A FULVIO PAPI
di
Gabriele Scaramuzza
Papi con Ernesto Treccani
Non ricordo
quando esattamente ho conosciuto Fulvio Papi. O meglio, l’unica data certa (è
Papi a ricordarlo, e la sua memoria è assolutamente inconfutabile) è il 13-14
maggio 1967, a Reggio Emilia, in occasione del Convegno di Studi
Banfiani, di cui furono poi pubblicati gli Atti col titolo Antonio
Banfi e il pensiero contemporaneo da La Nuova Italia a
Firenze nel 1969. Lì c’era sicuramente Papi, e c’ero io; ricordo soprattutto il
viaggio comune di ritorno verso Milano in macchina, con sua moglie Marisa e
Egle Becchi. Non risulta invece comprovata dai fatti (e dai ricordi più
circostanziati di Papi) la mia ipotesi (tenace) di averlo di sfuggita
incontrato prima, a Milano, negli anni attorno al 1962, in cui preparavo
la tesi. Anche dopo di essa continuavo a occuparmi di Banfi, e frequentavo la
casa di corso Magenta 50, dove ancora viveva la vedova Daria
Banfi Malaguzzi.
Tra i primi scritti di Papi che ho
letto, e mi sono rimasti impressi, naturalmente c’è Il pensiero di
Antonio Banfi, indispensabile per la mia tesi, e tuttora insostituibile per
qualsiasi approccio a Banfi. Ho poi letto, ça
va sans dire, gli scritti, numerosi, e comunque imprescindibili, che Papi
ha dedicato al suo maestro, fino a Antonio Banfi. Dal pacifismo alla
questione comunista; e ho anche tenuto conto di sue testimonianze orali,
che ho raccolto in tante conversazioni telefoniche. Sono venuti poi i suoi
scritti sugli allievi di Banfi - da Vita e filosofia (in cui
viene il termine “La scuola di Milano”, corrente poi tra noi tutti) a Gli
amati dintorni e La memoria ostinata. Ma soprattutto ho
amato L’infinita speranza di un ritorno, dedicato alla poesia di Antonia
Pozzi, non pochi scritti narrativi; hanno calamitato la mia attenzione gli
scritti dedicati a Vittorio Sereni, e poi a tanta arte. È strano però
che miei tentativi di parlare di musica con lui sono caduti nel vuoto: una
volta mi ha detto che non se la sentiva di scrivere sulla musica, perché gli
mancavano le specifiche competenze. Cosa su cui non mi sentivo del tutto
d’accordo: temevo che la (pur invidiabile) competenza rischiasse l’affidarsi a
un unico linguaggio, scartandone altri possibili e talvolta necessari.
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