Sanremo.
Il cuore tribale. Ma
perché proprio a Sanremo? Che sembrerebbe il posto meno adatto per parlare
delle atrocità di una guerra? E il posto dove una simile inopportuna e
sgradevole intrusione dovrebbe suscitare reazioni di fastidio, anzi di rifiuto?
Perché dunque scegliere per Zelensky proprio il palcoscenico di Sanremo? Una
prima risposta è del tutto banale: perché questo palcoscenico offre una delle
più vaste audience che possa mettere a disposizione la televisione. Però
si può vedere di approfondire. Infatti ciò che ci si è proposti con questa
operazione di marketing ispirato alla distruzione e alla morte, non è solo una
vasta audience, ma un’audience che importa in modo più specifico catturare. Il
Festival di Sanremo nasce nel 1951. Solo cinque anni prima è stato varato il
concorso di Miss Italia: entrambi fenomeni di grande impatto popolare, che gli
anni hanno in parte trasformato, ma mai cancellato, e che rimangono ancora oggi
vivi e attuali proprio perché non hanno mai tagliato le radici con il loro
passato. Sono queste lontane radici ad aver consentito loro una continuità per
cui niente ancora oggi può estirpare il Festival di Sanremo dal cuore di quel
grande pubblico che anno dopo anno continua a seguirlo. Sono radici che
affondano nel fertile e vivace humus dell’Italia degli anni Cinquanta, tesa a
un futuro industriale ma ancora legata alle tradizioni di una civiltà
contadina: un’Italia ancora paesana, provinciale, ancora intrisa di buoni
sentimenti, di cui la famiglia costituiva l’imprescindibile pilastro. Un’Italia
che voleva ripartire con entusiasmo ancora un po’ ingenuo verso il futuro, ma tenendosi
ancora saldamente stretta ai valori del passato, e si commuoveva senza vergogna
ascoltando canzoni che parlavano di vecchi scarponi e di anatroccoli, e di
amori intrisi di velleitaria e lagrimosa malinconia.
Senza
di questo il permanere del Festival di Sanremo, attualizzato ma
fondamentalmente sempre uguale a sé stesso, dopo più di 70 anni durante i quali
il mondo non solo si è trasformato ma si è addirittura ribaltato avrebbe, a
pensarci bene, qualcosa di stupefacente. Senza un certo consistente residuo di quell’humus
lontano in cui affonda le sue radici, un tale evento non avrebbe
quell’attrazione intramontabile che fa ancora riunire le famiglie davanti alla
Tivù. Ed è per tale motivo, io credo, che si è pensato di sferrare un
vergognoso attacco proprio qui, nel cuore di quest’Italia ancora malgrado tutto
un po’ ingenua e bonacciona, fondamentalmente sempre piccoloborghese,
servendosi di un evento in cui si riflette l’identità nazionale di un Paese dove
il senso di appartenenza non è legato né alla politica né alla Storia, né
tantomeno alle istituzioni, ma a un certo comune “sentire”. Un paese che reagisce
sempre non secondo i suggerimenti della ragione, ma sull’onda dell’emozione,
che sia quella della generosità o quella della vendetta. Un Paese rimasto nel suo
inconscio tribale: un insieme di tribù che si accordano su alcuni riti arcaici,
ma a cui non gliene può importare di meno di diventare nazione. Diciamo allora
che il Festival di Sanremo è uno di questi riti arcaici che sostituiscono un
sentimento nazionale assente. Esplorando e affondando in questi riti arcaici si
può cogliere l’animo di un popolo. Si può penetrare nel suo inconscio e quindi
anche manipolarlo. E meglio lo si manipola se quell’inconscio è distratto da
tante emozioni che lo allontanano da una qualsiasi vigilanza.
Il
Festival di Sanremo, pensano i manipolatori, quell’inconscio te lo squaderna lì,
indifeso. Allora ecco l’affondo in quella zona scoperta. Ecco che lì si può
perpetrare lo stupro della ragazza tutto sommato ancora un po’ ingenua. Lì si
può infiltrare il veleno di una propaganda dell’orrore, del criminoso: per
convincere che si può accettare anche quello, anzi approvarlo, come fosse anche
quello una canzone che ancheggi fra i lustrini. Come fosse anzi proprio quello
che ci permette di godere di quella canzone. Convincere che esiste una guerra
giusta, e che per quella è necessario continuare a inviare armi, perché un
mondo di vecchi scarponi continui a esistere: nell’inconscio messo allo
scoperto le emozioni si avvolgono in fumose spire una all’altra.E allora, a una nazione che non c’è, si può sostituire
un mito inesistente: quello di un’Europa che avrebbe dovuto impedire qualsiasi
guerra, ma che d’altra parte è obbligata, benché sia per la pace, a portare
avanti la guerra. Una guerra voluta da poteri militari e politici al servizio
di poteri economici al servizio di pochi che credendosi onnipotenti stanno
cercando di inventare il transumano.
Il
transumano per definizione deve sradicare tutto ciò che è tribale: ma
possibilmente in modo che nessuno se ne accorga. Agire sulla ragione non basta,
forse nemmeno serve: la ragione è fluttuante, oggi dice bianco domani dice
nero. Ciò che è profondo, inconscio, atavico, tribale invece, una volta avviato
in una direzione, la persegue. E, se incontra la ragione sul suo cammino, la
calpesta, come fa una folla inferocita. O spaventata. Non è su questo che hanno
costruito le loro follie tutti i dittatori? I
dittatori di oggi sono occulti. Hanno studiato razionalmente - loro sì - tutte
le tecniche di manipolazione. Agiscono sotterraneamente, in modo soft. Non
dichiarano i loro intenti. Non si espongono. Muovono sul palcoscenico i loro
fantocci. Dopo aver preparato il terreno. E dalla pandemia in avanti queto
terreno è stato preparato benissimo.
Ma
l’onnipotenza non esiste. Nemmeno Dio, se c’è, sembra poter essere onnipotente.
I Faraoni hanno fatto costruire piramidi pensando di poter entrare da vivi nel
regno dei morti. L’Occidente si appresta a celebrare il suo funerale,
puntellando con la propaganda e con le armi e servendosi di personaggi inqualificabili
che, come Zelensky, si agitano perché sanno di essere ogni giorno a un passo
dall’abisso, un potere vuoto, una piramide che si regge sul nulla e non
schiuderà mai un cammino di immortalità a chi, stando sul suo vertice, crede di
possederlo. Il vertice è oggi pericolosamente ondeggiante. Ma
il cuore tribale degli italiani non ama la guerra, e tanto meno questa guerra
e, se gliela si vuole fare ingoiare come si faceva una volta con i bambini per
l’olio di ricino, mimetizzandolo con qualcosa di dolce, c’è anche il caso che
alla fine si ottenga l’effetto contrario. E
allora non mi stupirei che, avendo sbagliato i calcoli - non sarebbe la prima
volta - quel cuore tribale finalmente in un soprassalto si accorgesse che non
vuole Zelensky, che non vuole questa guerra, che non vuole questa Europa, che
non vuole questo Occidente. E da lì, dapprima sommessamente, ma poi con voce sempre
più forte, inizierà la sua liberazione.