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domenica 16 ottobre 2022

L’UMANITÀ AL BIVIO
di Franco Toscani

100 secondi a mezzanotte

Le guerre nucleari, e la memoria dell'orrore”.          
 
1. Nel dibattito pubblico relativo alla guerra tra Russia e Ucraina, si torna insistentemente a parlare - spesso senza alcun pudore e vergogna - della possibilità concreta del ricorso alle armi atomiche, in particolare alle armi nucleari "tattiche". Di fatto, dati gli schieramenti in campo e la situazione oggettiva, si fa più concreta e vicina la possibilità di una terza guerra mondiale caratterizzata dall'uso massiccio delle armi atomiche; uno scenario che, sino a qualche mese fa, appariva impensabile e non veniva preso nella minima considerazione. La minaccia, va ribadito con chiarezza, viene dalla Russia di Putin (oltre che da un altro suo irresponsabile e sciagurato alleato, Kim Jong-un, presidente della Corea del Nord), ma non scorgo da nessuna parte - fatta eccezione per la voce autorevole di papa Francesco Jorge Mario Bergoglio - quello sdegno e quella sollevazione, quel senso di vergogna e di indignazione che sarebbero più che mai necessari in questi mesi drammatici al solo sentire evocare simili cose immonde. Da più parti si cerca anzi di rassicurare e di sottolineare che l'uso delle armi nucleari "tattiche" comporterebbe un potenziale distruttivo territorialmente limitato e prevederebbe un numero di vittime piuttosto contenuto. Ma decine o centinaia di migliaia di morti, qualche milione di vittime sono forse da ritenere pochi? È certo, comunque, che i livelli di devastazione e distruzione previsti anche in questi casi cosiddetti "limitati" sarebbero molto alti e dolorosi. È ancor più certo, poi, che non si può scherzare col fuoco nucleare e che nessuno può prevedere gli eventuali effetti a catena dell'uso di ordigni di morte così terribili. Dunque, il rischio di una guerra mondiale nucleare dagli effetti letali per tutti gli esseri viventi e per il pianeta intero è palese, dietro l'angolo.



2. Non entro qui nel merito delle difficili decisioni politiche o militari da prendere in una situazione tanto delicata e pericolosa. Mi limito a qualche rilievo di tipo etico e al richiamo indispensabile ad un elementare senso di salvaguardia dell'umanità. Servirebbero più che mai una sollevazione  e un moto delle coscienze e dei cuori, una ripulsa radicale, uno scatto di indignazione, un palese rigetto di quegli atteggiamenti di indifferenza, fatalismo e rassegnazione al presunto corso ineluttabile delle cose che rischiano oggi di costarci molto cari. Sappiamo che il potere può essere folle e che la storia umana pullula delle più variegate manifestazioni della follia e tracotanza del potere. Tutto ciò di certo non rassicura in una situazione in cui non ci sembra che sia particolarmente vigile la coscienza dei popoli. Pensando al futuro della specie umana e soprattutto a quello delle nuove generazioni, dei non ancora nati, dovremmo tutti almeno provare raccapriccio e vergogna per la spada di Damocle che ci pende sul capo, per la situazione assurda e tragica che stiamo vivendo.
3. Nell'inno Patmos (1800) Friedrich Hölderlin scrive fra l'altro: "Wo aber Gefahr ist, wächst/ das Rettende auch" ("Ma dove è il pericolo, cresce/ anche ciò che salva") [1]. Il grande poeta ci avverte e mette in guardia circa il pericolo e ciò che ci può salvare. Tanto più, nell'età del pericolo estremo, noi dobbiamo prestare ascolto e attenzione. Nel saggio Die Frage nach der Technik (1953) Martin Heidegger ha ripreso e commentato i versi citati di Hölderlin a proposito della "questione della tecnica", cercando di distinguere il "divelamento pro-vocante" proprio del Gestell e il "disvelamento pro-ducente", più originario, della φύσις-λήθεια, che è ποίησις ("pro-duzione", "sorgere-di per-sé"), "nel senso più alto" (im höchsten Sinne): l'esempio che fa Heidegger è quello dello schiudersi del fiore nella fioritura [2]. Riprendendo anch'egli i due celebri versi di Hölderlin, il filosofo italiano Eugenio Mazzarella sostiene che non siamo ancora "all'altezza morale" della "questione della tecnica" e scrive: "Sono versi che ci possono aiutare a capire che solo uno sguardo franco sull'abisso, può farci scampare dal caderci dentro. L'abisso è quello che abbiamo visto a Hiroshima e Nagasaki, e oggi ci si sta aprendo davanti in Ucraina. Guardiamolo in faccia (...)"[3]. Alcuni hanno interpretato i due versi di Hölderlin nel senso di una facile e ottimistica indicazione nella direzione sicura e garantita della salvezza umana. Nulla di più sbagliato. Non c'è nulla di rassicurante, di garantito e tranquillizzante in queste indicazioni; c'è invece qualcosa di prezioso, che però sta a noi cogliere e sviluppare. Tutto ciò non è affatto ovvio e scontato.


Volete questo...?

4. Dovremmo sempre tener presente quella che Primo Levi chiamò - riferendosi ad Auschwitz e alla brutale disumanizzazione dell'uomo che la caratterizzò - la "memoria dell'orrore", che non serve per restare paralizzati nell'azione dall'orrore, ma per scongiurare il peggio, per non riprodurre gli orrori del passato. Noi stiamo dimenticando o sottovalutando l'orrore nucleare di Hiroshima e Nagasaki? L'uso delle armi biologiche, chimiche e nucleari "tattiche", oltre a comportare un livello comunque altissimo di morte, inquinamento e distruzione, espone al rischio altissimo di una escalation atomica incontrollata e incontrollabile. Noi siamo venuti al mondo per ammazzarci gli uni con gli altri e per devastare il pianeta o per abitare degnamente la terra? Questo è l'aut-aut decisivo che oggi concerne l'odierna umanità planetaria.
5.Un grande filosofo italiano del XX secolo, Enzo Paci, ci aiuta a concepire una "fenomenologia del negativo" che risulta di sconcertante attualità: "L'umanità non può trovare la propria via, se séguita a credere, nel fondo, alla chiacchiera, all'inganno, al ricatto, al gioco della superpotenza e della schiavitù, alla forma estrema, ben più vasta e decisiva di quanto Hegel avesse pensato, della dialettica servo-signore. Si tratta di un realismo machiavellico portato agli estremi e di un'apocalisse concreta. Una nuova fondazione, è qualcosa di ben più profondo di un gioco di parole e di un continuo scacco e illusorio trionfo di supremazia. Nel caos esteriormente ordinato l'uomo-idiota, nel senso di Dostoevskij e del Flaubert di Sartre, ci dà il senso di una passività crudele e del trionfo di una mediocrità totale. Per questo la filosofia, in un modo nuovo, è costretta a riproporsi il tema della dialettica e il problema del senso della negatività, di una negatività che non sia superficialmente soltanto una funzione di un bene retorico. Il male nel quale l'uomo si radica suscita uno stupore incoercibile"[4]. Sono parole lucide e amare, scritte nel 1974, che colgono perfettamente ancor oggi il tragico dell'esistenza e che vanno tenute ben presenti se vogliamo aprirci non illusoriamente verso il bene, verso orizzonti inediti della civiltà planetaria.


 
 
Note
1 F. Hölderlin, Patmos, 1800, in Id., Poesie, a cura di G. Vigolo,
Mondadori, Milano 1986, pp. 216-217.
2 Cfr. M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, 1953, in Id.,
Vorträge und Aufsätze (1954, vol. VII della Gesamtausgabe),
Klett-Cotta, Stuttgart 2004, pp. 9-40; trad. it., La questione della tecnica,
in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976-1980, pp. 5-27.
3 E. Mazzarella, Il gran pericolo e ciò che salva, "Avvenire", 7 ottobre 2022
4 E. Paci, Sulla fenomenologia del negativo, 1974, in Id.,
Il senso delle parole 1963-1974, a cura di P. A. Rovatti,
Bompiani, Milano 1987, pp. 294-295
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