Una relazione per
un’accademia. Sono passati molti anni,
non ricordo quanti, da quando ho letto per la prima volta Una relazione per
un’accademia. Ma la mia attenzione si è concentrata su questo racconto nei
miei anni veronesi, i primi anni Settanta. Grazie anche ai dialoghi con Paolo
Gambazzi, che a Pierino il Rosso (così traduceva RotPeter, Pietro il Rosso)
ha dedicato il capitolo “Kafka. La scimmia e la normalità di sinistra” (datato
1975) del suo Pro Marx e pro nobis (raccolta di scritti di quegli anni,
Edizioni Re Nudo, Milano 1978, pp. 16-31). È anche da tener presente che il
racconto è stato scritto nel ’17, durante la prima guerra mondiale, e poco
prima che (tra agosto e settembre) si rivelasse e fosse diagnosticata la
malattia mortale di K, da lui ambiguamente vissuta anche come una forma di
liberazione: dal matrimonio, simbolo di inserimento nel mondo “perbene”. Una liberazione
pagata a caro prezzo in ogni caso, alla fine con la morte. Naturalmente la mia prima lettura si
inseriva in un clima molto diverso da quello attuale, ma non proprio totalmente
diverso. Il compito che Pietro il Rosso si propone riesce a metà, un po’ come
le aspirazioni degli anni Sessanta e Settanta. La liberazione in essi
perseguita (sacrosanta, per molti aspetti ha lasciato traccia di sé) è
sopravvissuta incerta, è avvenuta per pochi, o è avvenuta distorta e ha
generato equivoci. Ci fu chi semplicemente non era in grado di, o non poteva,
permettersele, quelle liberazioni. Certo “perbenismo” da cui ci si voleva
liberare era oppressione ma anche necessità di vita, per taluni che vivevano al
di sotto di quella soglia. RotPeter denuncia entrambe le cose, alla perfezione.
Una liberazione da certe gabbie non è stata libertà per lui, né per gli altri tutti.
Leonardo Caffo ha giustamente rivendicato l’attualità di questo racconto;
attualità che peraltro la sua stessa riedizione testimonia. Rotpeter denuncia una situazione senza
sbocco: cerca una via d’uscita, non una piena liberazione; “No, non volevo
libertà. Solo una via d’uscita”. Sa gli equivoci della libertà: “con la libertà
tra gli uomini ci si inganna fin troppo spesso”. La libertà del mondo animale
cessa per lui allorché lo catturano, si trova in gabbia, pensa alle possibilità
di liberarsene, ma le scarta tutte come improponibili; anche tornare indietro è
impossibile, il foro che dà sul passato è troppo stretto. Escogita infine una via d’uscita nell’imitazione
degli uomini che lo circondano; in altri termini in una forma di assimilazione:
Max Brod definisce il nostro racconto “la satira più geniale sull’assimilazione
ebraica” (citato in Franz Kafka Cinque storie di animali, a cura di
Camilla Miglio, introduzione di Irene Kajon, Donzelli, Roma 2000, p. 114).
L’assimilazione è liberazione e insieme perdita di sé. Non mancano effetti
ironici e comici (Renato Barilli, Comicità di Kafka, Bompiani, Milano
1982), che servono a smontare la sospetta serietà, e la sostanza degli intenti
del protagonista.
Gli uomini lo incoraggiano, fanno salti di
gioia ogni qualvolta Rotpeter conquista qualche grado di “umanità”. Il suo
primo approccio all’umano, già nella nave, è ai livelli più bassi e volgari del
vivere comune: sputi, acquavite, fumo, volgarità. Qualcosa richiama i consigli
del padre nella Lettera al padre perché Franz diventi “uomo”; nel senso
di Maschio per obbligo di Carla Ravaioli. Pietro il Rosso osserva tutto, agisce con
“calma interiore”. Tratti “umani” non mancano anche nelle scimmie. Alla fine l’assimilazione
gli riesce, nei modi in cui gli è possibile. Ma non scavalca la soglia tra
scimmia e uomo, non può decidere a favore di nessuna delle due alternative;
anche perché alternativa non c’è, ma solo un intersecarsi ineliminabile di
nature. La natura scimmiesca non sarà mai del tutto repressa; un ritorno del rimosso
è sempre in agguato. Il passaggio all’ “umano” più alto è
contrassegnato dalla stretta di mano, dalla parola franca; la conclusione è la
relazione all’Accademia: è accolto ai massimi vertici istituzionali della
cultura umana. Ma anche lì qualcosa legato alle sue origini animali traspare;
come nell’uomo non poco sopravvive della natura animale. Rotpeter si ritrova ingabbiato di nuovo in
un “sistema” pervasivo che non ammette scappatoie - che per lui si configura
come assunzione nel mondo del varietà, del circo, in certo modo anche della famiglia
tenuta in ombra; scartata ovviamente da subito la va del giardino zoologico: “è
solo una nuova gabbia, se finisci lì sei perduto”. L’iter di civilizzazione, l’acculturazione,
in cui è coinvolto, il passaggio a uno stadio “superiore” di vita dello spirito
direbbe Hegel, non è acquisizione di una maggiore libertà, ma ulteriore
prigionia; non è privo di un proprio, pesante, prezzo. Rotpeter non persegue
come alta finalità nobilitante il farsi uomo, lo sente estraneo a sé: “non mi
attirava imitare gli esseri umani: imitavo perché cercavo una via d’uscita”.
Era una via obbligata, imposta dalla forza delle cose, la sua. Rotpeter denuncia che l’esito cui approda è
frutto di una violenta oppressione, ma anche di un’inderogabile necessità di
vita: l’unica via d’uscita nelle condizioni in cui si è venuto a trovare. “Non
avevo via d’uscita, ma dovevo procurarmela, perché senza non potevo vivere”. Soprattutto
è in discussione che davvero l’esser uomo sia un vertice supremo, un indiscutibile
valore: “non mi lamento, e nemmeno sono soddisfatto”. In discussione è l’intero
processo di civilizzazione, il “progresso” dell’umanità come tale.
Micaela Latini individua benissimo il ruolo
centrale che in Kafka riveste il motivo della soglia. Soglia tra animale e
umano, natura e cultura, segregazione e libertà… Cui aggiungerei la soglia tra
memoria e oblio, ben presente a Latini. Il mondo di Kafka è dominato (e qui ricorro
a Benjamin) da una forma di oblio che non è tuttavia cancellazione totale,
annientamento del passato, ma sua stentata sopravvivenza: nella modalità della
deformazione. Rotpeter si allontana sempre più delle proprie origini, quel che
gli resta è deformato già dall’uso della lingua degli uomini che ha dovuto
imparare: “sono costretto a basarmi su quanto hanno raccontato altri”.
“Naturalmente oggi posso tratteggiare solo con parole umane ciò che allora
sentii nei mei panni di scimmia, e di conseguenza lo distorco”; senza contare
le deformazioni che sopravvivono nel corpo (ferite, comportamenti sgraziati,
modi di fare poco “civili”…). La sua vita è informe e inquietante: da uomo-non-uomo,
non più scimmia non ancora uomo. La sua storia è irricostruibile, cioè obliata;
“la tempesta che mi soffiava alle spalle dal passato” si è ridotta a
“spiffero”, il ritorno alle origini è impedito da un “foro” troppo stretto per
poterci passare. Eppure è un foro attraverso cui pur qualcosa filtra. Segni del
passato/obliato permangono.
Kafka e Max Brod
Mi ha rallegrato, il finale (mediato da un
brano di Elias Canetti)dell’Introduzione di Micaela Latini. “Non dimenticare
il meglio!” è quanto ci raccomanda Walter Benjamin, e l’esortazione, aggiunge,
proviene “da una quantità infinita di antichi racconti, senza tuttavia che
appaia mai in alcuno di essi”; e conclude: “la dimenticanza riguarda sempre il
meglio, poiché riguarda la possibilità della salvezza.” L’animalità dimenticata
contiene anche germi di redenzione. Le parole conclusive di M. Latini aprono un
discorso decisivo: cosa significa tornar a Kafka oggi, che senso conserva per
noi. Come mai la scelta proprio di questo racconto nel 2022? A mio avviso il
messaggio che Kafka ci lascia è che è importante ricordare, non dimenticare quello
da cui si pensa di essersi emancipati (dal proprio passato, dalla propria dimensione
animale), e non dimenticare di aver dimenticato; perché in un oblio che sa
riconoscersi e denunciarsi è presente un’apertura messianica, una possibile
speranza (che è forse anche ipotesi di un senso diverso dello stesso oblio). Si
tratta di non dimenticarsi delle tempeste del passato, del peggio che è
successo, certo. Ma l’oblio non è solo oblio del peggio, ma anche "del
meglio" – ed è questo che rende possibile il riconoscimento dell’orrore
come tale. Nela dimensione animale obliata, rimossa,
che pure sopravvive come deformazione, non c’è solo li peggio della bestialità
da cui ci siamo affrancati, ma anche il meglio di una possibilità di redenzione,
in una credibile libertà.
Ma qui vorrei aggiungere quanto Jorge Luis
Borges sostiene nella sua Introduzione a una delle non molte raccolte di
racconti di animali in Kafka: Kafka. L’avvoltoio (Mondadori, Milano
1989; la traduzione dallo spagnolo è di Gianni Guadalupi; mentre le traduzioni
dei racconti di Kafka sono di Ervino Pocar): “Si potrebbe definire l’opera di
Kafka come una parabola o una serie di parabole, il cui tema è la relazione morale
dell’individuo con a divinità e col suo incomprensibile universo. […]
Presuppone una coscienza religiosa, e anzitutto giudaica […]. Kafka vedeva la
propria opera come un atto di fede”. Ma allora dovrei riprendere una infinita
sequela di letture kafkiane. Non c’è tempo.
Franz Kafka Una relazione per
un’Accademia a cura di Micaela Latini e Ginevra Quadrio
Curzio La Vita Felice, Milano 2022, pp. 78, € 8