La
morte, la fanciulla e l’Orco rosso è il titolo del volume che il collettivo “Nicoletta
Bourbaki” (edizione Alegre) ha dedicato a due casi di mistificazione della
verità messi in piedi per denigrare (semplifichiamo) la Resistenza Savonese:
quello del presunto stupro e femminicidio di Giuseppina Ghersi (con aggancio
alla storia della sparizione della famiglia Biamonti) e quello della
(inventata) strage del Monte Manfrei. Fatti avvenuti, secondo i “costruttori”
della vulgata di quegli eventi nei giorni immediatamente successivi alla
Liberazione e raccontati secondo gli schemi usati da Giampaolo Pansa ne: Il
Sangue dei Vinti. In questa occasione non entreremo nel merito del testo e
non svilupperemo alcuna recensione. Un aspetto di questo lavoro svolto dal
collettivo appare quanto mai interessante ed è il caso di attirarvi un momento
d’attenzione. Gli autori, infatti, nella prima parte del loro lavoro titolata “Rovesciare
la cronaca per rovesciare la storia” utilizzanocome introduzione agli episodi savonesi centrali nel testo, la lettura
delle pagine del “Corriere della Sera” (denominazione mutata, alla Liberazione,
in Corriere d’Informazione, poi diventato testata del supplemento del
pomeriggio e in “Nuovo Corriere della Sera”) dedicate nel corso degli anni alle
vicende partigiane interessanti la magistratura ordinariaperché considerati fatti delinquenziali e non
resistenziali: “La nera tra smobilitazione di regime e contaminazione” e il “codice
della montagna, dal processo dei partigiani al processo ai partigiani”
caratterizzano i capitoli con i quali gli autori scorrono le pagine del “Corriere”
pubblicati nel corso degli anni impegnandosi in un’opera di attribuzione di
delitti ordinari assegnati al movimento partigiano (a partire dalla strage di
Oderzo all’eccidio di Schio, oppure per restare dalle nostre parti al caso
della “corriera di Cadibona” e ancora alle vicende legate alla figura di “Gemisto”
Moranino). Si tratta del filone che ancora adesso ha ispiratoil neo-presidente del Senato, Ignazio La
Russa, quando ha dichiarato di non voler celebrare il 25 aprile: è la linea
della damnatio memoriae che ha contraddistinto, per un lungo periodo,
non soltanto la destra ma anche la gran parte del moderatismo italiano nei
confronti della lotta partigiana, nel tentativo di cancellare la realtà delle
stragi nazifasciste le cui responsabilità sono rimaste per decenni rinchiuse
nell’armadio della vergogna nelle stanze del Tribunale Militare di La
Spezia.
“Moderatismo italiano” le cui principali espressioni politiche tennero
un comportamento ambiguo anche nella occasione della decisiva scelta
repubblicana. “Moderatismo italiano” che oggi fatica a riconoscere il tipo di
destra presente nell’attuale governo e fa finta di non comprendere ciò che,
qualche giorno fa, è accaduto a Predappio. Dalla rottura della “solidarietà
antifascista” venuta avanti con la scissione del PSI a Palazzo Barberini e la
pressoché conseguente esclusione di comunisti e socialisti dal governo De
Gasperi (maggio 1947), l’ingresso in parlamento del MSI, l’utilizzo di quel
partito da parte della DC per ardite operazioni di sbarramento verso la
sinistra (governo Zoli, governo Tambroni, elezione di Leone alla presidenza
della Repubblica, reclutamento di fascisti o neo-fascisti per i depistaggi del
SIM a partire dalla strage di Piazza Fontana, referendum sul divorzio), la
litania della “Resistenza Rossa” ha raggiunto i nostri giorni.
L’attacco
violento portato avanti per anni contro la Resistenza, negando ad essa anche la
paternità di una Costituzione più volte attaccata, ne ha provocato un’attribuzione
di “parte” che, a un certo punto, è risultata appannaggio inevitabile per chi
intendeva mantenere la “verità della memoria” contro ogni uso politico della
storia. La “Resistenza Rossa” negli anni ’50-’60-’70 ha impedito la
cancellazione “tout court” della Resistenza intesa come punto di saldatura
della coesione nazionale (compresa lamancata riflessione sulla brusca uscita di scena sul piano istituzionale
del modello CLN e sull’esperienza dei consigli di gestione nel campo
economico). Questo
libro dei “Bourbaki” richiama oggettivamente il fenomeno della distorsione e
dell’allontanamento dalla memoria della Resistenza avvenuta nella fase centrale
del ’900. La situazione si è poi modificata almeno a partire dall’elezione di
Pertini alla Presidenza della Repubblica (avvenuta nella fase più drammatica
della vicenda repubblicana) e dalla pubblicazione del fondamentale saggio di
Claudio Pavone sulla “moralità della Resistenza”.
In
quella fase furono così aperti varchi (anche dai vertici delle istituzioni, se
ci riferiamo ad esempio al discorso di Luciano Violante sui “ragazzi di Salò”)
in un mediocre tentativo di pacificazione poi arrivato fino al punto in cui,
degradato pericolosamente il sistema politico italiano, sono mutati elementi
fondamentali dell’immaginario collettivo e siamo arrivati al Berlusconi che
celebra il 25 aprile con il fazzoletto tricolore al collo. Si sono sì
verificate giuste riscoperte di (malamente) definite “altre Resistenze” (a
partire dagli IMI e al ruolo dei reparti militari aggregatisi agli alleati) ma
si sono allentati progressivamente i segni dell’attenzione sulla verità storica
(l’avvento dei neo-fascisti al governo nel 1994 fu seguito da una forte
reazione con la manifestazione del 25 aprile a Milano ma progressivamente la
tensione si è pericolosamente allentata). Il metodo di riferimento alla cronaca
del tempo usato in questa occasione dal collettivo “Bourbaki” partendo dalla
lettura delle pagine del Corriere della Sera ha contribuito a ristabilire
margini di chiarezza e di invito a una necessaria presa di coscienza collettiva
(come è stato del resto con lavori meritori di Davide Conti, di Mimmo
Franzinelli e di altri intellettuali). Senza nasconderci la complessità del
periodo storico dobbiamo allora opporci all’oblio della “Resistenza Rossa”. Oblio
della “Resistenza Rossa” che aveva, inoltre, relegato come semplice forma di
dissenso quella parte di partigianeria che pensava al dopoguerra come una fase
di profondo rivolgimento sociale e rimase delusa nelle sue aspettative,
trovando poi un con i ragazzi delle “magliette a strisce” protagonisti dei
fatti del luglio ’60 (ultimi fuochi della Resistenza o primi vagiti del ’68?).
È
stato proprio il richiamo di quella “Resistenza Rossa” che ha consentito, negli
anni cupi del centrismo e della repressione operaia, la conservazione della
memoria dei fatti che tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile del 1945 non
portarono soltanto alla Liberazione, ma anche alla centralità sociale della
classe operaia e all’affermazione dell’identità nazionale consentendo all’Italia,
pur sempre considerata nel novero delle nazioni perdenti, di sedere ancora nei
consessi internazionali senza essere “spartita” tra eserciti occupanti come
capitò alla Germania e all’Austria. Quest’ultimo fatto storico è stato molto
sottovalutato dalla storiografia corrente così come il valore avuto dagli
scioperi proposti dal PCI e portati avanti dal CLNAI nelle grandi fabbriche del
Nord fin dal novembre 1943 e che raggiunsero il loro culmine nella settimana
tra il 1° e il 7 marzo 1944, in conclusione dei quali migliaia di operai furono
avviati ai campi di sterminio. Un momento drammatico che rappresentò il vero
punto di riferimento della crescita della Resistenza come fenomeno di massa, in
quell’ottica di completamento del “Risorgimento” di cui aveva scritto Antonio
Gramsci dal profondo del carcere in cui era stato rinchiuso nel vano tentativo
di spegnerne la forza intellettuale, risultata invece decisiva per costruire l’Italia
democratica.