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martedì 3 gennaio 2023

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


 
I vizi


I greci diedero alla parola vizio una connotazione morale, definendolo (kakìa) κακία κακίας: infamia, disonore, bassezza, vizio e μάρτημα: errore, trasgressione, peccato. Lo definirono anche: cattiva abitudine: η κακή συνηθεία e τς φύσεως λάττωσις: difetto di natura. I latini definirono vitium: difetto, guasto, malattia, male, colpa, errore (anche morale), attentato come oltraggio al pudore e diedero a vitiare i seguenti significati: corrompere (si ricordi: aria viziata), alterare, falsare, disonorare, deflorare, che nulla hanno in comune con, ad esempio, bambino viziato. Si tratta di una parola, dai tanti significati, sicuramente non sinonimici, che, presumibilmente, fu formata dalla radice ηθ di θος (abitudine, indole, inclinazione), che potrebbe essere stata così elaborata b-ηθ-ium, determinando una perifrasi di questo tipo: è ciò che va a generare il rimanere la (cattiva) abitudine/inclinazione. Inoltre, si sovrappose un’interpretazione letterale della perifrasi, per cui ηθ fu letta: dal generare il crescere, pertanto, da ciò che genera il crescere, nasce il mancare, che può spiegare: oltraggio, male, colpa, errore. Sicuramente, il significato è divenuto attraverso l’uso, anche per l’incidenza morale del Cristianesimo, che lo contrappose, così come avevano fatto i latini, alla virtù. Nella cultura popolare, è assimilabile a difett0/inclinazione, spesso di natura, che è indicato dal detto del mio luogo: “Vizio di natura fino alla sepoltura”. Il significato odierno più ricorrente è: cattiva abitudine, ricollegabile solo a difetto, che, di per sé, rimanda ad imperfezione nel nato/costruito, per cui l’espressione dialettale: ha il vizio di (ìè du vizi’): andare a donne, rubare, essere collerico ecc. rimanderebbe alla malattia dei latini.
I greci, per indicare virtù, coniarono (areté) ρετή: abilità, eccellenza, prodigio, per poi diventare: nobile azione, atto di valore. In greco è sicuramente la capacità, dal poco, con l’inventiva, di realizzare la creatura. L’essere che possiede questa virtù è ράχνη: ragno, che è da collegare a ραρισκω (la cui radice è αρ): connetto, fabbrico. Molto probabilmente da questo verbo (meglio: da questa radice), i latini mutuarono ars artis, che è la qualità somma, la capacità di realizzare la creatura che nasce: durante l’incubazione, legando/formando, si porta a termine l’essere che nasce.



La virtus dei latini traduce, inizialmente: dote, buona qualità, eccellenza, valore (prima nel senso di ciò che vale, poi nel senso di atto eroico), coraggio, ardimento, fermezza e anche: perfezione morale, concetto fatto proprio dalla cultura cristiana. L’espressione mani virtuose è ben diversa dalle virtù morali che connotano una persona, che ha disposizione d’animo volta al bene e che vuole predisporsi a crescere nella perfezione umana. La perifrasi di virtus virtutis dovrebbe essere: dall’ho l’andare a scorrere il tendere a causa del crescere, cui consegue il legare. Le buone qualità manipolative e il concetto di perfezione si evincono dalla realizzazione della creatura, mentre il coraggio si deduce durante il travaglio, quando la creatura, cresciuta, è attanagliata.
Ho fatto questa premessa perché voglio soffermarmi sui vizi capitali, spesso, contrapposti alle virtù, che sono il frutto di cultura e, quindi, di un ideale di vita. L’intento è cercare di cogliere il processo di formazione dei sette lemmi e, dove è possibile, il divenire con l’uso.
Ci sono dei vizi riconducibili all’istintività e, quindi, alla natura animalesca dell’uomo: l’ira, la superbia, la lussuria e, forse, l’invidia; l’avarizia, la gola e l’accidia sono il cattivo frutto dell’incivilimento umano.
La parola che indica rabbia animalesca, istinto belluino, che porta allo scontro fisico è (lyssa/lytta) λύσσα/λύττα: furore, frenesia, follia, rabbia (dei cani). Nel dialetto c’è: issa, che è la parola che serve per allissare i cani, per scatenare la loro aggressività e furia, come c’è la lotta a due, (in dialetto per dire: fare la lotta, si usa l’intensivo: alluttare) per regolare i conti con chi ti ha fatto infuriare con offese o torti. I greci coniarono (menis) μνις, in dorico (manis) μνις, che è quella propria di Achille: “l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”. La menis/manis fu dedotta dal verbo medio (mainomai) μαίνομαι: sono fuori di me, sono furente, da cui si ebbero le Menadi, dal furore bacchico e mania, maniaco, maniacale, smaniare, manicomio. I greci, inoltre, definirono il cane rabbioso idrofobo, che non è propriamente quello che ha in odio l’acqua, ma che, avendo accumulato furore rabbioso, azzannando, trasmette la rabbia.



La furia dei latini (rabbia, frenesia, insania), da cui le Furie, rimanda a furo: impazzare, imperversare, infuriare ed è anche da collegare a uro (brucio), per cui è ciò che si genera dal bruciare che imperversa e tutto distrugge. Quindi, si ebbero: furente, furioso, furore, furoreggiare, infuriare, sfuriata. I latini coniarono una parola dal significato forte: rabies, anche qui si tratta di ogni rottura di freni inibitori, che erompe impetuosa, perché costipata anche da lungo tempo, non solo contro chi l’ha causata, ma anche nei riguardi degli astanti che provano a contenere. Nel mio dialetto c’è la parola raggia (quanta raggia m’agg’ pigliat’!), che, facilmente, discende dal latino rabies, ma a me piace pensare a un dedotto dalla radice ραγ di άσσω: batto, urto, percuoto, perché chi è arraggiat’ non solo batte e percuote, ma, talvolta, per una sorta di masochismo, si autoflagella, mordendosi, graffiandosi e schiaffeggiandosi. Da questo verbo fu dedotto, verosimilmente, anche: addarassarsi, che è lo stare alla larga da chi minaccia di colpirti. In altri dialetti si usa dire: arrassu sia! (lontano sia!).
Infine, i latini coniarono ira, che è il malanimo che incuba compresso e che, poi, deflagra. Da ira furono dedotti ir/ascibile, iroso, ir-ritare, irritante, adirarsi. L’ira che si scatena è di chi perde la ragione, al punto di poter anche uccidere e che determina un’alterazione profonda dei tratti somatici e del modo di essere di una persona. Nel mio dialetto si può dire: arraggiarsi, ma anche: annartararsi (dentro il concetto di alterarsi, ma è forma attenuata di arrabbiarsi), che il modo di essere di chi diventa irriconoscibile per le profonde alterazioni che manifesta.
I greci definirono l’avaro in tanti modi; a me piace indugiare su: (pleonéktes) πλεονέκτης: ingordo, avido, insaziabile, dedotto da (pleonekteo) πλεον-εκτέω: pretendo di più, uso soverchieria, frodo, inganno. Per formare il verbo, i greci si avvalsero del neutro πλέον, che significa non solo pieno, ma pienezza, che è quella del grembo che ha raggiunto la capacità massima, da cui si genera (ekteo) qualcosa che va contro natura: sono insaziabile, da cui: l’ingordo. Voglio, inoltre, ricordare che, da πλέον, i greci dedussero (pleonazo) πλεονάζω: sovrabbondo, eccedo e, quindi, pleonasmo e pleonastico.



I latini con avarus si avvalsero della metafora del grembo strapieno: dall’andare, dallo scorrere (del tempo) è colui che accumula sempre, che fece dire ad Orazio nella prima satira del primo libro delle Satire: “Est modus in rebus ecc.” Pertanto, il vizio è, soprattutto, un eccedere in negativo. Il genio di Molière ha reso, in modo mirabile, l’avaro, creando la figura di Arpagone, nome che rimanda a: ρπή: falco, nibbio. I latini, inoltre, per indicare l’usura e l’usurario si avvalsero di fenero feneras: presto ad interesse, di fenerator: usurario, di: fenus fenoris: usura, in quanto videro nel grembo la metafora dell’usura, dando un’inezia si ottiene moltissimo. Da ricordare che us di fenus si deve tradurre: in conseguenza del crescere, mentre oris si rende: è ciò che genera il legare (accumulo esorbitante), mentre fen si può rendere: nasce da dentro.
Gli italici si servirono di usura e di usurario, parole che rimandano ad utor/usus sum: mi servo, approfitto di, mi approfitto, a utile, a uso, la cui radice ut è da scrivere, alla greca: ουθ: dall’avere il crescere, concetti omologhi a fenus, in cui us si deve scrivere alla greca: ουθ, con assibilazione in ους, e da tradurre: genera l’ho il crescere.   
I greci, da (fthoneo) φθον-έω (è ciò che consegue dentro il nascere il crescere): sono invidioso, sono geloso, dedussero φθόνος (fthonos): invidia, malevolenza, malocchio, gelosia. L’invidia, per greci e latini, era particolarmente temuta, perché l’occhio, come il malanimo, si riteneva avessero un potere malefico. La Chiesa condannò l’invidia perché in palese contraddizione con l’amore per il prossimo, predicato da Cristo. La cultura pagana cercava di evitare in tutti i modi l’invidia degli dèi.



La superbia, nella cultura antica, era condannata perché la grandezza di un uomo poteva ingenerare l’invidia delle divinità, ma, soprattutto, perché era intesa come tracotanza, insolenza, violenza, che era la (hubris) βρις dei greci. La perifrasi di souper potrebbe tradursi: dallo scorrere del tempo fa il crescere del grembo, mentre bus è colui che lega, pieno di sé per aver determinato quella grande costruzione.
Il superbo nella cultura latina fu ambivalente, da una parte indicò: eminente, insigne, illustre, da un’altra parte significò: altero, altezzoso, arrogante fino all’insolenza. La cultura italica individuò nel superbo la difficoltà nei rapporti sociali, per il senso del disprezzo per i comuni mortali, in quanto si autocelebrava e si autocelebra come dotato di qualità superiori agli altri, anche per casato.
Ho trovato questa definizione stringata di accidia, come vizio capitale: “La negligenza nell’esercizio della virtù necessaria alla santificazione dell’anima”, che è sicuramente un concetto acquisito. Come è risaputo la parola rimanda al calco greco, formato con l’alfa privativa, -κηδία: noncuranza, quindi: negligenza, indolenza, indifferenza, anche tristezza.  La parola discende dal medio κήδομαι: mi preoccupo, mi do pensiero di, sono in affanno e dal dedotto: κδος: cura, sollecitudine, affanno, pena, a cui bisogna premettere senza. A suffragare questo processo si ricorda che, da -κηδία, fu dedotto il verbo: -κηδίαω: sono negligente, sono trascurato, sono avvilito. Quindi, accidia dovrebbe indicare il non prendersi cura di, ancora meglio trascurare un compito dovuto, che attiene alla sfera morale. Voglio aggiungere che una stessa radice, generata da uno stesso processo logico, dà luogo a significati diversi: κήδω, all’attivo, fu tradotto: affliggo, rattristo, molesto, nuoccio, danneggio, rovino. Infatti, la radice κηδ, da tradurre: dal generare dal mancare, portò il pastore a due diverse deduzioni. Con la desinenza del medio, fece questa riflessione: quando mi rapporto ad una gravida: mi prendo cura, mentre con κήδω, frutto di questo percorso logico: è ciò che faccio quando uno non si comporta bene o mi fa un torto, dedusse: nuoccio ecc.
Inoltre, ci sono parole di origine greca come apatia e abulia, entrambe formate con l’alfa privativa, che indicano rispettivamente: assenza di partecipazione affettiva e assenza di volontà. Il me taedet dei latini: mi rincresce, mi annoia, che portò a tedio, ha in sé due concetti: non mi va di fare (non ho voglia) ciò che faccio sempre, che indicò anche lo stato d’animo di stanchezza del compito del pastore. Il tedio è assimilabile a noia, che è un conio della lingua italiana e che i francesi tradussero: en-nui: a noia, nella noia. In italiano da noia furono dedotti i verbi: annoiare e annoiarsi.



La noia del pastore è ciò che si genera dentro il continuo andare, che fece dire al Leopardi: “Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli?”. Mentre il concetto di fastidium: nausea, ripugnanza, disdegno indicò ciò che si genera da taeda: fiaccola di pino (da cui: tedoforo), in greco: δαίς δαίδoς: tizzone di pino, torcia, teda, nel mio dialetto: deda (cuore del pino) che serve per accendere il fuoco. Per cui il fastidio rimanda al fumo negli occhi, che è insopportabile: “chi sopporta fumo, sopporta corna” dice l’adagio dialettale. Molto simile a fastidium è: stuff’cà (sono stufo), che è da collegare al verbo: (tyfo) τύφω: affumico, che ha generato, in italiano, stufa, stufato e, in dialetto: ‘ntufato, per indicare, ad esempio, dei capelli duri, impregnati di fumo.
Inoltre, voglio soffermarmi su inedia e su ignavia. L’inedia è di chi, per mancanza di energia fisica (di chi non ha mangiato) non può essere utile socialmente. Infatti, rimanda al verbo, comune a latini e greci: edo/δω: mangio. Con navus, che indica chi è operoso nel grembo: è ciò che si ricava dentro il legare, i latini indicarono: operoso, premuroso, attivo, da cui il contrario: ignavus: fiacco, indolente, codardo, vile, con tutti i risvolti semantici attribuiti da Dante.
Voglio concludere con delle considerazioni su una parola del mio dialetto: an-nuiinzii, da rendere così: dentro il concetto di nolente.
An-nuiinzii sta ad indicare lo stato d’animo di chi non vuole fare per stanchezza e per pigrizia, assimilabile al me piget: mi rincresce, che rimanda al modo di essere del pigro.
La lussuria dei latini: eccesso, sovrabbondanza, lusso, sfarzo, vita voluttuosa, sfrenatezza, discende da luxus: fasto, sfarzo, splendore, vita molle e lussuriosa, che, a sua volta, rimanda al deponente luxurior luxuriaris: lussureggiare, saltare per esuberanza di vitalità, essere lascivo, e determinò la condanna morale della Chiesa perché, fu associata anche agli stravizi di natura sessuale.



Il peccato di gola è associato alle gozzoviglie, alle crapule, che sono da collegare a (kraipale) κραιπάλη: vertigini da vino, ebbrezza, bagordi, in latino anche: baccatio. C’è un aggettivo greco, che ha dato luogo a fame insaziabile, ma nel mio dialetto a sazietà, che voglio citare: (boròs) βορός: vorace, ghiotto, dedotto da βορά: pascolo, pasto. Da questo aggettivo, che rappresenta il modo di essere del gregge, attraverso modificazioni foniche, furono dedotti: in-gordo, ingordigia, ba-gordi e nel dialetto: vur-d’ (sazio).
Sempre, per quanto riguarda la gola, voglio concludere con scialo e scialare, parole del dialetto meridionale, ma accettate nella lingua italiana. Sono da collegare ad alo: nutro, mantengo, faccio crescere. Questo verbo contestualizza la creatura che cresce a spese della madre, nutrita, senza misura, da prelibatezze e leccornie. Mi rimetto al vostro giudizio, se questo scialo, che fa star bene, mangiando, insieme ad amici, cibi lungamente desiderati, in quanto unici, sia da condannare come vizio capitale!
Probabilmente, è, però, un grave vizio, se chi si sciala, vivendo di sciali, scialacqua, diventando uno scialacquatore.
In dialetto la gola viene indicata con la parola canna, per cui il goloso diventa cannarut’ e le golosità diventano cannarutii. In tempi in cui mancava l’indispensabile, il goloso veniva vituperato dalla cultura popolare, per cui mi piace citare due aggettivi che connotano un pessimo soggetto: cannarut’ e camatrio. Camatrio è aggettivo in uso nei paesi del Pollino e significa: sfaticato, vagabondo. Fu dedotto, come contrario, da (kamateros) καματηρός: sfinito, spossato, oppresso dalla fatica.
Forse, oggi, il καματηρός farebbe insorgere i sindacati!