Acri. Ospedale sempre più a rischio. Qualche
giorno fa l’amico e collaboratore di “Odissea” Vincenzo Rizzuto mi ha
telefonato da Cosenza per lo scambio degli auguri per il nuovo anno, e siccome
siamo entrambi di Acri, è stato quasi naturale dire qualcosa del luogo di cui
parliamo la lingua. Accennò sconfortato allo sfascio dell’Ospedale Civile di
cui anch’io qualche volta ho scritto, e mi segnalò di aver mandato una sua
indignazione alle testate locali: “Acrinrete” e “Acrinews”. Me la sono fatta
subito mandare via email, ben sapendo quello che avrei potuto trovarvi. Che le
giovani mamme acresi siano costrette a partorire in macchina o per strada può
indignare chi ha conservato un briciolo di disgusto pubblico, ma non tutti. Lo
stesso vale per l’obbligo di dover far nascere tutti gli acresi e le acresi a
Cosenza, a Castrovillari, a Rossano, e via elencando, come se fossero dei
profughi. Davanti a tutto questo ce la si è cavata con una alzata di spalle,
perché è questo il clima dell’intero Paese da almeno un quarantennio e Acri non
poteva fare eccezione. Rizzuto nella sua risentita protesta si è chiesto come
sia stato possibile tanto disinteresse e tanta tolleranza in chi in quel luogo
vive ed opera. Se “nell’ospedale cittadino infatti sono presenti addirittura
attrezzature come Tac e Risonanza magnetica, costate un occhio alla
collettività e lasciate inspiegabilmente inutilizzate” (sono parole sue), e
nessuno ha mai aperto bocca, vuol dire che allo sfascio si è fatta l’abitudine.
Non si vogliono chiamare per nome i responsabili per non guastarsela con chicchessia,
si preferisce badare ai propri affari, chiudersi nel proprio miserabile
universo familiare, fare finta che tutto vada bene. È un vizio tutto italiano questo, incarnato
nell’antropologia della nazione, nel midollo individuale, fino a diventare
costume collettivo. C’è un detto acrese che chiarisce in maniera molto efficace
questo modo di essere e di non agire: “A rrobba comuni jettala a nnu vallunu”.
Traduco perché anche la lingua dialettale si sta liquefacendo come i reparti
dell’Ospedale Civile di Acri: I beni che appartengono a tuttilasciali
andare in malora. La resa espressiva non è efficace come la lingua
dialettale, ma il significato è chiaro.
Per segnare una linea temporale, sono
almeno quarant’anni che la socialità civile è morta in Acri. È morta con la scomparsa delle sedi, i circoli, gli
organi di stampa e i protagonisti dell’opposizione ai partiti indegni di una
stagione irripetibile. È morta con la
desertificazione giovanile della città dovuta all’emigrazione, è morta con la
mancanza di un passaggio di testimone generazionale, è morta con il conformismo
degli ambienti studenteschi, è morta con l’affermarsi di una cultura giovanile
dello sballo, del menefreghismo, dell’assorbimento della spazzatura
consumistica, del perbenismo piccolo borghese, dell’inconsapevolezza, del
disamore verso i luoghi della propria appartenenza. È morta con lo spegnersi dello spirito
ribelle, di ogni sussulto rivoluzionario in giovani senza passione. Ma era
morta già nelle vite “separate” di un ceto di professionisti che della città e
delle sue sorti non si è mai curato. Si è tenuto fuori, ha badato al proprio
“particulare”, ha fatto combriccola, vita a sé, come nelle più squallide ed
oscene consorterie. “La
stessa collettività e territorio sono stati privati di tanti altri servizi
indispensabili al vivere civile: sono stati chiusi il tribunale, la guardia di
finanza, gli uffici Inps, l’Agenzia delle entrate, e per ultimo anche la
Biblioteca comunale, voluta e aperta negli anni Cinquanta dal senatore
Francesco Spezzano”, scrive Rizzuto. Se anche una Biblioteca chiude, in un
paese che bandisce due o tre premi letterari all’anno, vuol dire che non c’è
più nulla da fare. Non resta che una sola umana consolazione: quella che anche
i responsabili dello sfascio, come gli indifferenti, arriveranno morti a
Cosenza, a Castrovillari, a Rossano, al primo infarto che li coglierà.