DEPORTATI. UNA TESTIMONIANZA
di
Rita Morandi
Morandi con la nipotina
Domenico
Morandi deportato antifascista.
Quando
si parla della shoah, considerato il male estremo del Novecento, la conseguenza
dell’antisemitismo, lo sterminio per eccellenza ecc., ragioniamo sul concetto
stesso di genocidio e della difficoltà di chi è stato ed è in battaglia per il
progresso e la libertà. Sono figlia di un deportato dei campi di sterminio
nazisti, Domenico Morandi, nato a Milano il 20 luglio del 1910, di professione
antiquario con bottega in via Montenapoleone. Mio papà non era ebreo, neanche
partigiano, era “solo” antifascista. Non so se era il binario 21 o il 18 o il
19, certo è che da qualche parte è salito su un treno per Dachau, per poi
essere trasferito nel campo di concentramento di Mauthausen, ed è tornato dopo
18 mesi. A pensarci provo un senso di tenerezza e di rabbia. Io della shoah so
quello che lui mi ha raccontato e più che dei fatti mi ha trasmesso delle
emozioni… sensazioni terribili che sono rimaste impresse nella mia anima. Mio
padre era restìo a parlarne come quasi tutti i sopravvissuti, ho sentito, per un
processo di rimozione, come cancellare quel periodo di vita esaltandone altri
il suo “prima” fatto di lavoro allegria molto sport ed il suo” dopo” in cui
aveva incontrato mia madre, la sua Dea, moglie, madre, compagna, e la famiglia
che si era formato.
Morandi con la nipotina |
Come sopravvissuto ha riportato cicatrici inenarrabili, la sua fortissima depressione ogni volta che gli capitava di vedere la neve gli ricordava le cataste di cadaveri… o quando raccoglieva tutte le briciole dalla tovaglia dopo mangiato come un ricordo della fame subìta. Raccontare quello che succedeva nei campi era un peso enorme come l’umiliazione di dirci che per sopravvivere era stato costretto a mangiare l’erba che trovava o l’olio delle ruote dei carri. Il volersi salvare, il non voler farsi trascinare dal corpo vicino che cade e non potrà più rialzarsi, non è comportarsi male, non è una colpa, eppure tra le righe lasciava spesso sottendere di non venire compreso, o un vago senso di vergogna. Era invece solo una vittima umiliata e impotente.
La pagina del libro con
il nome di Morandi
Mio
padre mi ha insegnato valori come la complicità e la vicinanza con altri
prigionieri, magari di un’alta nazionalità o religione o stato sociale, ed il
reciproco aiuto. Per qualche anno io e mia sorella allora bambine, guardavamo
dalla porta socchiusa le belle cene e gli incontri che mio padre faceva a casa
con i suoi compagni sopravvissuti, che avevano vissuto la stessa esperienza e
quell’aria di complicità e di vera amicizia che c’era tra loro io non l’ho più
vista. Si è salvato, è tornato il 5 maggio del ’45, fuggito nelle campagne dove
l’incontro con una contadina che gli ha cucinato un catino di riso l’ha
salvato, mi ha concepito, ha avuto fiducia nel futuro e nella capacità
dell’uomo di risollevarsi e anelare alla libertà.
il nome di Morandi