili
imboscate”. [Gramsci, Lettere dal carcere, Quad. I, pag. 121] Conosco Angelo Gaccione attraverso
i suoi “Scritti contro la guerra” (ancora
per svariati motivi non c’è stata alcuna possibilità d’incontrarci): questa è
la raccolta di pensieri che enucleano parte della sua posizione politica,
culturale e sociale, nonché rappresentano la sostanza di tanti anni di lotte e
di opposizione a quell’ordine sociale tutt’ora vigente che usa la guerra come
strumento politico, come politica economica, come unico modello relazionale tra
singoli e stati in cui la schiavitù del terrore sia egemone e unica. Ecco,
questi Scritti andrebbero meditati
con pazienza poiché gli spunti, gli stimoli, la fondatezza della vis polemica vadano riconosciuti
attraverso una sincera critica. Dalla quale possa nascere - questo è
altrettanto cruciale in una critica pertinente - indicazioni operative e
organizzative verso un lavoro redazionale capace di mantenere un profilo serio
e analitico e che abbia una tenuta temporale altrettanto degna (che non duri lo
spazio di un mattino, cifra di tutti gli attuali movimenti).
Considerando a
volo d’angelo il panorama letterario nonché culturale italiano in generale dove
la parola pace è scomparsa si viene attanagliati da una resa incondizionata
all’imperativo della guerra: quello di vivere e moltiplicare la violenza
materiale e simbolica su cui fondare la vita umana. Detto meglio, se il lemma
pace fa capolino è dovuto all’uso commemorativo o di demagogia politica (cfr.
le parole di qualche mese fa dell’attuale Presidente della Camera) che non ha
altro scopo se non mettere la testa sotto la sabbia per non vedere in faccia la
crudezza della realtà, sottraendosi ad ogni tipo di responsabilità umana.
Inoltre un’attenta riflessione sui contenuti degli Scritti avrebbe inoltre un altro scopo: se vogliamo impegnarci a
riorganizzare un movimento, una piazza, insomma anche un piccolo gruppo occorre
dare segno di buona volontà (che non sia a corrente alternata), la serietà ne
sia lo stemma, la coerenza la sua tenuta logica capace di flessibilità e
ironia; e occorre, credo, una dosa infinita di passione. Questo è, per
cominciare a lumeggiare sui contenuti, il primo elemento che emerge dalla
lettura degli scritti di Angelo. Una passione che non dà tregua, sideralmente
lontana da ogni forma di rassegnazione. Una sorta di “calcio” costante sotto il
banco di scuola (per quanti intendono il banco quel luogo rassicurante dove
riflettere senza scossoni). Un po’ come quando i primi innamoramenti che
provavamo da giovanissimi erano schiaffi alla vergogna, “incapaci” di
trasformarla in passione e parola. Ora, quella innocenza è andata perduta nel
senso che è sfociata in una maturità di passione ingenua (dall’etimo che evoca
libertà), cifra di piena responsabilità davanti a sé stessi e agli altri. Ecco,
un elemento primigenio, come un istinto primordiale, che la riflessione sugli
scritti di Angelo mi ha suscitato; alludo al senso per cui questo sentimento
debba paradossalmente liberare dalle false passioni.
Non voglio però affatto
indugiare ad una interpretazione psicologista
del suo impegno; desidererei piuttosto tracciare alcune linee di lavoro che
chiariscano e osino porre il problema della pace come il problema: poiché
questa parola è assai lontana da
un’elaborazione concettuale e culturale tali da guidare l’uomo verso quella
capacità di saper riflettere sul proprio operato, sia ex ante sia ex post. La
passione non è dunque schiava di quell’istinto cieco, assetato di egoità, di
appropriazione, di dominio che contraddistingue le relazioni, almeno in Occidente.
La passione sarebbe da intendersi come compagna, consustanziale quindi, alla
capacità dell’uomo, di ogni uomo, di iniziare.
Passione, così sinteticamente tratteggiata, e cominciamento sono antidoti allo
scimmiottamento che Gramsci in esergo ammoniva. E lo sono in virtù del loro
intrinseco portato di libertà. Che è oggi è urgentissimo riscoprire e ripensare
alla luce del dramma che viviamo; una tragedia che ha una caratteristica che
prima non si sarebbe mai potuta concretizzare: quella per cui la vita umana sia
cancellata per mano stessa dell’uomo attraverso l’arma atomica. Ripensare alla
passione e alla natura della libertà quindi. “Dobbiamo però spingere più a fondo la nostra riflessione sulla
libertà, perché raramente una parola è stata usata in modo peggiore ed è stata
corrotta più a fondo […] essa esprime la realtà di fatto che l’uomo
non è soltanto un trasformatore di energie, ma è initium, inizio; che l’uomo ha
iniziativa, nel senso che ha, al proprio interno, un’originaria forza di ‘iniziare’; e che per questo deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico
che è la responsabilità. (R. Guardini, La
Rosa Bianca, pp. 49-50). Mettere in correlazione questa riflessione con
quella che deriva dagli Scritti ha
come scopo il tentativo di ripensare daccapo l’essenza della pace nel nostro
momento storico, con le sue categorie, le sue contraddizioni, le sue enormi
fragilità davanti ad un sistema di politica economica che non è altro che
guerra su tutti i fronti.
L’importanza di
ogni parola, esorta Tony Morrison nel suo romanzo, è quell’atto, tanto teorico
quanto pratico, con cui i paradossi sono colti nella loro realtà tanto da
condurci fuori dall’inganno di un linguaggio, di un ordine del discorso per dirla con Foucault, che sostanzialmente è
una forma raffinatissima di schiavitù. Riappropriarci delle parole
significherebbe perciò riconquistare l’universalità di un pensiero complesso e
ardito. Senza il quale universo la pace è solo strumento di marcette, slogan,
urla con cui si ripropongono, seppur con forme all’apparenza diverse, le
prospettive di lotta che già un dato ordine sociale ha previsto. Inizio fa il
pari con creatività; stare di fronte alla verità nelle sue sfaccettature
problematiche che, come ricorda Michelangelo, è già inscritta nella pietra da
scolpire. Questo cercare di uscire dagli schemi linguistici creatori di realtà ad hoc fu invero la struttura del
celebre “Disobbedienza civile” di Thoreaudove l’autore, in aperto contrasto con
il governo americano di condurre una guerra contro il Messico, ed in completa
(eclettica?) solitudine, rifiutò non solo di pagare le tasse ma di pagare
quella, ben più fondamentale, relegata nell’idea di cittadinanza
contraddistinta da comodità e opportunismo; abbracciando invece quella su cui
la libertà e la passione siano la base di rapporti davvero umani e non formali.
Gandhi, letteralmente divorato dal fuoco della verità e della giustizia
sociale, non poteva mancare di cogliere in Thoreau un esempio di veritiera e
viva etica. Insomma, abbiamo a disposizione un arsenale di strumenti per iniziare la pace; ben più grande e più
“potente” di quello di una cultura di violenza e guerra.