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martedì 29 novembre 2022

A FULVIO PAPI
di Gabriele Scaramuzza

 
Papi con Ernesto Treccani

Non ricordo quando esattamente ho conosciuto Fulvio Papi. O meglio, l’unica data certa (è Papi a ricordarlo, e la sua memoria è assolutamente inconfutabile) è il 13-14 maggio 1967, a Reggio Emilia, in occasione del Convegno di Studi Banfiani, di cui furono poi pubblicati gli Atti col titolo Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo da La Nuova Italia a Firenze nel 1969. Lì c’era sicuramente Papi, e c’ero io; ricordo soprattutto il viaggio comune di ritorno verso Milano in macchina, con sua moglie Marisa e Egle Becchi. Non risulta invece comprovata dai fatti (e dai ricordi più circostanziati di Papi) la mia ipotesi (tenace) di averlo di sfuggita incontrato prima, a Milano, negli anni attorno al 1962, in cui preparavo la tesi. Anche dopo di essa continuavo a occuparmi di Banfi, e frequentavo la casa di corso Magenta 50, dove ancora viveva la vedova Daria Banfi Malaguzzi.    
Tra i primi scritti di Papi che ho letto, e mi sono rimasti impressi, naturalmente c’è Il pensiero di Antonio Banfi, indispensabile per la mia tesi, e tuttora insostituibile per qualsiasi approccio a Banfi. Ho poi letto, ça va sans dire, gli scritti, numerosi, e comunque imprescindibili, che Papi ha dedicato al suo maestro, fino a Antonio Banfi. Dal pacifismo alla questione comunista; e ho anche tenuto conto di sue testimonianze orali, che ho raccolto in tante conversazioni telefoniche. Sono venuti poi i suoi scritti sugli allievi di Banfi - da Vita e filosofia (in cui viene il termine “La scuola di Milano”, corrente poi tra noi tutti) a Gli amati dintorni e La memoria ostinata. Ma soprattutto ho amato L’infinita speranza di un ritorno, dedicato alla poesia di Antonia Pozzi, non pochi scritti narrativi; hanno calamitato la mia attenzione gli scritti dedicati a Vittorio Sereni, e poi a tanta arte. È strano però che miei tentativi di parlare di musica con lui sono caduti nel vuoto: una volta mi ha detto che non se la sentiva di scrivere sulla musica, perché gli mancavano le specifiche competenze. Cosa su cui non mi sentivo del tutto d’accordo: temevo che la (pur invidiabile) competenza rischiasse l’affidarsi a un unico linguaggio, scartandone altri possibili e talvolta necessari.



Ho recensito taluni scritti di Papi, anche su “Odissea”, e della mia attenzione si è mostrato grato. Mi ha anzi ricambiato recensendo a sua volta i mei scritti di questi ultimi anni, con una capacità di penetrazione, una generosità, e una volontà di valorizzazione unica. Di questo gli resterò nel mio sempre grato. 
Concludo risalendo ai suoi ultimi giorni. Non era in senso proprio “malato”, viveva rinserrato in casa da anni, senza poter mai uscire, passeggiare, ritrovarsi sotto gli alberi di fronte al suo amato lago. Ma era sempre lucido, disponibile, attivo nella lettura e nella scrittura. Ha scritto fino agli ultimi attimi precedenti il tracollo; è morto scrivendo forse si può dire; un po’ come in diverso ambito Mitropoulos e Sinopoli sono morti dirigendo. Progettava una accolta di scritti sotto il titolo Il tempo e la doppia anima. Sabato 19 l’ho sentito verso sera, ed è stata l’ultima telefonata: si è parlato del tema delle “Conversazioni di Estetica” del prossimo anno alla Fondazione Corrente: L’arte e il sogno, proposto da Silvana Borutti. Ci ha aderito con entusiasmo e ha condiviso la partecipazione a esse della sua allieva Monica Luchi.
La sua vita sembrava stesse riprendendosi, con intima adesione a sé: il ravvivarsi della vita ai limiti della morte è un classico; anche se per lo più non è così. 
C’è stato in Fulvio Papi un intensificarsi di progetti, della voglia di fare, al proiettarsi verso un “più che vita” caro a Simmel e a Banfi: Che gioia si dice siano state le ultime parole di Goethe, e (per trasposizione non so quanto attendibile) di Antonio Banfi, che su Goethe ci ha lasciato uno dei suoi saggi migliori. A me è tornata in mente anche l’esclamazione Oh! Gio…ia! di Violetta prima della ricaduta finale. So che Fulvio, non verdiano ma sempre disponibile verso i gusti e le ragioni altrui, mi perdonerà questa conclusione.