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mercoledì 9 novembre 2022

FEDE NELLA DEMOCRAZIA
di Marco Vitale


Dialogo autentico raccolto da Marco Vitale tra due cari amici.
 
 
Qualche giorno fa, ho incontrato con un amico manager, un vecchio amico protagonista di grandi battaglie politiche in Italia. La conversazione è caduta inevitabilmente sull’esito elettorale e sull’evidente disaffezione dell’elettorato verso la politica. La sua tesi è che se consideriamo i non votanti e coloro che hanno espresso un voto di protesta, oltre il 70% degli aventi diritto non si sente rappresentato. Occorre ripartire da qui e rivolgersi a questi cittadini, organizzando una grande assemblea degli “esterni”, dice lui. Ma quando siamo passati ai contenuti la conversazione si è fatta più incerta. Ti ricordi, ha chiesto l’amico manager, qual è stata l’ultima legge elettorale in vigore prima della presa definitiva del potere da parte del regime fascista? La legge Acerbo, che prevedeva liste bloccate, proprio come quella con cui stiamo votando in questi anni. Io non ho paura del fascismo e sono sicuro che gli esponenti di questa destra, che non sempre riescono a fugare il dubbio di una lontana colleganza con i nostalgici di quell’epoca, una volta al vertice delle istituzioni daranno il meglio di sé stessi. Perché questa costituzione ha una straordinaria dote: nobilita i suoi attori. Ma mi meraviglio che tu e la quasi totalità dei protagonisti della politica italiana, non vediate in questa legge elettorale una delle principali fonti della disaffezione degli elettori.
Certo non la sola. Partiti padronali e liste bloccate sono due facce della stessa medaglia. A cui aggiungerei il taglio dei parlamentari. A me fa un po’ paura, non questa destra, non i presunti nostalgici del fascismo, ma che in tutti i partiti italiani una o due persone decidano gli eletti, che essendo peraltro meno è pure più facile comandare. Insomma 10, forse 20, persone in Italia decidono, con una confidenza del 90%, il nome di 600 parlamentari. Ti sembra poco questo per ripartire? Che cosa ritieni che possa pensare l’elettore a cui è stato sottratto il legittimo voto di preferenza, quando legge nel suo collegio nomi di capilista che nel suo territorio non sono mai venuti nemmeno in vacanza? Pensa che il suo voto è inutile, anzi dannoso perché legittima questo status quo. Allora riparti da questo amico mio. Ridiamo al popolo il diritto di scegliere i propri rappresentanti e rimettiamo in moto la democrazia interna ai partiti, dove dirigenti seri possano esprimere liberamente il diritto di critica senza temere rappresaglie. Questa è una battaglia che capisco, il resto lo lascio a te che di politica ne sai molto più di me, ha concluso l’amico manager.
 


Questo dialogo mi suggerisce alcune riflessioni. Le democrazie comprendono una minoranza della popolazione mondiale e sembrano in ritirata. Ma, allora, perché tanti popoli o privi di democrazia o soffocati da democrazie malate, come l’Ucraina e il Brasile, aspirano a rientrare in una vera democrazia? E perché tanti che l’hanno conquistata, come il popolo italiano con la sofferenza e la Resistenza, rischiano di buttarla via per stanchezza, demoralizzazione, nausea? Perché abbiamo troppo poca fiducia (o meglio fede) nella democrazia. Lo ha spiegato molto bene in un bel articolo sul Corriere della Sera del 7 novembre 2022 Federico Rampini. Quando Biden, per cercare di vincere le elezioni di Midterm, afferma: “Alle urne per tutti noi sarà in gioco la democrazia” dimostra ben poca fiducia nella democrazia americana. Perché se i toni drammatici di questa chiamata alle urne di Biden fossero fondati, ciò vorrebbe dire che circa il 50% del popolo americano è contro la democrazia. Ma non è vero. Proprio in occasione dell’avventuriero Trump la democrazia americana ha dimostrato di avere dei solidi anticorpi e di saper resistere e sopravvivere al Trump di turno. Lo stesso si può dire per il Brasile. Che cosa ha aiutato Lula a ridare al suo popolo una nuova speranza, nonostante la violenza, la corruzione, la capacità di mobilitazione esercitata da un quasi dittatore, massacratore dell’Amazzonia, se non la fiducia (o meglio fede) nella democrazia sua e di una parte importante del suo popolo, la parte più debole ma, per ora, ancora la più numerosa? Leggo suggerimenti da varie fonti di rimedi per “sanare” le debolezze delle democrazie. Ma il malanno vero da curare è uno solo: bisogna curare, coltivare, rafforzare la partecipazione del popolo. Quando la partecipazione funziona la democrazia sa difendersi da ogni avventuriero o demagogo con i suoi anticorpi. E se è vero che la partecipazione non si mantiene solo con il voto politico, è altresì vero che senza un voto politico realmente libero, partecipato, informato, a persone conosciute e che lo meritano, la partecipazione è destinata a diminuire, seccarsi e, alla fine, sparire, come con la legge Acerbo. Non esiste la minima speranza che le forze politiche organizzate mutino nella direzione giusta l’attuale legge elettorale. Essa non è errata. Essa è stata voluta per lo scopo per il quale è stata creata, allontanare il più possibile gli italiani (per ora il 70% degli aventi diritto) dal voto e da una autentica partecipazione democratica e sta perseguendo molto bene l’obiettivo per cui è stata concepita. Ecco perché l’unica speranza è che si crei un movimento di popolo, guidato da alcuni leader politici coraggiosi, che si proponga un unico obiettivo: proporre al Parlamento o al Paese una legge elettorale civile e convincente per tenere alta la bandiera della partecipazione. E se questo movimento sarà sorretto da una larga partecipazione di popolo il Parlamento dovrà tenerne conto.



Se c’è un esempio di democrazia scassata come quella italiana se non peggio, questo è quello degli Stati Uniti dal 1896 al 1916, l’età delle riforme: la corruzione era immensa, la politica era la via per l’arricchimento, il sistema del “caucus” (riunioni quasi private dei dirigenti di partito che decidevano i candidati alle varie cariche pubbliche) dominavano a livello statale e municipale. Da movimenti di base si mise in moto un forte movimento riformista di popolo (caratterizzato da valorosi chiamati, i ficcanaso) che presto trovò i suoi leader politici (dai giovani Theodore Roosevelt e Robert M. Follette) che lo trasformarono in programmi politici e legislativi. Come scrivono Nevins e Commager (Storia degli Stati Uniti) molte di queste riforme “si riferivano alla democratizzazione della macchina politica: iniziativa (legislativa) popolare e referendum, voto segreto, “direct primaries”, elezione diretta dei senatori, leggi contro la corruzione, disposizioni per l’autogoverno municipale, suffragio femminista”. Non posso andare oltre su questo movimento di riforme democratiche che poi toccarono l’economia, l’istruzione, le questioni sociali, la tutela dell’ambiente. Ma chi legge il capitolo XVII: “l’età delle riforme” del libro citato non può non venire colpito dalla fede nella democrazia che mostrò allora il popolo americano, ponendo così in salvo la sua libertà e la sua dignità che erano veramente in pericolo. A quell’America e non a quella di oggi dobbiamo ispirarci.