Igreci diedero alla parola vizio una
connotazione morale, definendolo (kakìa) κακίακακίας: infamia, disonore, bassezza, vizio e ἁμάρτημα: errore,
trasgressione, peccato. Lo definirono anche: cattiva abitudine:
ηκακήσυνηθείαe ἡτῆςφύσεωςἐλάττωσις:difetto di
natura. I latini definirono vitium: difetto, guasto, malattia,
male, colpa, errore (anche morale), attentato come oltraggio
al pudore e diedero a vitiare i seguenti significati: corrompere (si
ricordi: aria viziata), alterare, falsare, disonorare, deflorare,
che nulla hanno in comune con, ad esempio, bambino viziato. Si tratta di
una parola, dai tanti significati, sicuramente non sinonimici, che, presumibilmente,
fu formata dalla radice ηθ di ἦθος (abitudine, indole, inclinazione), che potrebbe
essere stata così elaborata b-ηθ-ium,
determinando una perifrasi di questo tipo: è ciò che va a generare il rimanere
la (cattiva) abitudine/inclinazione. Inoltre, si sovrappose un’interpretazione
letterale della perifrasi, per cui ηθfu letta: dal
generare il crescere, pertanto, da ciò che genera il crescere, nasce il
mancare, che può spiegare: oltraggio, male, colpa, errore.
Sicuramente, il significato è divenuto attraverso l’uso, anche per l’incidenza morale
del Cristianesimo, che lo contrappose, così come avevano fatto i latini, alla virtù.
Nella cultura popolare, è assimilabile a difett0/inclinazione, spesso di
natura, che è indicato dal detto del mio luogo: “Vizio di natura fino
alla sepoltura”. Il significato odierno più ricorrente è: cattiva abitudine,
ricollegabile solo a difetto, che, di per sé, rimanda ad imperfezione
nel nato/costruito, per cui l’espressione dialettale: ha il vizio di (ìè du
vizi’): andare a donne, rubare, essere collerico ecc. rimanderebbe alla malattia
dei latini. I greci, per
indicare virtù, coniarono (areté) ἀρετή: abilità, eccellenza, prodigio,
per poi diventare: nobile azione, attodi valore. In greco
è sicuramente la capacità, dal poco, con l’inventiva, di
realizzare la creatura. L’essere che possiede questa
virtù è ἀράχνη: ragno, che è da collegare a ἀραρισκω (la cui radice è αρ): connetto,
fabbrico. Molto probabilmente da questo verbo (meglio: da questa radice),
i latini mutuarono ars artis, che è la qualità somma, la capacità di
realizzare la creatura che nasce: durante l’incubazione, legando/formando, si
portaa termine l’essere che nasce.
La virtus dei
latini traduce, inizialmente: dote, buona qualità, eccellenza,
valore (prima nel senso di ciò che vale, poi nel senso di atto eroico), coraggio,
ardimento, fermezza e anche: perfezione morale, concetto
fatto proprio dalla cultura cristiana. L’espressione mani virtuose è ben
diversa dalle virtù morali che connotano una persona, che ha
disposizione d’animo volta al bene e che vuole predisporsi a crescere nella
perfezione umana. La perifrasi di virtus virtutis dovrebbe essere:
dall’ho l’andare a scorrere il tendere a causa del crescere, cui consegue il
legare. Le buone qualità manipolative e il concetto di perfezione si evincono
dalla realizzazione della creatura, mentre il coraggio si deduce durante il
travaglio, quando la creatura, cresciuta, è attanagliata. Ho fatto
questa premessa perché voglio soffermarmi sui vizi capitali, spesso, contrapposti
alle virtù, che sono il frutto di cultura e, quindi, di un ideale di vita.
L’intento è cercare di cogliere il processo di formazione dei sette lemmi e,
dove è possibile, il divenire con l’uso. Ci sono dei
vizi riconducibili all’istintività e, quindi, alla natura animalesca dell’uomo:
l’ira, la superbia, la lussuria e, forse, l’invidia; l’avarizia, la gola e l’accidia
sono il cattivo frutto dell’incivilimento umano. La parola che
indica rabbia animalesca, istinto belluino, che porta allo scontro fisico è
(lyssa/lytta) λύσσα/λύττα: furore,
frenesia, follia, rabbia (dei cani). Nel dialetto c’è: issa,
che è la parola che serve per allissare i cani, per scatenare la loro
aggressività e furia, come c’è la lotta a due, (in dialetto per dire:
fare la lotta, si usa l’intensivo: alluttare)per regolare i
conti con chi ti ha fatto infuriare con offese o torti. I greci coniarono
(menis) μῆνις, in dorico (manis) μᾶνις, che è quella propria di Achille: “l’ira funesta
che infiniti addusse lutti agli Achei”. La menis/manis fu dedotta dal
verbo medio (mainomai) μαίνομαι: sono
fuori di me, sono furente, da cui si ebbero le Menadi, dal
furore bacchico e mania, maniaco, maniacale, smaniare,
manicomio. I greci, inoltre, definirono il cane rabbioso idrofobo,
che non è propriamente quello che ha in odio l’acqua, ma che, avendo
accumulato furore rabbioso, azzannando, trasmette la rabbia.
La furia dei
latini (rabbia, frenesia, insania), da cui le Furie, rimanda a furo:
impazzare, imperversare, infuriare ed è anche da collegare
a uro (brucio), per cui è ciò che si genera dal bruciare che imperversa
e tutto distrugge. Quindi, si ebbero: furente, furioso, furore,
furoreggiare, infuriare, sfuriata. I latini coniarono una
parola dal significato forte: rabies, anche qui si tratta di ogni
rottura di freni inibitori, che erompe impetuosa, perché costipata anche da
lungo tempo, non solo contro chi l’ha causata, ma anche nei riguardi degli
astanti che provano a contenere. Nel mio dialetto c’è la parola raggia (quanta
raggia m’agg’ pigliat’!), che, facilmente, discende dal latino rabies, ma a
me piace pensare a un dedotto dalla radice ραγdi ῥάσσω: batto,
urto, percuoto, perché chi è arraggiat’ non solo batte
e percuote, ma, talvolta, per una sorta di masochismo, si autoflagella, mordendosi,
graffiandosi e schiaffeggiandosi. Da questo verbo fu dedotto, verosimilmente,
anche: addarassarsi, che è lo stare alla larga da chi minaccia di
colpirti. In altri dialetti si usa dire: arrassu sia!(lontano
sia!). Infine, i
latini coniarono ira, che è il malanimo che incuba compresso e che, poi,
deflagra. Da ira furono dedotti ir/ascibile, iroso, ir-ritare,
irritante, adirarsi. L’ira che si scatena è di chi perde la
ragione, al punto di poter anche uccidere e che determina un’alterazione profonda
dei tratti somatici e del modo di essere di una persona. Nel mio dialetto si
può dire: arraggiarsi, ma anche: annartararsi (dentro il
concetto dialterarsi, ma è forma attenuata di arrabbiarsi), che il
modo di essere di chi diventa irriconoscibile per le profonde alterazioni
che manifesta. I greci
definirono l’avaro in tantimodi; a me piace indugiare su: (pleonéktes)
πλεονέκτης: ingordo, avido, insaziabile, dedotto da (pleonekteo)
πλεον-εκτέω: pretendo di più, uso soverchieria, frodo,
inganno. Per formare il verbo, i greci si avvalsero del neutro πλέον, che significa non solo pieno, ma pienezza, che è quella
del grembo che ha raggiunto la capacità massima, da cui si genera (ekteo)qualcosa
che va contro natura: sono insaziabile, da cui: l’ingordo. Voglio,
inoltre, ricordare che, da πλέον, i greci
dedussero (pleonazo) πλεονάζω: sovrabbondo,
eccedo e, quindi, pleonasmo e pleonastico.
I latini con avarus
si avvalsero della metafora del grembo strapieno: dall’andare, dallo
scorrere (del tempo) è colui che accumula sempre, che fece dire ad
Orazio nella prima satira del primo libro delle Satire: “Est modus in rebus ecc.”
Pertanto, il vizio è, soprattutto, un eccedere in negativo. Il genio di Molière
ha reso, in modo mirabile, l’avaro, creando la figura di Arpagone, nome
che rimanda a: ἅρπή: falco,
nibbio. I latini, inoltre, per indicare l’usura e l’usurario
si avvalsero di fenero feneras: presto ad interesse, di fenerator:
usurario, di: fenus fenoris: usura, in quanto videro nel
grembo la metafora dell’usura, dando un’inezia si ottiene moltissimo. Da
ricordare che us di fenus si deve tradurre: in conseguenza del
crescere, mentre oris si rende: è ciò che genera il legare (accumulo
esorbitante), mentre fen si può rendere: nasce da dentro. Gli italici
si servirono di usura e di usurario, parole che rimandano ad utor/usus
sum: mi servo, approfitto di, mi approfitto, a utile,
a uso, la cui radice ut è da scrivere, alla greca: ουθ: dall’avere il crescere, concetti omologhi a fenus, in cui
us si deve scrivere alla greca: ουθ, con
assibilazione in ους, e da tradurre: genera l’ho il crescere. I greci, da (fthoneo)
φθον-έω (è ciò che consegue dentro il nascere il crescere):
sono invidioso, sono geloso, dedussero φθόνος (fthonos): invidia, malevolenza, malocchio, gelosia.
L’invidia, per greci e latini, era particolarmente temuta, perché
l’occhio, come il malanimo, si riteneva avessero un potere malefico. La Chiesa
condannò l’invidia perché in palese contraddizione con l’amore per il prossimo,
predicato da Cristo. La cultura pagana cercava di evitare in tutti i modi l’invidia
degli dèi.
La superbia,
nella cultura antica, era condannata perché la grandezza di un uomo poteva
ingenerare l’invidia delle divinità, ma, soprattutto, perché era intesa come tracotanza,
insolenza, violenza, che era la (hubris) ὕβρις dei greci. La
perifrasi di souper potrebbe tradursi: dallo scorrere del tempo fa il
crescere del grembo, mentre bus è colui che lega, pieno di sé per aver
determinato quella grande costruzione. Il superbo
nella cultura latina fu ambivalente, da una parte indicò: eminente, insigne,
illustre, da un’altra parte significò: altero, altezzoso, arrogante
fino all’insolenza. La cultura italica individuò nel superbo la
difficoltà nei rapporti sociali, per il senso del disprezzo per i comuni
mortali, in quanto si autocelebrava e si autocelebra come dotato di qualità
superiori agli altri, anche per casato. Ho trovato
questa definizione stringata di accidia, come vizio capitale: “La
negligenza nell’esercizio della virtù necessaria alla santificazione dell’anima”,
che è sicuramente un concetto acquisito. Come è risaputo la parola rimanda al
calco greco, formato con l’alfa privativa, ἀ-κηδία: noncuranza, quindi: negligenza, indolenza, indifferenza,
anche tristezza. La parola
discende dal medio κήδομαι: mi
preoccupo, mi do pensiero di, sono in affanno e dal dedotto: κῆδος: cura, sollecitudine, affanno, pena, a cui
bisogna premettere senza. A suffragare questo processo si ricorda che,
da ἀ-κηδία, fu dedotto
il verbo: ἀ-κηδίαω: sononegligente, sono trascurato, sono avvilito. Quindi, accidia
dovrebbe indicare il non prendersi cura di, ancora meglio trascurare
un compito dovuto, che attiene alla sfera morale. Voglio aggiungere che una
stessa radice, generata da uno stesso processo logico, dà luogo a significati
diversi: κήδω, all’attivo, fu tradotto: affliggo, rattristo,
molesto, nuoccio, danneggio, rovino. Infatti, la
radice κηδ, da tradurre: dal generare dal mancare, portò
il pastore a due diverse deduzioni. Con la desinenza del medio, fece questa
riflessione: quando mi rapporto ad una gravida: mi prendo cura, mentre
con κήδω, frutto di questo percorso logico: è ciò che faccio
quando uno non si comporta bene o mi fa un torto, dedusse: nuoccio
ecc. Inoltre, ci
sono parole di origine greca come apatia e abulia, entrambe
formate con l’alfa privativa, che indicano rispettivamente: assenza di partecipazione
affettiva e assenza di volontà. Il me taedet dei latini: mi rincresce,
mi annoia, che portò a tedio, ha in sé due concetti: non mi va
di fare (non ho voglia) ciò che faccio sempre, che indicò anche lo
stato d’animo di stanchezza del compito del pastore. Il tedio è
assimilabile a noia, che è un conio della lingua italiana e che i
francesi tradussero: en-nui: a noia, nella noia. In
italiano da noia furono dedotti i verbi: annoiare e annoiarsi.
La noia del
pastore è ciò che si genera dentro il continuo andare, che fece dire al
Leopardi: “Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor
non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli?”. Mentre il
concetto di fastidium: nausea, ripugnanza, disdegno
indicò ciò che si genera da taeda: fiaccola di pino (da cui:
tedoforo), in greco: δαίςδαίδoς: tizzone di pino, torcia, teda,
nel mio dialetto: deda (cuore del pino) che serve per accendere il fuoco.
Per cui il fastidio rimanda al fumo negli occhi, che è insopportabile: “chi
sopporta fumo, sopporta corna” dice l’adagio dialettale. Molto
simile a fastidium è: stuff’cà (sono stufo), che è da collegare al
verbo: (tyfo) τύφω: affumico, che ha generato, in italiano, stufa,
stufato e, in dialetto: ‘ntufato, per indicare, ad esempio, dei
capelli duri, impregnati di fumo. Inoltre,
voglio soffermarmi su inedia e su ignavia. L’inedia è di chi, per
mancanza di energia fisica (di chi non ha mangiato) non può essere utile
socialmente. Infatti, rimanda al verbo, comune a latini e greci: edo/ἔδω: mangio.
Con navus, che indica chi è operoso nel grembo: è ciò che si ricava
dentro il legare, i latini indicarono: operoso, premuroso, attivo,
da cui il contrario: ignavus: fiacco, indolente, codardo,
vile, con tutti i risvolti semantici attribuiti da Dante. Voglio
concludere con delle considerazioni su una parola del mio dialetto: an-nuiinzii,
da rendere così: dentro il concetto di nolente. An-nuiinzii sta ad
indicare lo stato d’animo di chi non vuole fare per stanchezza e per pigrizia,
assimilabile al me piget: mi rincresce, che rimanda al modo di
essere del pigro. La lussuria
dei latini: eccesso, sovrabbondanza, lusso, sfarzo,
vita voluttuosa, sfrenatezza, discende da luxus: fasto,
sfarzo, splendore, vita molle e lussuriosa, che, a sua
volta, rimanda al deponente luxurior luxuriaris: lussureggiare, saltare
per esuberanza di vitalità, essere lascivo, e determinò la condanna
morale della Chiesa perché, fu associata anche agli stravizi di natura sessuale.
Il peccato di gola
è associato alle gozzoviglie, alle crapule, che sono da collegare a (kraipale)
κραιπάλη: vertiginida vino, ebbrezza, bagordi, in
latino anche: baccatio. C’è un aggettivo greco, che ha dato luogo a fame
insaziabile, ma nel mio dialetto a sazietà, che voglio citare: (boròs) βορός: vorace, ghiotto, dedotto da βορά: pascolo, pasto. Da questo aggettivo, che rappresenta il
modo di essere del gregge, attraverso modificazioni foniche, furono dedotti: in-gordo,
ingordigia, ba-gordi e nel dialetto: vur-d’ (sazio). Sempre, per
quanto riguarda la gola, voglio concludere con scialo e scialare,
parole del dialetto meridionale, ma accettate nella lingua italiana. Sono da
collegare ad alo: nutro, mantengo, faccio crescere.
Questo verbo contestualizza la creatura che cresce a spese della madre,
nutrita, senza misura, da prelibatezze e leccornie. Mi
rimetto al vostro giudizio, se questo scialo, che fa star bene, mangiando,
insieme ad amici, cibi lungamente desiderati, in quanto unici, sia da
condannare come vizio capitale! Probabilmente,
è, però, un grave vizio, se chi sisciala, vivendo di sciali,
scialacqua, diventando uno scialacquatore. In dialetto la
gola viene indicata con la parola canna, per cui il goloso diventa cannarut’
e le golosità diventano cannarutii. In tempi in cui mancava
l’indispensabile, il goloso veniva vituperato dalla cultura popolare, per cui
mi piace citare due aggettivi che connotano un pessimo soggetto: cannarut’
e camatrio. Camatrio è aggettivo in uso nei paesi del Pollino e
significa: sfaticato, vagabondo. Fu dedotto, come contrario, da
(kamateros) καματηρός: sfinito, spossato, oppresso dalla
fatica. Forse, oggi,
il καματηρός farebbe insorgere i sindacati!