Un’allieva di 57 anni fa.
Ricordo del mio Maestro. Nel
novembre 1965, tra noi studenti del secondo anno di Filosofia (otto in tutto),
si diffuse la notizia dell’arrivo di un nuovo professore di Filosofia morale.
Eravamo in uno studio al primo piano del Cortile delle magnolie, uno dei
cortili più belli del corpo centrale, rifatto nel Settecento per volere di
Maria Teresa d’Austria, dell’Università di Pavia. Ci chiedevamo come sarebbe
stato il nuovo professore (avevamo già avuto come docenti Vittorio Enzo
Alfieri, il vecchio signore con un gusto un po’ antiquato per la filologia del
testo filosofico, Remo Cantoni, l’affabulatore signorile che univa l’antropologia,
la grande letteratura e Merleau-Ponty, Carlo Tullio Altan, l’antropologo che
parlava il linguaggio di una disciplina nuova e molto coinvolgente). Ecco che
un nostro compagno ci dice, compiaciuto per la primizia: il professore è alto,
e ha begli occhi azzurri. L’attesa di uno sguardo azzurro è stato il mio primo
incontro con il mio maestro. Non so perché lo scelsi come maestro, non avendo
io allora alcuna idea o progetto per il mio futuro; so però che lo feci con
convinzione. Pensandoci in questi giorni, fra i miei ricordi è emerso un
frammento di ricordo. Lo voglio però raccontare, questo frammento irrilevante,
perché per me aveva avuto un significato. All’inizio di una lezione di
Filosofia morale, forse nel 1966 (ma sono sicura che fosse martedì, alle cinque
del pomeriggio: la memoria ha degli strani grumi di intensità), il professore
mi rivolse un saluto affettuoso, e vedendomi imbarazzata mi disse qualcosa
come: «Ma non sia così scorbutica!» Non mi sono mai sentita così informe in
vita mia, e credo di aver pensato che avrei dovuto dimostrargli qualcosa; anzi,
a dirla tutta provai un sentimento di sfida.
Il
corso era sull’analisi del linguaggio morale: un affresco dei temi su cui si
stava affermando lo stile analitico del filosofare. Un corso molto à la page,
dunque, ma che Fulvio Papi fece con il rigore e la puntigliosità che gli veniva
dall’ascendenza neokantiana. Quel corso fu come entrare nel mondo dei concetti,
e capire che il linguaggio non parla delle cose, ma della loro traduzione in un
mondo simbolico condivisibile; nello stesso tempo, però, Fulvio ci insegnava
che, se non bisogna avere una concezione realistica, cosale, dei concetti
filosofici, tuttavia la filosofia non è pura astrazione, ci insegnava che c’è
sempre un rapporto tra la pensabilità e la
realtà delle cose.
Per una intelligenza ricettiva, ma informe come la mia, era un bello shock, e
decisi di chiedergli la tesi; era una sfida a me stessa, e forse insieme una
sfida al professore che mi trovava scorbutica. In
realtà non ho mai riflettuto molto sulla faccenda del maestro, su che tipo di
maestro fosse il professor Papi. Ma molti anni dopo, in una conversazione con
Giorgio Lunghini, anche lui maestro di generazioni di economisti, rispondendo a
una sua domanda, finii per far emergere dei tratti di Fulvio come maestro:
tirai fuori alcuni aspetti di come lo ho immaginato come maestro, e che cosa ho
creduto di imparare da lui. Lunghini mi chiese allora: «È finito il tempo dei
maestri?»
E
ci mettemmo a ragionare su cosa sia un maestro, e se ce ne siano ancora in
circolazione. Io ragionavo ovviamente pensando a Fulvio, e dissi che un maestro
è qualcuno che esercita il magistero in un’alchimia di distanza e vicinanza, e
che insegna il valore del tempo nella formazione. Me ne ricordo, perché poi
scrissi anche qualche pagina sul tema. Che
il magistero avvenga nella distanza e insieme vicinanza tra maestro e allievo,
è cosa di cui ci accorgemmo subito, noi allievi di Filosofia morale nel
1965/66. Noi ragazzi sapevamo che il professore veniva da un’altra storia, che
aveva la distanza esperienziale di una vita vissuta secondo diversi registri
del sapere e del saper fare, che non sapeva solo fare delle belle lezioni, ma
aveva ricoperto ruoli rilevanti nella vita pubblica; che aveva un pensiero
politico e una preoccupazione civile. Aspetti che lo rendevano più interessante
e meno professorale. Credo che questi aspetti fossero importanti nel dettare lo
stile del suo magistero, uno stile distaccato e insieme attento. Tanto che io
mi facevo un punto d’onore a non chiedere troppo al professore: sprovveduta
com’ero, avevo però probabilmente capito la sua sapienza nel darsi e nel
sottrarsi, per costringere l’allieva che io ero all’autonomia e alla scelta di
un proprio percorso di pensiero. È del resto un fatto che Fulvio Papi ha avuto
una scuola numerosa, ma i suoi allievi non l’hanno imitato, hanno seguito ciascuno
la propria strada. E ciascuno l’ha interiorizzato a suo modo.
Il
tempo è l’altro elemento rilevante nella sua opera educativa. Nelle nostre
frequenti conversazioni, quando mi fui un po’ liberata del mio carattere timido
e scorbutico, lui ed io tornavamo spesso a ragionare sul tempo di una vita,
delle sue contingenze, delle sue tensioni simboliche e progettuali, e delle sue
cadute di persuasione. Così il maestro mi liberava dall’affanno delle accelerazioni
artificiali, delle “full immersions”, e mi incoraggiava a prendermi il tempo
della comprensione e della formazione, della Bildung intesa come progetto che
si forma nel tempo e che dà forma al tempo. Del resto, con un altro maestro,
Mario Vegetti, avevo letto nel Fedro la faccenda dei giardini di Adone,
che sprecano i semi in una fioritura velocissima, nella stagione sbagliata. Quanto
alla domanda «È finito il tempo dei maestri?», questa domanda portò Lunghini e
me a riflessioni un po’ negative, e forse un po’ banali, sull’eclisse dei
maestri. Ma una considerazione resta vera: nell’epoca dei maestri televisivi e
dei loro best-sellers, la preoccupazione dell’imitazione, del diventare come
lui, prevale sul tempo della formazione e dell’identificazione, prevale sul
tempo del diventare con lui,
approfittando della sua distanza esperienziale. Non saprei dire compiutamente
come sono cambiate le figure magistrali all’epoca della televisione e di
Internet; so però che Fulvio Papi è riuscito a restare un Maestro anche quando
cucinò un risotto parlando di filosofia con Andrea Pezzi, nella trasmissione
televisiva “Kitchen”.