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lunedì 24 ottobre 2022

Libri
NEL RITO DELLA MEMORIA
di Gabriella Galzio

Claudia Mazzilli

Da Io sono Medea a Controcanto in Verdargento di Claudia Mazzilli.

Dopo il romanzo d’esordio, Io sono Medea, Claudia Mazzilli ci sorprende con questo secondo romanzo che porta il titolo Controcanto in Verdargento, uscito nel luglio di quest’anno per Ortica Editrice. Controcanto in Verdargento per la verità è stato – nella storia della genesi dei suoi romanzi – il primo romanzo scritto da Mazzilli, la vera opera prima, anche se oggi viene pubblicato per secondo; ed evidenziarlo ha un suo significato perché in un certo senso questo libro mi appare fondativo per le varie potenzialità e linee di sviluppo che lascia intravedere, insieme alla sua strumentazione narrativa e anche ai suoi interrogativi metaletterari inseriti direttamente nel romanzo. E in quest’ottica anche Io sono Medea acquista un’altra dimensione prospettica, quale espressione di alcune di quelle linee di sviluppo annunciate da questo primo libro matrice. Già la parola Canto del titolo ci rimanda a una dimensione tendenzialmente lirica del romanzo; e Verdargento vi aggiunge quasi una coloritura di magia naturale; infine, in quel Controcanto avvertiamo come l’esigenza di un’altra narrazione rispetto alla versione ufficiale della storia. Ma non finisce qui, il titolo rimanda a una sorta di peculiare architettura arborea del romanzo, e l’albero qui sotteso, dal colore verdargento delle sue foglie, è l’ulivo millenario di Puglia. Ed è inutile dire che in quest’onda verdargento che sale dal Mediterraneo io sento l’esigenza dell’autrice di un radicamento identitario che va oltre la storia e affonda nella coscienza cosmica. Bene lo dice Mazzilli: “Non so essere radicata e oscillare nel vento come albero flessibile e sinuoso, chioma d’ulivo che brulica di argento e balugina di guizzi verdi e vibranti. Forse solo quello sarebbe il mio ritmo possibile nella culla della luce” (p. 139). E tanto è vero questo, che la Verdargento della nostra Autrice potrebbe essere l’equivalente della Vigata di Camilleri, per i suoi paesaggi e le consuetudini millenarie, tra preti e superstizioni, per le sue incursioni lessicali nel dialetto e nella parlata del luogo e le memorie ancestrali e segrete che vi sono gelosamente custodite. Dunque, un paese immaginario dove i fatti narrati trarranno sì spunto da qualche fatto reale, ma poi sono fortemente trasfigurati nella finzione narrativa.



L’architettura arborea del romanzo si annuncia con un Ramo primo, poi un Ramo secondo e un Ramo terzo (un ramo per ognuna delle tre protagoniste femminili), poi c’è un Innesto (con una speciale figura maschile) e infine Tronco e radici (della capostipite), quindi la sequenza, come “in un rito della memoria” (p. 180), fa un percorso inverso, a ritroso, dalla chioma alle radici, parte dalle figlie simboliche di una genealogia che vede come sua antenata capostipite una certa Immacolata, che ritroveremo nella rievocazione della sua storia personale nell’ultimo capitolo del romanzo; perché è lei che dà radici e tronco a queste tre protagoniste femminili, che non sono delle figlie di sangue, ma sicuramente donne che si riconoscono in lei, e in lei trovano radicamento come in un millenario albero d’ulivo. Immacolata, infatti, oltre che reale, è figura archetipica, con taluni tratti del registro fiabesco e non solo. La parte antropologica a lei dedicata, infatti, rimanda a qualcosa di arcaico, già preannunciato nella dedica del libro “alle antenate”; che a me ha fatto pensare, ad es., alle antenate divinizzate di Cipro che sono state la prima forma di civiltà matriarcale, ancora precedente quella che poi sarà la fase più tarda della teacrazia: per dire quanto questa scrittura affonda nella memoria ancestrale del nostro inconscio collettivo. In questo senso i Rami del libro non sono soltanto i rami dell’ulivo – peraltro per queste civiltà arcaiche ritenuti sacri – ma sono i rami del clan, che si diramano dal ceppo dell’antenata, della capostipite, in questo caso simbolica, e non di sangue. Detto per inciso, ci sono dei tentativi in atto di rifondare in chiave contemporanea dei matriclan, che ovviamente vengono ripensati su base di affinità, laddove i legami di sangue sono andati distrutti o non siano più proponibili. Ma quanto sia profondo e arcaico il legame tra questa antenata prossima al trapasso e la sua discendenza simbolica, è messo a fuoco proprio nel rapporto con la morte, vissuta come rinascita: “Tutto ciò che è stato /_..._/ rinasce in un movimento a spirale intorno a noi, in un’agonia che assomiglia a una creazione, al travaglio di un parto alla rovescia” (p. 181).



Come poi sarà anche nel romanzo Io sono Medea, anche qui l’attacco del romanzo ci immette in medias res, in un’ambientazione entro cui ci vengono incontro i personaggi. Ora, il Ramo primo ci offre la vicenda di una giovane donna Caterina – che vive a Milano, che vuole realizzarsi come regista teatrale, che ha in mente il teatro epico di Brecht e fa riferimento al Piccolo Teatro come felice sineddoche della città di Milano (come l’autrice dice nelle sue note al romanzo); tra i personaggi del Ramo primo incontriamo Sandro e Adriano, due figure maschili con funzioni diverse, psicologiche e sociologiche; più in generale le protagoniste femminili si misurano ciascuna con coppie di personaggi maschili – Caterina con Sandro (il proletario) e Adriano (il borghese), Valeria con Giacomo (il puttaniere impeccabile) e Lino (il puer innocente) – quasi che il maschile, scisso in alcune sue polarità, non avesse la forza di ricomporsi in una sintesi e rendere possibile una relazione. Diversamente, nel Ramo terzo, sarà Anna Francesca, che, a ruoli rovesciati, si vedrà affiancata ad altre lei dalla doppiezza di Costantino. Nel complesso il Ramo primo del romanzo ci offre uno spaccato sociologico, mette a confronto personaggi di estrazione sociale differente, il borghese agiato che non ha dovuto conquistarsi nulla e che quasi ne risente, quasi patisce, sconta, questa condizione di privilegio, rispetto al proletario urbano che cerca di trovare uno sbocco creativo alla sua esistenza, malgrado la sua condizione subalterna, e che Caterina, figura per lui materna, aiuta a far sì che possa mettere a segno il suo potenziale; anche lei, meridionale, di ceto medio, “che si era sforzata di volare alto, ma più in alto non si può, nella società di classe” (p. 51). Sociologico anche sotto il profilo della mescolanza di etnie di quella che oggi è una società globalizzata di migranti vecchi e nuovi (e nuove guerre tra poveri) e che fa dire della Stazione Centrale di Milano che vi “crescono, come in una gigantesca serra, coltivazioni di miseria” (p. 5). Filone, questo, che sarà poi sviluppato in Io sono Medea. Nel romanzo è peraltro sottesa un’analisi che va oltre il sociologico, e si spinge in una più vasta critica della civiltà, comprese le relazioni internazionali e i suoi precari equilibri geopolitici. 



A
nche il Ramo secondo rispecchia una realtà decisamente più metropolitana, con un’altra protagonista, Valeria, proiettata da Verdargento a Parigi, Londra, e comunque fuori dai confini nazionali, femminista, studiosa delle opere di Virginia Woolf (di cui nel romanzo sono disseminate varie citazioni). Forse più di tutti è nella vicenda di Valeria che si avverte l’angoscia esistenziale della protagonista, stretta tra le sue aspettative di realizzazione e la precarietà della sua condizione sociale, una vicenda in realtà rappresentativa dell’angoscia esistenziale di un’intera generazione di giovani che hanno seguito le proprie illusioni. Anche lei incappa in figure maschili particolari, Giacomo e Lino. Più in generale le figure maschili non ne escono bene in questo romanzo, sono sempre sfuggenti, presenti-assenti, quando non affamanti (come Adriano che sfibra Caterina in un crescendo supplizio di Tantalo), incapaci di coinvolgersi veramente in una relazione vera e profonda, e soprattutto di cogliere la dimensione simbolica dell’esistenza; ma – va detto anche il personaggio femminile (ad es. Valeria) è altrettanto sulle difensive, con una sua teoria da sperimentare: “…cui ha dato dignità filosofica: l’ha chiamata il paradosso del puttaniere /_..._/ solo un puttaniere può renderti felice, perché non ti ama e non ti illude” (p. 87), “l’idea platonica del Puttaniere” (p. 114); altrettanto gelosa della propria libertà è Caterina, riluttante rispetto alla convivenza, in cui l’abitudine “sciupa tutto”, certamente capace di coinvolgimento, ma refrattaria alle convenzioni che la vorrebbero moglie e madre, matrimonio, figli, cancellando il suo vero essere al di qua delle etichette. Addirittura nel Ramo terzo Anna Francesca, la guardia forestale, l’unica che vive stabilmente in Puglia, rimane invischiata nel “gioco sadico” di una figura maschile cinica che raggiunge livelli estremi, la cui brutalità è prossima allo stupro e dove la scrittura rende in maniera davvero mirabile questa dimensione cruda, violenta, tanto sul piano fisico, quanto sul piano delle sottigliezze psicologiche, compreso il linguaggio non verbale dei personaggi, capace di indagare e rappresentare senza veli e falsi pudori le sfere del corpo e della sessualità. Se le prime due protagoniste e i primi due Rami del romanzo rimandano più a delle realtà metropolitane, e quindi più di tipo sociologico e storico-politico e sempre con grande attenzione a cogliere le sfumature psicologiche e gli insight delle relazioni liquide alla Bauman, nella parte conclusiva, denominata “Tronco e radici”, prevale un registro storico-antropologico ancora più affascinante; storico perché la rievocazione dei fatti è ambientata in epoca fascista e durante la guerra, e antropologico perché viene messa in scena quella che viene chiamata “terra di barbarie”, non certo dal punto di vista di Immacolata, ma dal punto di vista di chi ha lasciato il paese andando oltreoceano e guarda quindi non senza arroganza a questa terra natia e al passato che si è lasciato alle spalle. Effettivamente sono narrati fatti direi quasi cruenti, truculenti, ferini, o comunque quei fatti di paese dove a me viene da pensare che ci si sposava tra consanguinei con conseguenti malformazioni della prole, o come in questo caso, dove una figlia demente viene violentata da un ignoto balordo e partorisce una creatura a tre gambe. Deformità e mostruosità, ed eventi di estrema violenza che si consumano di nascosto dietro la facciata perbenista e pettegola del paese. Se nei primi due Rami abbiamo anche una grande ricchezza di citazioni letterarie, si pensi Al Faro di Virginia Woolf oppure alla Giovanna dei Macelli nel teatro di Brecht, che intrecciano nella narrazione una trama letteraria, nella parte finale abbiamo anche una grande carrellata mitografica; si apre dunque uno sguardo sul mito, che poi costituirà una vera e propria linea di sviluppo e di approdo nel successivo romanzo Io sono Medea. Qui per la prima volta si affacciano i tanti miti grazie ai quali Immacolata è riuscita ad alfabetizzarsi ad opera di una figura paterna benevola che l’ha educata e l’ha sottratta a una vita residuale, priva di senso. Se dunque le figure maschili più giovani e papabili a una relazione d’amore sono fallimentari, vi sono però figure paterne come il farmacista o il nonno Antonio, entrambi anarchici, che offrono un versante archetipico positivo. Tuttavia sono figure destinate a uscire di scena, intanto non certo viste di buon occhio dal regime, e poi l’uno verrà dichiarato dai figli avidi incapace di intendere e di volere, mentre l’altro morirà di crepacuore.



E poi, oltre i Rami, c’è l’Innesto, e, in questo capitolo, protagonista non è la figura femminile narrante (Anna Francesca), ma una figura maschile di nome Clò, colta nell’aura della rievocazione, in un “rito della memoria”, in cui l’io narrante sente che canta l’essenza, direi l’unica figura maschile giovane che nel romanzo ne esce bene, e che a me ha fatto pensare a una sua evoluzione nel personaggio di Absirto nel successivo romanzo Io sono Medea. E la protagonista, in entrambi i romanzi, chiamerà ripetutamente il nome di questo come di quello, come in una lontana eco. Per questo come per quello, la figura femminile è pervasa da un sentimento d’amore e istinto materno a “fare tutto il possibile”, un sentimento più nitidamente definito nei confronti del fratello Absirto da parte di Medea con un mandato a farsi vicaria della madre Idyia, più sfumato, più ambiguo e meno definibile, invece, nei confronti di Clò da parte di Anna Francesca. Tra un Ramo e l’altro di questa architettura arborea del romanzo, si direbbe che volano in corsivo alcune pagine di raccordo, dette “Foglie al vento”; la prima di queste pagine, che raccorda il Ramo primo e il Ramo secondo, ci presenta, come in un copione di una scena teatrale, lo sfilare, in una situazione riflessa allo specchio, delle tre donne che comporranno il trittico di questo romanzo, le quali sfilando l’una dopo l’altra, andranno al capezzale della vecchia antenata.
Le seconde “Foglie al vento” di raccordo tra il Ramo secondo e il Ramo terzo, sono nella forma dialogata rivolta ad Immacolata, di una lei che si rivolge a un tu, e di comari e commaredde rivolte a un voi. È in queste pagine che il racconto si fa (c)orale rivolto a Imma, lei che nella quotidianità ha “aperto spiragli di ordinaria rivoluzione”, lei stessa cantastorie di “vecchie storie di paese”, di “favole di creature strane e mutevoli, un po' bestie e un po' cristiane”; con il suo “umanesimo di razza contadina” e la sapienza dell’armonia dei contrari. Sono forse le pagine più poetiche del libro, quelle che più l’avvicinano al canto promesso nel titolo. E al corsivo saranno affidate poi anche le pagine più mitiche delle narrazioni di Io sono Medea.
Intanto nel Ramo terzo, la scrittura prende un’alternanza tra tondo e corsivo come in una danza tra realtà e trasfigurazione, la stessa che Anna Francesca, mitica Atalanta della corsa, ingaggia con Costantino, dove “ogni cosa è reale intorno a lei /_..._/ Ma tutto vibra e si rifrange” tra terra e acqua, in una lunga sequenza di similitudini che mettono le ali (p. 136) fino all’afflato panico: “Sono l’onda che rigurgita e turbina e scende e sale. Sono la luce tra il mio flusso e il gabbiano la barca e la stella lontana /_..._/ Il raggio che traluce nella fibra delle foglie” (p. 138).
 
 

Tra le tecniche narrative c’è quella della narrazione indiretta, in base alla quale la narrazione delle vicende che riguardano la figura protagonista viene affidata ad altro personaggio (così è Sandro che ricostruisce i vissuti di Caterina, o è Anna Francesca che rievoca le vicende drammatiche di Immacolata al capezzale di lei moribonda). C’è dunque tutto un gioco di sponda tra personaggi che conferiscono dinamicità alla narrazione. Analoga funzione dinamica assume la continua alternanza dei tempi, ora il tempo lineare degli accadimenti in ordine cronologico, ora un controtempo del flashback o analessi, della rievocazione degli avvenimenti, del tornare indietro; oppure, invertendo la direzione temporale, dell’andare avanti, con anticipazioni di prolessi o flashforward come quando Sandro si immagina già proiettato in avanti alla stazione ferroviaria successiva (pp. 69-70). Oltre la visione teatrale insita nello sguardo di Mazzilli, interessante è anche la contaminazione direi quasi filmica del romanzo, quando ad es. Sandro desidererebbe, in una sorta di regressus ad uterum, il treno risucchiato all’indietro verso “il coperchio liberty” della Stazione Centrale come non fosse mai partito (p. 69). Contaminazione resa esplicita in un altro passaggio del romanzo: “(…) il film va a ritroso, si riavvolge la pellicola, l’auto di Giacomo fa retromarcia, il cancello torna chiuso” (p. 116). Con una notevole capacità di plasmare la realtà, Mazzilli si muove tra realtà e immaginazione, tra creazione e descrizione dei luoghi.
Tra le tecniche finalizzate a elicitare l’attenzione del lettore, c’è anche quella di anticipare una citazione, posticipando il nome dell’autore, o quella di anticipare un qualche enunciato, posticipando il nome del soggetto parlante; e in generale quella di dire e non dire, di alludere a una qualche forma di mistero, per suscitare anche una vera e propria suspence (modalità narrativa che troveremo anche nel romanzo successivo).
Se veniamo allo stile, è veramente sorprendente la mescolanza di registri alti e bassi, e anche volgari (che nel romanzo successivo andranno un po' stemperandosi); qui vengono messi in scena gli aspetti più triviali, cinici, brutali, sadici dell’essere umano (che in Io sono Medea saranno affidati soprattutto al personaggio di Giasone), nello stesso tempo ci sono anche momenti poetici, di grande delicatezza (come in Io sono Medea saranno le pagine dedicate ad Absirto). Anche in questo romanzo, come poi sarà in Io sono Medea, c’è uno stile ironico, di una verità cruda e spietata. Dall’altro abbiamo anche qui una magnifica antitesi tra registro realistico e grande potenza immaginativa, c’è addirittura un brano molto bello, in cui Valeria è un po' ebbra e viene portata in auto, e lì comincia a vedere ambientazioni acquatiche, e c’è uno sfolgorio di pesci, di colori, di una scintillante pescheria (pp. 101-103) e in quell’acquario dell’immaginazione vede roteare frammenti di tutte le città europee dove ha
 vissuto.



Quanto ai personaggi, è probabile che Mazzilli affidi loro le sue varie anime, a Sandro la scrittura, a Caterina il teatro, a Valeria la vis politica femminista ecc. Un’altra caratteristica peculiare di questa narrativa è la grande capacità di tratteggiare i personaggi, dall’esprit de geometrie del commercialista Giacomo all’esuberanza erotica di Doina, sorta di Bocca di rosa arrivata a Verdargento, “bella come una bestemmia, come una madonna nuda” (p. 216). Ve li potete immaginare plasticamente questi personaggi, singoli o corali, come “le selvagge andate a vivere nell’orgia fuori dal paese” (p. 217), incarnazione delle baccanti. Comunque è l’ultima parte quella che più risente dell’immaginazione, perché da un lato affaccia sul mito, dall’altra soprattutto vira verso la favola con i suoi esseri mostruosi e i suoi improbabili cortocircuiti della realtà; questa figura di Immacolata con tre gambe non è esattamente figura realistica, soprattutto per come poi viene rappresentata nei suoi movimenti, nelle sue posture; in un certo passaggio ho visto addirittura la figura di Gregor Samsa che si agita sul dorso del carapace “con quel formicolare di troppe gambe” (p. 206). Non credo di interpretare oltre il dovuto perché nel romanzo questo riferimento viene esplicitato, in ogni caso vi ho visto una punta di assurdo kafkiano. E in effetti spesso le situazioni antropologiche che vengono rappresentate sono assurde; l’assurdo è dato dal rovesciamento dei valori, per es. quando i parenti avidi del lascito testamentario del padre vogliono dichiararlo incapace di intendere e di volere, mettendo in strada la povera Immacolata che leva “un pianto che canta e che consola anche le pietre, un canto che raccontava tutto quell’inganno” (p. 221). I parenti vogliono avere restituite da lei, la strega, le carte testamentarie mancanti. E lei non capisce e pensa che vogliano le sue carte, quelle che lei si è portata via dalla casa da cui è stata cacciata. Ma quelle sono tutte le pagine meravigliose e care della letteratura e del mito attraverso le quali quell’uomo generoso l’ha resa una persona acculturata, agli occhi dei paesani, “una signora da scimmia quadrupede che era o qualcos’altro, bestia con proboscide, o demonio con la coda” (p. 211) – certamente ben al disopra della brama di beni materiali che viceversa fanno apparire quei parenti rozzi e meschini. Ecco l’assurdo dei valori rovesciati. L’assurdo dell’ortodossia e delle sacre istituzioni – prete, sindaco, podestà – rappresentanti di valori di facciata, latitanti di fronte al sopruso. Ma infine, quella di Immacolata, sembra essere davvero “una fiaba contemporanea che rivendica il diritto a essere quel che si è, a dispetto dei padri, dei preti, dei partner fissi e occasionali, dei pregiudizi e degli oscurantismi di tutti i tempi.”