Da
Io sono Medea a Controcanto in Verdargento di Claudia Mazzilli.
Dopo
il romanzo d’esordio, Io sono Medea, Claudia Mazzilli ci sorprende con questo
secondo romanzo che porta il titolo Controcanto in Verdargento, uscito
nel luglio di quest’anno per Ortica Editrice. Controcanto in Verdargento
per la verità è stato – nella storia della genesi dei suoi romanzi – il primo
romanzo scritto da Mazzilli, la vera opera prima, anche se oggi viene
pubblicato per secondo; ed evidenziarlo ha un suo significato perché in un
certo senso questo libro mi appare fondativo per le varie potenzialità e linee
di sviluppo che lascia intravedere, insieme alla sua strumentazione narrativa e
anche ai suoi interrogativi metaletterari inseriti direttamente nel romanzo. E
in quest’ottica anche Io sono Medea acquista un’altra dimensione
prospettica, quale espressione di alcune di quelle linee di sviluppo annunciate
da questo primo libro matrice. Già la parola Canto del titolo ci rimanda
a una dimensione tendenzialmente lirica del romanzo; e Verdargento vi
aggiunge quasi una coloritura di magia naturale; infine, in quel Controcanto
avvertiamo come l’esigenza di un’altra narrazione rispetto alla versione
ufficiale della storia. Ma non finisce qui, il titolo rimanda a una sorta di
peculiare architettura arborea del romanzo, e l’albero qui sotteso, dal colore
verdargento delle sue foglie, è l’ulivo millenario di Puglia. Ed è inutile dire
che in quest’onda verdargento che sale dal Mediterraneo io sento l’esigenza
dell’autrice di un radicamento identitario che va oltre la storia e affonda
nella coscienza cosmica. Bene lo dice Mazzilli: “Non so essere radicata e
oscillare nel vento come albero flessibile e sinuoso, chioma d’ulivo che
brulica di argento e balugina di guizzi verdi e vibranti. Forse solo quello
sarebbe il mio ritmo possibile nella culla della luce” (p. 139). E tanto è vero
questo, che la Verdargento della nostra Autrice potrebbe essere l’equivalente
della Vigata di Camilleri, per i suoi paesaggi e le consuetudini millenarie,
tra preti e superstizioni, per le sue incursioni lessicali nel dialetto e nella
parlata del luogo e le memorie ancestrali e segrete che vi sono gelosamente
custodite. Dunque, un paese immaginario dove i fatti narrati trarranno sì
spunto da qualche fatto reale, ma poi sono fortemente trasfigurati nella
finzione narrativa.
L’architettura arborea del romanzo si annuncia
con un Ramo primo, poi un Ramo secondo e un Ramo terzo (un ramo per ognuna
delle tre protagoniste femminili), poi c’è un Innesto (con una speciale figura
maschile) e infine Tronco e radici (della capostipite), quindi la sequenza,
come “in un rito della memoria” (p. 180), fa un percorso inverso, a ritroso,
dalla chioma alle radici, parte dalle figlie simboliche di una genealogia che
vede come sua antenata capostipite una certa Immacolata, che ritroveremo nella
rievocazione della sua storia personale nell’ultimo capitolo del romanzo;
perché è lei che dà radici e tronco a queste tre protagoniste femminili, che
non sono delle figlie di sangue, ma sicuramente donne che si riconoscono in
lei, e in lei trovano radicamento come in un millenario albero d’ulivo.
Immacolata, infatti, oltre che reale, è figura archetipica, con taluni tratti
del registro fiabesco e non solo. La parte antropologica a lei dedicata,
infatti, rimanda a qualcosa di arcaico, già preannunciato nella dedica del
libro “alle antenate”; che a me ha fatto pensare, ad es., alle antenate divinizzate
di Cipro che sono state la prima forma di civiltà matriarcale, ancora
precedente quella che poi sarà la fase più tarda della teacrazia: per dire
quanto questa scrittura affonda nella memoria ancestrale del nostro inconscio
collettivo. In questo senso i Rami del libro non sono soltanto i rami
dell’ulivo – peraltro per queste civiltà arcaiche ritenuti sacri – ma sono i
rami del clan, che si diramano dal ceppo dell’antenata, della capostipite, in
questo caso simbolica, e non di sangue. Detto per inciso, ci sono dei tentativi
in atto di rifondare in chiave contemporanea dei matriclan, che ovviamente
vengono ripensati su base di affinità, laddove i legami di sangue sono andati
distrutti o non siano più proponibili. Ma quanto sia profondo e arcaico il legame
tra questa antenata prossima al trapasso e la sua discendenza simbolica, è
messo a fuoco proprio nel rapporto con la morte, vissuta come rinascita: “Tutto
ciò che è stato /_..._/ rinasce in un movimento a spirale intorno a noi, in
un’agonia che assomiglia a una creazione, al travaglio di un parto alla
rovescia” (p. 181).
Come poi sarà anche nel romanzo Io sono Medea,
anche qui l’attacco del romanzo ci immette in medias res, in
un’ambientazione entro cui ci vengono incontro i personaggi. Ora, il Ramo primo
ci offre la vicenda di una giovane donna – Caterina
– che vive a Milano, che vuole realizzarsi come regista teatrale, che ha in
mente il teatro epico di Brecht e fa riferimento al Piccolo Teatro come felice
sineddoche della città di Milano (come l’autrice dice nelle sue note al
romanzo); tra i personaggi del Ramo primo incontriamo Sandro e Adriano, due
figure maschili con funzioni diverse, psicologiche e sociologiche; più in
generale le protagoniste femminili si misurano ciascuna con coppie di personaggi
maschili – Caterina con Sandro (il proletario) e Adriano (il borghese), Valeria
con Giacomo (il puttaniere impeccabile) e Lino (il puer innocente) – quasi che
il maschile, scisso in alcune sue polarità, non avesse la forza di ricomporsi
in una sintesi e rendere possibile una relazione. Diversamente, nel Ramo terzo,
sarà Anna Francesca, che, a ruoli rovesciati, si vedrà affiancata ad altre lei
dalla doppiezza di Costantino. Nel complesso il Ramo primo del romanzo ci offre
uno spaccato sociologico, mette a confronto personaggi di estrazione sociale
differente, il borghese agiato che non ha dovuto conquistarsi nulla e che quasi
ne risente, quasi patisce, sconta, questa condizione di privilegio, rispetto al
proletario urbano che cerca di trovare uno sbocco creativo alla sua esistenza,
malgrado la sua condizione subalterna, e che Caterina, figura per lui materna,
aiuta a far sì che possa mettere a segno il suo potenziale; anche lei,
meridionale, di ceto medio, “che si era sforzata di volare alto, ma più in alto
non si può, nella società di classe” (p. 51). Sociologico anche sotto il
profilo della mescolanza di etnie di quella che oggi è una società globalizzata
di migranti vecchi e nuovi (e nuove guerre tra poveri) e che fa dire della
Stazione Centrale di Milano che vi “crescono, come in una gigantesca serra,
coltivazioni di miseria” (p. 5). Filone, questo, che sarà poi sviluppato in Io
sono Medea. Nel romanzo è peraltro sottesa un’analisi che va oltre il
sociologico, e si spinge in una più vasta critica della civiltà, comprese le
relazioni internazionali e i suoi precari equilibri geopolitici.
Anche il Ramo secondo rispecchia una realtà
decisamente più metropolitana, con un’altra protagonista, Valeria, proiettata
da Verdargento a Parigi, Londra, e comunque fuori dai confini nazionali,
femminista, studiosa delle opere di Virginia Woolf (di cui nel romanzo sono
disseminate varie citazioni). Forse più di tutti è nella vicenda di Valeria che
si avverte l’angoscia esistenziale della protagonista, stretta tra le sue aspettative
di realizzazione e la precarietà della sua condizione sociale, una vicenda in
realtà rappresentativa dell’angoscia esistenziale di un’intera generazione di
giovani che hanno seguito le proprie illusioni. Anche lei incappa in figure
maschili particolari, Giacomo e Lino. Più in generale le figure maschili non ne
escono bene in questo romanzo, sono sempre sfuggenti, presenti-assenti, quando
non affamanti (come Adriano che sfibra Caterina in un crescendo supplizio di
Tantalo), incapaci di coinvolgersi veramente in una relazione vera e profonda,
e soprattutto di cogliere la dimensione simbolica dell’esistenza; ma – va detto
– anche il personaggio femminile (ad es. Valeria) è
altrettanto sulle difensive, con una sua teoria da sperimentare: “…cui ha dato
dignità filosofica: l’ha chiamata il paradosso del puttaniere /_..._/ solo
un puttaniere può renderti felice, perché non ti ama e non ti illude” (p.
87), “l’idea platonica del Puttaniere” (p. 114); altrettanto gelosa della
propria libertà è Caterina, riluttante rispetto alla convivenza, in cui
l’abitudine “sciupa tutto”, certamente capace di coinvolgimento, ma refrattaria
alle convenzioni che la vorrebbero moglie e madre, matrimonio, figli,
cancellando il suo vero essere al di qua delle etichette. Addirittura nel Ramo
terzo Anna Francesca, la guardia forestale, l’unica che vive stabilmente in
Puglia, rimane invischiata nel “gioco sadico” di una figura maschile cinica che
raggiunge livelli estremi, la cui brutalità è prossima allo stupro e dove la
scrittura rende in maniera davvero mirabile questa dimensione cruda, violenta,
tanto sul piano fisico, quanto sul piano delle sottigliezze psicologiche,
compreso il linguaggio non verbale dei personaggi, capace di indagare e
rappresentare senza veli e falsi pudori le sfere del corpo e della sessualità.
Se le prime due protagoniste e i primi due Rami del romanzo rimandano più a
delle realtà metropolitane, e quindi più di tipo sociologico e storico-politico
e sempre con grande attenzione a cogliere le sfumature psicologiche e gli
insight delle relazioni liquide alla Bauman, nella parte conclusiva, denominata
“Tronco e radici”, prevale un registro storico-antropologico ancora più
affascinante; storico perché la rievocazione dei fatti è ambientata in epoca
fascista e durante la guerra, e antropologico perché viene messa in scena quella
che viene chiamata “terra di barbarie”, non certo dal punto di vista di
Immacolata, ma dal punto di vista di chi ha lasciato il paese andando
oltreoceano e guarda quindi non senza arroganza a questa terra natia e al
passato che si è lasciato alle spalle. Effettivamente sono narrati fatti direi
quasi cruenti, truculenti, ferini, o comunque quei fatti di paese dove a me viene
da pensare che ci si sposava tra consanguinei con conseguenti malformazioni
della prole, o come in questo caso, dove una figlia demente viene violentata da
un ignoto balordo e partorisce una creatura a tre gambe. Deformità e
mostruosità, ed eventi di estrema violenza che si consumano di nascosto dietro
la facciata perbenista e pettegola del paese. Se nei primi due Rami abbiamo
anche una grande ricchezza di citazioni letterarie, si pensi Al Faro di
Virginia Woolf oppure alla Giovanna dei Macelli nel teatro di Brecht,
che intrecciano nella narrazione una trama letteraria, nella parte finale
abbiamo anche una grande carrellata mitografica; si apre dunque uno sguardo sul
mito, che poi costituirà una vera e propria linea di sviluppo e di approdo nel
successivo romanzo Io sono Medea. Qui per la prima volta si affacciano i
tanti miti grazie ai quali Immacolata è riuscita ad alfabetizzarsi ad opera di
una figura paterna benevola che l’ha educata e l’ha sottratta a una vita
residuale, priva di senso. Se dunque le figure maschili più giovani e papabili
a una relazione d’amore sono fallimentari, vi sono però figure paterne come il
farmacista o il nonno Antonio, entrambi anarchici, che offrono un versante
archetipico positivo. Tuttavia sono figure destinate a uscire di scena, intanto
non certo viste di buon occhio dal regime, e poi l’uno verrà dichiarato dai
figli avidi incapace di intendere e di volere, mentre l’altro morirà di
crepacuore.
E poi, oltre i Rami, c’è l’Innesto, e, in questo
capitolo, protagonista non è la figura femminile narrante (Anna Francesca), ma
una figura maschile di nome Clò, colta nell’aura della rievocazione, in un
“rito della memoria”, in cui l’io narrante sente che canta l’essenza, direi
l’unica figura maschile giovane che nel romanzo ne esce bene, e che a me ha
fatto pensare a una sua evoluzione nel personaggio di Absirto nel successivo
romanzo Io sono Medea. E la protagonista, in entrambi i romanzi,
chiamerà ripetutamente il nome di questo come di quello, come in una lontana
eco. Per questo come per quello, la figura femminile è pervasa da un sentimento
d’amore e istinto materno a “fare tutto il possibile”, un sentimento più
nitidamente definito nei confronti del fratello Absirto da parte di Medea con
un mandato a farsi vicaria della madre Idyia, più sfumato, più ambiguo e meno
definibile, invece, nei confronti di Clò da parte di Anna Francesca. Tra un
Ramo e l’altro di questa architettura arborea del romanzo, si direbbe che
volano in corsivo alcune pagine di raccordo, dette “Foglie al vento”; la prima
di queste pagine, che raccorda il Ramo primo e il Ramo secondo, ci presenta,
come in un copione di una scena teatrale, lo sfilare, in una situazione
riflessa allo specchio, delle tre donne che comporranno il trittico di questo
romanzo, le quali sfilando l’una dopo l’altra, andranno al capezzale della
vecchia antenata.
Le seconde “Foglie al vento” di raccordo tra il Ramo secondo e il Ramo terzo,
sono nella forma dialogata rivolta ad Immacolata, di una lei che si rivolge a
un tu, e di comari e commaredde rivolte a un voi. È in queste pagine che il
racconto si fa (c)orale rivolto a Imma, lei che nella quotidianità ha “aperto
spiragli di ordinaria rivoluzione”, lei stessa cantastorie di “vecchie storie
di paese”, di “favole di creature strane e mutevoli, un po' bestie e un po'
cristiane”; con il suo “umanesimo di razza contadina” e la sapienza
dell’armonia dei contrari. Sono forse le pagine più poetiche del libro, quelle
che più l’avvicinano al canto promesso nel titolo. E al corsivo saranno
affidate poi anche le pagine più mitiche delle narrazioni di Io sono Medea.
Intanto nel Ramo terzo, la scrittura prende un’alternanza tra tondo e corsivo
come in una danza tra realtà e trasfigurazione, la stessa che Anna Francesca,
mitica Atalanta della corsa, ingaggia con Costantino, dove “ogni cosa è reale
intorno a lei /_..._/ Ma tutto vibra e si rifrange” tra terra e acqua, in una
lunga sequenza di similitudini che mettono le ali (p. 136) fino all’afflato
panico: “Sono l’onda che rigurgita e turbina e scende e sale. Sono la luce tra
il mio flusso e il gabbiano la barca e la stella lontana /_..._/ Il raggio che
traluce nella fibra delle foglie” (p. 138).
Tra le tecniche narrative c’è quella della
narrazione indiretta, in base alla quale la narrazione delle vicende che
riguardano la figura protagonista viene affidata ad altro personaggio (così è
Sandro che ricostruisce i vissuti di Caterina, o è Anna Francesca che rievoca
le vicende drammatiche di Immacolata al capezzale di lei moribonda). C’è dunque
tutto un gioco di sponda tra personaggi che conferiscono dinamicità alla
narrazione. Analoga funzione dinamica assume la continua alternanza dei tempi,
ora il tempo lineare degli accadimenti in ordine cronologico, ora un
controtempo del flashback o analessi, della rievocazione degli avvenimenti, del
tornare indietro; oppure, invertendo la direzione temporale, dell’andare avanti,
con anticipazioni di prolessi o flashforward come quando Sandro si immagina già
proiettato in avanti alla stazione ferroviaria successiva (pp. 69-70). Oltre la visione teatrale insita nello
sguardo di Mazzilli, interessante è anche la contaminazione direi quasi filmica
del romanzo, quando ad es. Sandro desidererebbe, in una sorta di regressus
ad uterum, il treno risucchiato all’indietro verso “il coperchio liberty”
della Stazione Centrale come non fosse mai partito (p. 69). Contaminazione resa
esplicita in un altro passaggio del romanzo: “(…) il film va a ritroso, si
riavvolge la pellicola, l’auto di Giacomo fa retromarcia, il cancello torna
chiuso” (p. 116). Con una notevole capacità di plasmare la realtà, Mazzilli si
muove tra realtà e immaginazione, tra creazione e descrizione dei luoghi.
Tra le tecniche finalizzate a elicitare l’attenzione del lettore, c’è anche
quella di anticipare una citazione, posticipando il nome dell’autore, o quella
di anticipare un qualche enunciato, posticipando il nome del soggetto parlante;
e in generale quella di dire e non dire, di alludere a una qualche forma di
mistero, per suscitare anche una vera e propria suspence (modalità narrativa
che troveremo anche nel romanzo successivo).
Se veniamo allo stile, è veramente sorprendente la mescolanza di registri alti
e bassi, e anche volgari (che nel romanzo successivo andranno un po'
stemperandosi); qui vengono messi in scena gli aspetti più triviali, cinici,
brutali, sadici dell’essere umano (che in Io sono Medea saranno affidati
soprattutto al personaggio di Giasone), nello stesso tempo ci sono anche
momenti poetici, di grande delicatezza (come in Io sono Medea saranno le
pagine dedicate ad Absirto). Anche in questo romanzo, come poi sarà in Io
sono Medea, c’è uno stile ironico, di una verità cruda e spietata.
Dall’altro abbiamo anche qui una magnifica antitesi tra registro realistico e
grande potenza immaginativa, c’è addirittura un brano molto bello, in cui
Valeria è un po' ebbra e viene portata in auto, e lì comincia a vedere
ambientazioni acquatiche, e c’è uno sfolgorio di pesci, di colori, di una
scintillante pescheria (pp. 101-103) e in quell’acquario dell’immaginazione
vede roteare frammenti di tutte le città europee dove havissuto.
Quanto ai personaggi, è probabile che Mazzilli
affidi loro le sue varie anime, a Sandro la scrittura, a Caterina il teatro, a
Valeria la vis politica femminista ecc. Un’altra caratteristica
peculiare di questa narrativa è la grande capacità di tratteggiare i
personaggi, dall’esprit de geometrie del commercialista Giacomo
all’esuberanza erotica di Doina, sorta di Bocca di rosa arrivata a Verdargento,
“bella come una bestemmia, come una madonna nuda” (p.
216). Ve li potete immaginare plasticamente questi personaggi, singoli o
corali, come “le selvagge andate a vivere nell’orgia fuori dal paese” (p. 217), incarnazione delle baccanti. Comunque è
l’ultima parte quella che più risente dell’immaginazione, perché da un lato
affaccia sul mito, dall’altra soprattutto vira verso la favola con i suoi esseri
mostruosi e i suoi improbabili cortocircuiti della realtà; questa figura di
Immacolata con tre gambe non è esattamente figura realistica, soprattutto per
come poi viene rappresentata nei suoi movimenti, nelle sue posture; in un certo
passaggio ho visto addirittura la figura di Gregor Samsa che si agita sul dorso
del carapace “con quel formicolare di troppe gambe” (p. 206). Non credo di
interpretare oltre il dovuto perché nel romanzo questo riferimento viene
esplicitato, in ogni caso vi ho visto una punta di assurdo kafkiano. E in
effetti spesso le situazioni antropologiche che vengono rappresentate sono
assurde; l’assurdo è dato dal rovesciamento dei valori, per es. quando i
parenti avidi del lascito testamentario del padre vogliono dichiararlo incapace
di intendere e di volere, mettendo in strada la povera Immacolata che leva “un
pianto che canta e che consola anche le pietre, un canto che raccontava tutto
quell’inganno” (p. 221). I parenti vogliono avere restituite da lei, la strega,
le carte testamentarie mancanti. E lei non capisce e pensa che vogliano le sue
carte, quelle che lei si è portata via dalla casa da cui è stata cacciata. Ma
quelle sono tutte le pagine meravigliose e care della letteratura e del mito
attraverso le quali quell’uomo generoso l’ha resa una persona acculturata, agli
occhi dei paesani, “una signora da scimmia quadrupede che era o qualcos’altro,
bestia con proboscide, o demonio con la coda” (p. 211) – certamente ben al
disopra della brama di beni materiali che viceversa fanno apparire quei parenti
rozzi e meschini. Ecco l’assurdo dei valori rovesciati. L’assurdo
dell’ortodossia e delle sacre istituzioni – prete, sindaco, podestà –
rappresentanti di valori di facciata, latitanti di fronte al sopruso. Ma
infine, quella di Immacolata, sembra essere davvero “una fiaba contemporanea
che rivendica il diritto a essere quel che si è, a dispetto dei padri, dei
preti, dei partner fissi e occasionali, dei pregiudizi e degli oscurantismi di
tutti i tempi.”