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venerdì 3 febbraio 2023

DEPORTATI. UNA TESTIMONIANZA
di Rita Morandi

Morandi con la nipotina
 
Domenico Morandi deportato antifascista.
 
Quando si parla della shoah, considerato il male estremo del Novecento, la conseguenza dell’antisemitismo, lo sterminio per eccellenza ecc., ragioniamo sul concetto stesso di genocidio e della difficoltà di chi è stato ed è in battaglia per il progresso e la libertà. Sono figlia di un deportato dei campi di sterminio nazisti, Domenico Morandi, nato a Milano il 20 luglio del 1910, di professione antiquario con bottega in via Montenapoleone. Mio papà non era ebreo, neanche partigiano, era “solo” antifascista. Non so se era il binario 21 o il 18 o il 19, certo è che da qualche parte è salito su un treno per Dachau, per poi essere trasferito nel campo di concentramento di Mauthausen, ed è tornato dopo 18 mesi. A pensarci provo un senso di tenerezza e di rabbia. Io della shoah so quello che lui mi ha raccontato e più che dei fatti mi ha trasmesso delle emozioni… sensazioni terribili che sono rimaste impresse nella mia anima. Mio padre era restìo a parlarne come quasi tutti i sopravvissuti, ho sentito, per un processo di rimozione, come cancellare quel periodo di vita esaltandone altri il suo “prima” fatto di lavoro allegria molto sport ed il suo” dopo” in cui aveva incontrato mia madre, la sua Dea, moglie, madre, compagna, e la famiglia che si era formato. 



Come sopravvissuto ha riportato cicatrici inenarrabili, la sua fortissima depressione ogni volta che gli capitava di vedere la neve gli ricordava le cataste di cadaveri… o quando raccoglieva tutte le briciole dalla tovaglia dopo mangiato come un ricordo della fame subìta. Raccontare quello che succedeva nei campi era un peso enorme come l’umiliazione di dirci che per sopravvivere era stato costretto a mangiare l’erba che trovava o l’olio delle ruote dei carri. Il volersi salvare, il non voler farsi trascinare dal corpo vicino che cade e non potrà più rialzarsi, non è comportarsi male, non è una colpa, eppure tra le righe lasciava spesso sottendere di non venire compreso, o un vago senso di vergogna. Era invece solo una vittima umiliata e impotente.


La pagina del libro con
il nome di Morandi

Mio padre mi ha insegnato valori come la complicità e la vicinanza con altri prigionieri, magari di un’alta nazionalità o religione o stato sociale, ed il reciproco aiuto. Per qualche anno io e mia sorella allora bambine, guardavamo dalla porta socchiusa le belle cene e gli incontri che mio padre faceva a casa con i suoi compagni sopravvissuti, che avevano vissuto la stessa esperienza e quell’aria di complicità e di vera amicizia che c’era tra loro io non l’ho più vista. Si è salvato, è tornato il 5 maggio del ’45, fuggito nelle campagne dove l’incontro con una contadina che gli ha cucinato un catino di riso l’ha salvato, mi ha concepito, ha avuto fiducia nel futuro e nella capacità dell’uomo di risollevarsi e anelare alla libertà.