LE SOLITUDINI
di Federico Migliorati
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Grazia Verasani |
Per Giacomo Leopardi la solitudine
agiva come una lente d’ingrandimento: “Se sei solo e stai bene, stai benissimo;
se sei solo e stai male, stai malissimo” è un suo celebre aforisma. Sulla
solitudine, “osservata” in prima persona e tramite gli occhi di alcuni grandi
scrittori, poeti, musicisti ha scritto recentemente la bolognese Grazia
Verasani, nome noto nel panorama letterario e cinematografico, stimolata a
intraprendere il cammino della letteratura da personaggi quali Gianni Celati,
Roberto Roversi, Tonino Guerra, Stefano Benni. In Solitudini. Uno status del
XXI secolo, agile librino di 43 pagine uscito da poco tempo per i tipi di
Oligo Editore, l’autrice offre plurimi spunti di riflessione sul tema in un
continuo rimando tra la propria esperienza e quella degli altri offrendo una
panoramica succinta, ma interessante sul ruolo e sul significato che la
solitudine, le solitudini hanno rivestito nell’esistenza di molti. Uno stato,
anzi, uno status che alla cantante francese Barbara richiamava un senso di
angoscia, in un fluido andare e venire presso di noi, da cui era impossibile
liberarsi. Certo, questo è vero per esempio nei riguardi di genitori che
sopravvivono ai figli: qui la solitudine si fa di pietra, come è narrato ne “Il
nespolo” di Luigi Pintor che inventa il personaggio di Giano, protagonista
dell’opera, riversando su di lui gli stessi incubi e dolori vissuti, quelli
sorti dall’essere sopravvissuti ai propri figli, rimasti dunque soli al mondo e
per giunta molto in là negli anni. Vi è tuttavia anche una solitudine “buona”,
quella con cui troviamo un compromesso, un accomodamento sincero, generato
dalle immancabili risorse che essa possiede e che l’autrice del librino ha
saputo e voluto trovare. Appaiono tra le pagine alcuni dei protagonisti che le
hanno segnato o instradato la carriera come appunto Celati, “con le sue lunghe
gambe sempre in moto”, scrittore straordinario ed eclettico, che tanto
rassomiglia al volume Passeggiatore solitario di Sebald dedicato a
Robert Walser. Ma chi crea, costruisce o inventa storie, dispiega il proprio
verso o la prosa sulla carta, come si trova con questo “status del XXI secolo”?
Per alcuni esso è “una cella intollerabile”, ed è il caso di Cesare Pavese, per
altri, come Schopenhauer “essere soli è il destino dei grandi spiriti” e ancora
per Flaiano “tutti nasciamo soli e moriamo soli” in ciò asserendo come la
solitudine sia consustanziale all’essere umano. Può aiutarci, venirci in
soccorso di fronte al caos e alla frenesia quotidiana, può crearci timori e
disillusioni, può altresì formare il brodo primordiale per una poesia o un
romanzo, come lascia a intendere la stessa Verasani la quale invita, in ultima
analisi, “a farsi amica la solitudine inflessibile” poiché siamo tutti legati e
separati di volta in volta, uniti e divisi. Certo, i casi di cronaca, con
episodi sempre più frequenti di persone, spesso anziani, ritrovate decedute
dopo giorni o mesi, “invisibili” al mondo, lascia da pensare, ma ciò ci
condurrebbe a ragionare su altro a partire da una socialità sempre più
sradicata e avulsa da valori, da compassione, da un sentire comune. Nell’ultima
parte del librino assistiamo alla confessione della Verasani figlia, tra malinconia
e dolcezza, in un percorso emotivo che nonostante i dolori patiti per la
scomparsa degli amati genitori le ha permesso di riscoprire il senso di una
solitudine se non amica quantomeno “complice” nell’alimentare un amore
sconfinato per i libri e per la scrittura. Il resto, per lei come per tutti, è
racchiuso nel noto verso di Salvatore Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuore
della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”.