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mercoledì 4 gennaio 2023

SCRITTI INCIVILI
di Angelo Gaccione



 Acri. Ospedale sempre più a rischio.
 
Qualche giorno fa l’amico e collaboratore di “Odissea” Vincenzo Rizzuto mi ha telefonato da Cosenza per lo scambio degli auguri per il nuovo anno, e siccome siamo entrambi di Acri, è stato quasi naturale dire qualcosa del luogo di cui parliamo la lingua. Accennò sconfortato allo sfascio dell’Ospedale Civile di cui anch’io qualche volta ho scritto, e mi segnalò di aver mandato una sua indignazione alle testate locali: “Acrinrete” e “Acrinews”. Me la sono fatta subito mandare via email, ben sapendo quello che avrei potuto trovarvi. Che le giovani mamme acresi siano costrette a partorire in macchina o per strada può indignare chi ha conservato un briciolo di disgusto pubblico, ma non tutti. Lo stesso vale per l’obbligo di dover far nascere tutti gli acresi e le acresi a Cosenza, a Castrovillari, a Rossano, e via elencando, come se fossero dei profughi. Davanti a tutto questo ce la si è cavata con una alzata di spalle, perché è questo il clima dell’intero Paese da almeno un quarantennio e Acri non poteva fare eccezione. Rizzuto nella sua risentita protesta si è chiesto come sia stato possibile tanto disinteresse e tanta tolleranza in chi in quel luogo vive ed opera. Se “nell’ospedale cittadino infatti sono presenti addirittura attrezzature come Tac e Risonanza magnetica, costate un occhio alla collettività e lasciate inspiegabilmente inutilizzate” (sono parole sue), e nessuno ha mai aperto bocca, vuol dire che allo sfascio si è fatta l’abitudine. Non si vogliono chiamare per nome i responsabili per non guastarsela con chicchessia, si preferisce badare ai propri affari, chiudersi nel proprio miserabile universo familiare, fare finta che tutto vada bene. È un vizio tutto italiano questo, incarnato nell’antropologia della nazione, nel midollo individuale, fino a diventare costume collettivo. C’è un detto acrese che chiarisce in maniera molto efficace questo modo di essere e di non agire: “A rrobba comuni jettala a nnu vallunu”. Traduco perché anche la lingua dialettale si sta liquefacendo come i reparti dell’Ospedale Civile di Acri: I beni che appartengono a tutti lasciali andare in malora. La resa espressiva non è efficace come la lingua dialettale, ma il significato è chiaro. 



Per segnare una linea temporale, sono almeno quarant’anni che la socialità civile è morta in Acri. È morta con la scomparsa delle sedi, i circoli, gli organi di stampa e i protagonisti dell’opposizione ai partiti indegni di una stagione irripetibile. È morta con la desertificazione giovanile della città dovuta all’emigrazione, è morta con la mancanza di un passaggio di testimone generazionale, è morta con il conformismo degli ambienti studenteschi, è morta con l’affermarsi di una cultura giovanile dello sballo, del menefreghismo, dell’assorbimento della spazzatura consumistica, del perbenismo piccolo borghese, dell’inconsapevolezza, del disamore verso i luoghi della propria appartenenza. È morta con lo spegnersi dello spirito ribelle, di ogni sussulto rivoluzionario in giovani senza passione. Ma era morta già nelle vite “separate” di un ceto di professionisti che della città e delle sue sorti non si è mai curato. Si è tenuto fuori, ha badato al proprio “particulare”, ha fatto combriccola, vita a sé, come nelle più squallide ed oscene consorterie.
La stessa collettività e territorio sono stati privati di tanti altri servizi indispensabili al vivere civile: sono stati chiusi il tribunale, la guardia di finanza, gli uffici Inps, l’Agenzia delle entrate, e per ultimo anche la Biblioteca comunale, voluta e aperta negli anni Cinquanta dal senatore Francesco Spezzano”, scrive Rizzuto. Se anche una Biblioteca chiude, in un paese che bandisce due o tre premi letterari all’anno, vuol dire che non c’è più nulla da fare. Non resta che una sola umana consolazione: quella che anche i responsabili dello sfascio, come gli indifferenti, arriveranno morti a Cosenza, a Castrovillari, a Rossano, al primo infarto che li coglierà.