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domenica 18 dicembre 2022

OLTRE I MURI DEL PATRIARCATO
di Claudia Mazzilli
 
Gloria Anzaldua
 
La poesia mestiza di Gloria Anzaldúa.
 
Dalla lettura di G. Anzaldúa, Terre di confine. La frontera. La nuova mestiza, nella nuova traduzione di Paola Zaccaria, appassionata studiosa della poeta chicana.
 
Borderlands / La frontera. The new mestiza (un testo che scavalca le definizioni di genere perché ha sia capitoli in prosa sia parti in poesia) è ora disponibile al pubblico italiano nella nuova traduzione di Paola Zaccaria, che già curò la prima traduzione pubblicata nel 2000 per l’editore Palomar. In questa edizione le parti in inglese sono tradotte in italiano mentre le parti in spagnolo non sono tradotte, per esporre chi legge all’esperienza faticosa del passaggio transfrontaliero da una lingua all’altra, al rischio di non capire e di non essere capiti, alla collisione tra culture non assimilabili dall’atto della ricodificazione linguistica.
E infatti nella postfazione la traduttrice e studiosa Paola Zaccaria, conscia che tradurre è un po’ migrare, tradurre è come bruciare le frontiere (p. 285), rivendica anche per la traduzione lo stesso orizzonte critico smurante, de-nazionalizzante e de-coloniale.

Sul confine in Messico
severi profili di case sventrate dalle onde,
scogli che si sbriciolano in mare,
onde d’argento marmorizzate di spuma
scavano un buco sotto la recinzione del confine.
Sotto il cielo di ferro
bambini messicani tirano il pallone oltre la recinzione,
lo rincorrono, entrano negli US.
/.../
Ma la pelle della terra non ha cuciture.
Il mare non può essere recintato,
el mar non si ferma ai confini.
Per mostrare all’uomo bianco cosa pensava della sua
arroganza
Yemayá ha buttato giù la rete metallica.
/.../
Yo soy un puente tendido
del mundo gabacho al del mojado,
lo pasado me estira pa’ ’trás
y lo presente pa’ ’delante.
/.../
(da La patria, Aztlán, pp. 20-21)
 
Gli Aztecas del norte, il gruppo etnico più numeroso tra gli indios che abitano in territorio statunitense, si considerano originari di Aztlán, il Sudovest degli Stati Uniti, e si definiscono Chicanos. L’archeologia conferma che tali insediamenti risalivano almeno a 20.000 anni fa: la più antica testimonianza di presenza umana (da riferire agli antenati indiani dei Chicanos), ritrovata in Texas, risale al 35.000 a.C.
Gli Aztechi (o Nahuatl, il popolo di Aztlán) lasciarono il Sudovest degli Stati Uniti solo nel 1168 d.C., guidati dal Dio della Guerra verso un luogo dove un’aquila (=il padre celeste) appollaiata su un cactus teneva nel becco un serpente (=la madre, il principio ctonio): qui sorgerà Città del Messico. Ma questo mito di fondazione fa già comprendere che nell’America precolombiana il serpente, l’ordine matriarcale, si era già sottomesso e sacrificato all’aquila, l’ordine patriarcale.
Prima che gli Aztechi diventassero una nazione patriarcalizzata e centralizzata, divisa in classi e amministrata da militari e burocrati che esigevano tributi e prigionieri dai popoli limitrofi (un processo culminato tra il 1429 e il 1440), Coatlicue, Signora dalla Gonna di Serpenti, garantiva l’equilibrio tra i sessi, tra i principi di luce e tenebra, vita e morte: la società era egualitaria e la discendenza era matrilineare, le donne possedevano la terra ed erano sacerdotesse. I lamenti rituali della Llorona (Figlia della Notte), in cui le donne piangono mariti, figli e fratelli che partono per le “guerre fiorite”, serbano traccia del canto di resistenza della donna india, messicana e chicana, in una società che ormai glorifica il guerriero e la guerra; inoltre il culto delle divinità femminili sopravvisse negli strati più bassi della popolazione: in particolare erano adorate la dea dell’acqua dolce (Chalchiuhtlicue), la dea del cibo (Chicomecoatl) e la dea del sale (Huixtocihuatl).
Negare l’angla che è in te / è tanto grave quanto negare l’india e la nera” (p. 265), confessa Gloria Anzaldúa, che non rifiuta di usare simboli e culti tra l’isiaco e il dionisiaco, che non sono meso-americani:

Sono una vite rampicante
che striscia giù dalla luna
non ho guardiani.
Per scacciare la bestia
scuoto terra, aria, fuoco, acqua
 nel sistro lunare.
 divoro le rose di Iside.
Ammantata in pelle di pantera,
suono gli assordanti cimbali.
Adesso, percuoto come fosse tamburo la carcassa del mondo
creo crisi per ricordare il mio nome.
 
(da: Canción de la diosa de la noche, pp. 267-271)

 

Con la conquista spagnola, i venticinque milioni di nativi furono decimati dalle malattie del Vecchio Mondo: vaiolo, morbillo e tifo.
I mestizos o Chicanos, i messicani-americani (di sangue misto indiano e spagnolo) ereditarono l’America centrale e meridionale, ritornando nel territorio d’origine, Aztlán. Contraendo matrimoni misti con gli indiani del Nord America crearono un meticciato ancora più composito nei suoi multiformi incroci. Ma nell’Ottocento il Texas, allora parte del Messico, subì invasioni sempre più aggressive di angli, che sottrassero terre e commisero atrocità di ogni tipo ai danni dei tejanos (nativi texani di ascendenza messicana).
Con la guerra scoppiata nel 1846 tra Messico e Stati Uniti, il Messico perse i territori che oggi costituiscono il Texas, il New Mexico, l’Arizona, il Colorado e la California, prolungando al presente una storia di rapina, violenza, odio razziale, fino alla dipendenza completa del Messico dal mercato statunitense: su ottanta milioni di messicani metà sono disoccupati. Non c’è scelta: morire di fame o emigrare al nord. En cada Chicano y mexicano vive el mito del tesoro territorial perdido: l’odissea del ritorno alla mitica Aztlán, una patria che non li vuole, che li rispedisce al di là del Rio Grande. I messicani lo attraversano anche tre volte al giorno su zattere gonfiabili o a nuoto, tenendo gli abiti in alto sulla testa.
Alla fatica usurante del lavoro della terra, alle sante e alle antenate (che come lucertole e serpi faranno cadere con la vecchia pelle la rassegnazione, l’obbedienza e il silenzio...), a figure ibride e mitologiche, ma soprattutto a questi attraversamenti e respingimenti tra Borderlands, terre di confine appunto, Gloria dedica testi poetici che hanno il respiro epico delle diaspore e degli esodi: migrazioni che sono collettive anche quando hanno come protagonista una sola fra le tante “schiene bagnate” (Sus plumas el viento, pp. 150-54; Culture, pp. 155-56; Sobre piedras con lagartijos, pp.157-161; El sonavabitche, pp. 162-168: cioè son of a bitch, figlio di puttana).
Questa è la preistoria e poi la storia che Gloria Anzaldúa ci racconta a premessa della sua vicenda familiare e personale: il padre mezzadro, che restituisce alla Rio Farms Incorporated più di quanto guadagni. Le donne di famiglia sottomesse agli uomini. I tentativi dei familiari di passare il confine.
Per Gloria, invece, la prima forma di sconfinamento sarà la cultura. Lei stessa fino alle scuole superiori e all’università non si era mai avvicinata ai bianchi di un palmo, confessa. Alla Pan American University gli studenti chicani dovevano frequentare due corsi di lingua: per imparare un inglese senza accento messicano e per correggere lo spagnolo dalle non poche varianti regionali dello spagnolo chicano e dalle contaminazioni di altre lingue di frontiera (spagnolo messicano, Tex-Mex o spanglese, pachuco o calò). Ma, osserva Gloria, avvezza a parlare tutte queste lingue a seconda degli interlocutori, abituata addirittura a passare da una lingua all’altra nel corso della stessa frase o della stessa parola, non si possono addomesticare le lingue selvatiche, si può solo tagliarle” (p. 76). La sua è una lingua biforcuta, come quella dell’antica dea in forma di serpente ctonio.
Lei e i suoi si definiscono spagnoli quando vogliono identificarsi come gruppo linguistico, pur essendo “indios per il 70-80 per cento(p. 89).
Si definiscono ispanici o latino-americani quando vogliono riferirsi al legame culturale con altre popolazioni di lingua spagnola.
Si definiscono messicano-americani quando non si sentono né una cosa né l’altra.
Si definiscono mestizos quando affermano sia l’ascendenza spagnola sia quella india.
Chicanos quando rivendicano l’identità politica di un popolo consapevole, nato e/o cresciuto negli Stati Uniti.
Tejanos se si tratta di chicani del Texas... e così via...



Lei e i suoi, quando sono tra i gringo, soffrono il complesso dell’inferiorità. Tra i latinos soffrono il complesso dell’inadeguatezza linguistica. Tra gli indios soffrono il senso di colpa dell’amnesia, della perdita dell’ascendenza indigena, essendo diventata prevalente l’ascendenza spagnola.

Parlo più lingue di loro,
sono consapevole di tutte le radici del mio pueblo;
loro, la mia gente, non lo sono.
Sono le radici viventi, addormentate.
(da: Nopalitos, pp. 146-48)

Gloria difende dall’arroganza dei gringo la sua raza mestiza, destinata a ulteriori ramificazioni e a nuovi nopalitos (le foglie tenere della pianta del fico d’India), ma non la idealizza. Ecco un’altra devianza, un altro sconfinamento: il suo essere queer in una cultura omofoba e machista, in cui i maschi creano le regole, le donne le trasmettono di madre in figlio/a, e di nuovo gli uomini le ribadiscono con la violenza dei pugni o la rabbia autodistruttiva della bottiglia, della sniffata, della siringa, in cui annega il senso dell’inferiorità razziale. Così, ad esempio, Gloria ci parla di sua nonna:

Una volta la guardai negli occhi azzurri,
le chiesi: hai mai avuto un orgasmo?
Rimase a lungo in silenzio.
Infine mi guardò negli occhi scuri,
mi raccontò di come Papagrande le rovesciava la gonna
della camicia da notte sulla testa
e nel buio tirava fuori il suo palo, il suo bastone,
e faceva lo que hacen todos los hombres
mentre lei rimaneva stesa a pregare
che finisse presto.
 
Non le piaceva parlare di quelle cose.
Mujeres no hablan de cosas cochinas.
Neanche alle sue figlie, le mie tías, piaceva mai parlarne –
delle altre donne del padre, dei loro fratellastri.
(da: Immacolata, inviolata: como ella, pp. 143-45)



La sua famiglia, come la maggior parte dei Chicanos, praticava un cattolicesimo meticcio. La Vergine di Guadalupe ha un nome indio più antico, Coatlalopeuh, la quale a sua volta discende dalla più antica e su menzionata divinità creatrice, Coatlicue o “Gonna di Serpente”, madre delle divinità celesti: testa di teschio umano (o di serpente); collana di cuori umani, gonna di serpenti e piedi con artigli. Le divinità femminili furono relegate sottoterra già dagli Aztechi, come in molte altre culture patriarcalizzate. “Colei che un tempo era completa in sé, che possedeva sia aspetti superiori (luce) sia sotterranei (oscurità), venne scissa /_..._/ più o meno come è avvenuto per la dea indiana Kali” (p. 48). I coloni spagnoli completarono l’opera: trasformarono la dea nella casta vergine Maria a partire dall’apparizione del 9 dicembre 1531 a un povero indio, Juan Diego, e “si spinsero anche oltre; fecero di tutte le divinità e di tutte le pratiche religiose indigene l’opera del demonio” (p. 48). Se per alcuni in lingua nahua Coatl significa “serpente” e lopeuh “colei che ha il dominio sui serpenti”, per altri l’etimologia risale a xopeuh (“schiacciato con disprezzo”), quindi “colei che schiacciò il serpente”, dove il serpente è simbolo della religione precolombiana, da reprimere. “Poiché Coatlalopeuh era omofono allo spagnolo Guadalupe, gli spagnoli la identificarono con la vergine nera, Guadalupe, patrona della Spagna centro-occidentale” (p. 50), con un’assimilazione definitiva tra la dea india e la vergine Maria sancita dalla Chiesa Cattolica Romana nel 1660: si consolida così l’icona più identificativa del mondo chicano-mexicano a livello culturale, religioso e politico (la vergine di Guadalupe diventerà il simbolo dei contadini in sciopero; Emilio Zapata e Miguel Hidalgo portarono la sua immagine come vessillo di libertà del pueblo mexicano).
 
La religione cattolica, come altre religioni istituzionalizzate, impoverisce la vita, la bellezza, il piacere. Le religioni cattolica e protestante incoraggiano la scissione tra il corpo e lo spirito e ignorano del tutto l’anima; ci incoraggiano a uccidere parti di noi stessi. Ci viene insegnato che il corpo è un animale ignorante; l’intelligenza risiede solo nella testa. Ma il corpo è intelligente. Non distingue tra stimoli esterni e stimoli provenienti dall’immaginazione. Reagisce in maniera ugualmente viscerale agli eventi immaginari e a quelli «reali». Così sono cresciuta nell’interfaccia tra questi due mondi /_..._/. La faculdad è la capacità di vedere nei fenomeni superficiali il senso di realtà più profonde /_..._/. Coloro che sono allontanati dalla tribù in quanto diversi è probabile che diventino più sensitivi /_..._/. Coloro che più subiscono attacchi la possiedono in forma più acuta – le donne, gli omosessuali di tutte le razze, le persone dalla pelle scura, i rinnegati, i perseguitati, gli emarginati, gli stranieri(pp. 60-61).



Ecco, allora, lo sconfinamento nell’immaginazione, la capacità di visione, come quella dei Nahua attraverso i loro specchi di ossidiana (quello che Gloria chiama lo stato Coatlicue), il recupero dell’unità perduta oltre le logiche binarie e i dualismi in conflitto. Quella di Gloria Anzaldúa è una poesia della liminalità, in un crogiuolo di suggestioni in cui convivono più generi sessuali (maschile, femminile, queer), più generi letterari (prosa e verso, poesia epica e lirica, saggio, memoire, biografia), più lingue, più culture, nelle variegate e multiple simbologie della new mestiza (nuova meticcia) o nepantlera (nepantla è una parola nahuatl che significa in mezzo) e della lesbica (o patlache, nell’antica lingua dei Nahua), sorella e amante di ogni donna di qualsiasi razza, incarnazione perfetta dello hieros gamos, due in un corpo solo.

E qualcuno dentro di me prende la situazione nelle nostre mani /_..._/. Mie. Nostre. Non dell’uomo bianco eterosessuale o dell’uomo di colore o dello Stato o della cultura o della religione o dei genitori – solo nostro, mio. E improvvisamente sento che tutto corre verso un centro, un nucleo. Tutti i pezzi perduti di me arrivano volando dai deserti e dalle montagne e dalle valli, magnetizzati verso questo centro. Completa. Qualcosa pulsa nel mio corpo, una cosa sottile e luminosa che cresce ogni giorno. La sua presenza non mi lascia mai. Non sono mai sola. Quel che resta: la mia vigilanza, i miei mille occhi di serpe che non si addormentano mai, lampeggiano nella notte, per sempre aperti. E non ho paura” (p. 75).

Essere mestiza significa non solo essere una miscela di popoli, un mix di cromosomi e culture in continua interpolazione, capace di scardinare porte e abbattere muri, ma significa anche e soprattutto essere mezza e mezza, né putavirgen, una creatura che non è né aquila né serpente e nel contempo attinge sia al maschile sia al femminile, recuperando un’unità originaria proprio nel suo essere queer.
Questo non è più il tempo di odiare la cultura suprematista bianca. Se queste genti sono ormai sopravvissute a faide anglo-messicane, linciaggi, incendi e stupri, le parti bianche, le parti nere, le parti indie, le parti sane e quelle patologiche, le parti queer e quelle omofobe sono ormai troppo intrecciate e incrociate e invitano a nuove resistenze de-coloniali e ad alleanze ancora tutte da sperimentare.
 
 
Note
Gloria Anzaldúa, Terre di confine. La frontera, a cura di Paola Zaccaria, Palomar 2000.
https://www.edizioniblackcoffee.it/libri/terre-di-confine-la-frontera/
Diversi saggi di Paola Zaccaria sono consultabili all’indirizzo:
https://uniba-it.academia.edu/PaolaZaccaria