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domenica 12 febbraio 2023

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


 
La religiosità
Per l’uomo, il superamento dello stato di natura fu determinato dalla pastorizia, che fu manifestazione non solo di cultura, ma si trasformò in lievito culturale. In questo stadio della storia dell’umanità, l’uomo comunicò con simboli fonico-verbali e generò da sé l’idea di Dio. La creazione del linguaggio verbale fu, sicuramente, espressione di crescita delle conoscenze, delle qualità intellettive, della sensibilità dell’uomo.
Il rapporto con la divinità condizionò il modo di essere dell’uomo e, per tanta parte, connotò il processo d’incivilimento. In particolare, si vuol dire che il senso morale è legato strettamente al modo d’intendere la divinità. Anche in questo senso, la pastorizia e l’agricoltura sono espressione di cultura e di civiltà.
Il modo di pensare e di sentire la divinità non può essere ridotto al significato contenuto in una parola, ma a tanti elementi che sono l’essenza della civiltà e del modo di essere di un popolo, del suo spirito religioso, che si innova, per lo sviluppo del pensiero, per le conquiste della scienza, per gli apporti filosofici, per il Vecchio e Nuovo Testamento.
La parola, però, definisce ed esprime, in modo essenziale, il concetto di colui o di ciò che vuole identificare. Dal processo di riproduzione nasce l’idea di Dio, come Colui che è causa della vita, dei suoi processi di formazione e che ha la capacità di propiziarne gli accadimenti.
Il pastore sublima, per lo più, l’immagine di Dio, ma la assimila a sé (antropomorfismo).
Egli si rese conto che la creazione della vita non poteva essere virtù umana o degli altri animali, ma rimandava a un dono: carisma/dono divino, di un Essere Superiore o di Esseri Superiori.
Nell’attitudine al mito dei greci, si può spiegare il culto di varie divinità, cui si attribuiva, spesso, la causa di una delle varie fasi della riproduzione animale e vegetale.



Tutto quello che avviene nel grembo è oggetto di attenta osservazione da parte del pastore. Per attivare il processo di creazione e di riproduzione animale sono indispensabili (theòs) θεός θεο e (theà) θεά. Θεός è: colui che, dal mancare (ος), genera il crescere, per cui delle possibili interpretazioni potrebbero essere: l’inseminazione (mancare) si trasforma in flusso gravidico (crescita) o anche: dalla crescita del flusso spermatico inizia il processo di formazione (che è ciò che manca). In modo ancora più comprensibile si può rendere così: theòs è colui che fa crescere ciò che mi manca o ciò di cui ho bisogno, che, quindi, provvede alle mie necessità. Mentre θεά θεάς è colei, che, legando (nutrendo e dando forma alla materia che è in divenire necessitato), trasforma quel crescere disordinato e confuso in una creatura che, poi, viene al mondo. Individuata la funzione essenziale di θεός, che è quello di essere Creatore: (o suntheis) συνθείς e/o demiurgo, il pastore attribuisce a distinte divinità le capacità per presiedere alle fasi e ai momenti del processo di creazione e anche l’elargizione di doni per attivare quanto avviene nel cosmo.
A capo di tutti gli dèi fu preposto, nell’Olimpo greco, (Zeus Diòs) Ζεύς Διός, e, in quello latino, Iuppiter Iovis, entrambi molto prolifici e responsabili, nel cosmo, di mandare, tra l’altro, la pioggia (in dialetto si dice: ha chiuppit: ha piovuto) per favorire lo sviluppo della flora, nutrimento per la fauna. Incidentalmente, si ricorda che la parola Ζεύς è la mitizzazione del significato più alto attribuito a (zeugnumi) ζεύγνυμι: lego stretto, congiungo, dό in matrimonio. Si ricorda, ancora, che i latini dedussero da questo verbo iugum (in greco: ζυγόν), da cui, poi, iugerum.
Inoltre, la cultura greca generò il verbo πο-θεόω, attribuendo il seguente significato: divinizzo, metto fra gli dèi, da cui apoteosi, che non solo indica divinizzazione, ma anche l’esaltazione di colui che ha la capacità procreativa, in quanto, con il calco ωσις ωσεος, il pastore greco la definì: dal concetto di dio, che si manifesta con la crescita che determina il legame tra madre e figlio fino al parto (il mancare finale), per cui il trono di Dio è il grembo materno, che è anche la metafora del mondo. Infatti, il Pantocratore, talvolta, è raffigurato sul globo.



L’idea di Dio, per i latini, non fu dissimile da quella dei greci. Molto probabilmente deus rimanda a δις, genitivo irregolare di Ζεύς, che è colui che, dal legare (ad indicare e la congiunzione e/o il periodo in cui prende forma e sostanza l’essere in formazione), genera il mancare, che è ciò di cui l’uomo ha bisogno; la dea è colei che, legando, genera (fa nascere quello che manca, l’indispensabile per l’uomo). C’è da aggiungere che, se deus è ricollegabile al genitivo Διός, allora deus dei latini potrebbe indicare un potere proprio di Zeus/ Iuppiter.
Quindi, a capo (archòs; ρχός: il capo), come prima causa (arché, in greco: ρχή) dei processi di natura e, quindi, della vita, c’è la divinità, che, pertanto, è generosa e munifica, in quanto ha la capacità di creare quanto all’uomo serve. La traduzione di arché si può rendere così: durante la gestazione avviene la formazione dell’essere, da cui discende sia l’inizio sia il primo Essere causativo.
I greci, inoltre, mitizzarono il flusso gravidico, che è la materia disordinata, confusa, informe, immaginandola come (Chaos) Χάος (abisso, spazio vuoto, immensità dell’aria), da tradurre: dal passare è ciò che manca (nasce), che è la formazione del flusso gravidico. Da ciò che avviene nel grembo (qui il flusso gravidico senza forma), dedussero il Chaos dell’Universo, come fase antecedente la creazione (del mondo).
I greci assegnarono a διαβολή i seguenti significati: denigrazione, calunnia, discordia, da cui fu elaborato il concetto di diavolo, che è colui che denigra, calunnia, mette discordia.
Per i greci, un altro modo per indicare il creatore fu (daimon) δαίμων: potenza divina, volere divino, distributore di sorte favorevole o avversa. La traduzione letterale di: δαίμων dovrebbe essere: dal generare il legare il rimanere, è ciò che si trova dentro l’andare a mancare. Il perché di questo significato ambivalente non si riesce a spiegare. Si sa, comunque, che la civiltà cristiana fece del demone un oppositore di Dio. Si dovrebbe trattare di un lemma in cui potevano coesistere le discordanti interpretazioni; d’altra parte, si deve aggiungere che da δαίμων fu dedotto: εδαίμων: felice, fortunato, in quanto si tratta del bambino, che, nascendo, realizza quanto ha desiderato: venire alla luce, dopo essere rimasto legato e al buio.
Greci e latini non ebbero un dio del male, nel senso anche di un larvato manicheismo, ma furono molto superstiziosi, in quanto credettero al potere dell’uomo di essere causa di mali, guardando con invidia o persino con un’espressione di compiacimento (ad esempio, dire di un bambino: quant’è bello!), per cui si avvalsero di alcune espressioni magiche (come dire: benedica!) o del fare ricorso a ciò che potesse deviare il malocchio, attraverso particolari segni apotropaici (fallo, ferro, sale), per cui da:τροπή: rivolgimento, cambiamento, mutazione, fu dedotto: πο-τροπή: deviazione, l’allontanare, lo stornare. Quindi, credettero in persone capaci di fare i sortilegi, in greco βάσκανος: che guarda di malocchio, in latino fascinator, nel mio territorio il magaro/la magara, ma anche capaci di dissolvere gli incantesimi: in greco: τ βασκάνιον: incantesimo contro i sortilegi, in latino: fascinatio, nel Mezzogiorno: magaria.



Prima di passare ad altri aspetti del culto religioso, mi voglio soffermare sul diritto divino e sul diritto umano di greci e latini. I greci indicarono con δίκη: diritto, giustizia, mediante questa perifrasi: dall’andare il mancare si genera il legare, che è l’omologo di ius iuris: va dall’ho il mancare l’andare a scorrere il legare, ad indicare non solo il concetto di lex, come restrizione per chi manca, ma soprattutto afferisce alla condizione umana: lavorare (il legare) per sopperire al bisogno (al mancare, inteso, inizialmente, come inseminazione). Ius, pertanto, indica non solo l’insieme delle leggi umane, ma anche diritto (ad Aprigliano: ci tengh’ u ius significa: è nel mio diritto), in quanto è sicuramente mio ciò che ho seminato (il mancato) e ciò che è stato oggetto di fatiche (quello che ho legato). Nel concetto di diritto divino compare la θ di θεός, per cui i greci coniarono l’aggettivo: σιος: permesso dalla legge divina, mediante questa perifrasi: il crescere di quello che ho va a legare, da cui, poi, il sostantivo σία (legge divina). La stessa cosa dissero i latini, coniando fas (dal nascere il crescere), da cui fasto e i fasti, per cui Foscolo: “Testimonianza a’ fasti eran le tombe”. Ho fatto questa digressione per dare a qualche studioso elementi per cogliere la vera differenza tra diritto divino e diritto umano. Mi preme sottolineare che nel dialetto laconico σιός corrisponde a θεός.
A questo punto, è opportuno soffermarsi sul culto e, quindi, sul sentimento religioso.
I pastori desiderano che i parti siano numerosi e che abbiano felice esito per le gestanti e per i nati. Il parto anomalo aveva le sue frequenze, per cui si potevano verificare tutti i casi che si possono immaginare; da qui una serie di culti, che si manifestavano con libagioni, voti, preghiere e sacrifici. La parola cultus, che attiene a venerato e a coltivato, è sicuramente una parola omografa ed è da collegare a una delle accezioni di colo colis, colui, cultum, colere: venero, adoro, sacrifico a. Pertanto, il culto, assimilabile a (therapeia theon) θεραπεία (θεν): rispetto, ossequio dei greci, esprime l’insieme di riti per propiziarsi la divinità, in particolare, durante le gravidanze. I latini coniarono voveo, dando il significato di: prego una divinità, prometto come voto ad una divinità per qualcosa che bramo ardentemente (πιθυμία, epithumia, per i greci), e dal supino dedussero votum: è ciò che faccio quando il rimanere della creatura fa generare il crescere, in quanto la t è da leggere θ. Poi, da voto, che è anche colui che ha pregato una divinità, che ha fatto voto ad una divinità, furono dedotti: devoto e devozione, per esempio a Giunone, mentre gli italici dedussero votare, nel senso di scelgo, sono favorevole a. Quindi, nell’ambito di questo contesto, i latini coniarono anche il verbo deponente: suffragor: favorisco con il mio voto, do il voto, dedotto dal desiderio dell’esito positivo dell’evento nascita e suffragium, omologo di (psefos) ψφος: pietruzza, sassolino per votare, dando il significato di: voto, suffragio, assenso.



Il modo di ingraziarsi la divinità avveniva con sacrifici, talvolta cruenti (di animali). I greci con (thuo) θύω: sacrifico, probabilmente, indicarono l’intento di propiziarsi la divinità, al primo comparire dell’abbozzo del grembo. Questo verbo si può rendere così: è ciò che faccio quando c’è la crescita del flusso gravidico, prodromica al legame nel grembo con la madre, per il cui esito positivo immolavano vittime agli dèi. La vittima dei latini (in greco: θυσία) è da collegare a (thuma thumatos) θμα θματος: sacrificio, per cui da sacrificio dedussero uikθμα/vikthuma (vittima), che veniva immolata, parola (immolata) da collegare a (mule) μύλη: mole, macigno, macina.
Hostia è un sinonimo di vittima (hos si può tradurre: genera il passare il crescere della creatura, quando si genera il protendersi) e, verosimilmente, indica quella offerta in contraccambio della creatura che deve nascere.
Pertanto, il sacrificio è la forma più importante di offerta votiva, per ottenere quell’essere sacro e inviolabile che è nel grembo. I latini, infatti, usarono sacrificium, dedotto dall’aggettivo sacer, che è qualità propria del grembo, in quanto sacro e inviolabile, per indicare θμα θματος. Per coniare sacro si avvalsero di questa perifrasi: è ciò che nasce dal generare il legare dallo scorrere il passare, che, in questo caso, indica il processo di formazione dell’essere. Da sacer fu dedotto sacerdos, che è colui che è preposto alle cose/funzioni sacre. Nella lingua italiana sacrificio passò a significare anche: rinuncia a qualcosa di necessario per realizzare quanto è per me molto importante.
Un altro modo di ingraziarsi la divinità era rappresentato dalle canefore, che in processione: (pompè) πομπή (da ricordare pompa e pompa magna), portavano nei canestri primizie e quanto serviva per il sacrificio, tradizione che continua in occasione di processioni religiose, soprattutto nei paesi che venerano la Madonna del Pollino, in cui le devote portano sul capo candele votive.



Un altro modo per propiziare la benevolenza della divinità fu espresso dalle dionisiache e dai baccanalia. Retaggio di questi culti fu, in Grecia, il conio di κμος: processione bacchica, bagordo, gozzoviglia, festa orgiastica, avvenimenti che furono tradotti nella cultura popolare del mio paese con l’espressione: fare cummedi’.
Oltre alle libagioni e ai voti, un altro elemento del culto degli dèi attiene al pregare e, quindi, alla preghiera. Per indicare prego, i latini coniarono il verbo deponente: precor precaris, avvalendosi di questa perifrasi: è ciò che faccio durante la gestazione e, in particolare, durante il travaglio, rappresentato da un passare con rischio di morte. Da precor furono dedotti: prece, impreco, depreco e, finanche, precario e precarietà della vita di chi sta per nascere. I greci coniarono almeno due verbi, di forma media, attinenti a pregare: (euchomai) εχομαι (durante la gestazione/per avere una buona gestazione, è ciò che faccio) e ράομαi, con lo stesso significato di εχομαι. I greci si avvalsero anche di (deomai tinòs ti) δέομαι τινός τι: prego, supplico qualcosa per qualcuno, che ha bisogno, e da δέομαι dedussero (deesis) δέησις δέησεως: supplica per chi versa nel bisogno. C’è da dire che oro oras, con il significato di parlo, peroro, difendo, imploro, supplico, è un dedotto di os oris: bocca, la cui perifrasi (di os oris) si può rendere: genera l’ho il legare, va a scorrere il mancare, per cui in chi ha parlato, perorato furono dedotti: oratore che pronuncia orazioni, mentre il legare che genera il mancare di os oris indusse a pensare alle orazioni/implorazioni per scongiurare morti o danni a causa del parto. Si può anche pensare che oro oras con il significato di: imploro, supplico sia stato dedotto da ράομαι: prego, invoco, auguro e dal deverbale: ρά: preghiera, supplica, voto.
Per i latini, la preghiera straziante, piena di pathos, era la supplica, fatta dal supplice, parole da collegare a πλέκω (intreccio), che i latini ricalcarono in plico (piego, nel mio dialetto: chi(i)k’), ad indicare la posizione prona dell’orante davanti alla divinità, per una situazione disperata.
A tutto questo c’erano da aggiungere i rituali, alcuni beneauguranti: il friggere come segno dell’unzione divina o i ripieni per la Pasqua come augurio di fecondità e di un raccolto abbondante.
Si ricorda che, per gli Ebrei, Πάσχα rimandava a transitus (in quanto attiene al periodo della gestazione e, quindi, al passaggio della nascita). Infatti, la perifrasi suona così: fa dal mancare generare il passare il legare. Questa stessa perifrasi fu interpretata dai Cristiani come: la nascita (Resurrezione) dopo la morte (il mancare del grembo), mentre per i pagani è la nascita (anche il tripudio della natura in primavera), dopo i passaggi dell’essere in divenire: il grembo ripieno.
Da ricordare, ancora, che tutte le farciture e la frutta, come mandorle e noci, richiamavano l’augurio della figliolanza.
Quanto detto sin qui, si sintetizza con religio religionis: timore degli dèi, onestà, lealtà, coscienza, scrupolo, sentimenti che albergano nel pius, per i greci: il (threscos) θρησκός e/o l’ε-σεβής (eusebés).
Il pio per i latini era colui che coltivava sentimenti di umanità e si faceva carico dei bisogni altrui; nella concezione del pastore è colui che lega chi versa nel bisogno estremo, come la mamma che si prende cura della creatura, che necessita di tutto, alimentandola fino a farla nascere. Per Virgilio pio fu Enea, che si caricò sulle spalle Anchise e i Penati. Per capire il significato di pio, bisogna dire che il pio prova pietà ed è pietoso, che il contrario di pio è empio, che indica, primariamente, colui che non è pio, poi: chi commette empietà contro la divinità. Dal pio si genera anche l’orrore per chi è spietato della cultura italica. Si può senz’altro asserire che pio è elemento connotativo di una civiltà, sebbene, oggi, abbia assunto, esclusivamente, il significato di colui che venera la divinità.
La religio esprime, tra l’altro, il sentimento di gratitudine alla divinità per quanto ha dato all’uomo e per quanto continuerà a dare, se si praticano i culti. La religio è, soprattutto, ciò che alimenta l’animo buono del pastore: avere timore per gli dèi, essere scrupoloso, per non essere causa di male, essere di coscienza, che è il sentimento di non dover far torto agli altri, anche in nome di una condivisione di un comune destino, spesso di sofferenza e di bisogno. Mutua tutti i sentimenti positivi dalle traversie che affronta la creatura per essere di grande sollievo per la sua esistenza. Oltre a quanto già detto, in altra occasione, su scripulum/scrupulum, c’è, in latino anche scrupus: sasso puntuto da cui scrupulus/scripulus: sassolino appuntito, dubbio angoscioso. L’assillo inquietante del pastore, che, con una sua decisione, potesse causare danno agli altri, venne anche rappresentato come una pietruzza nei calzari che martoria il viandante. Si ribadisce che lo scrupolo non è la cattiva coscienza per aver arrecato del male, ma il timore di causare grave nocumento agli altri, anche con decisioni in buona fede.




Oltre a quanto già detto, il grembo materno si identifica con il (naòs) ναός/tempio (da ricordare l’aggettivo nao-foro: ναο-φόρος, che è tempio, in quanto porta un essere sacro dentro di sé e, in italiano, è rimasto: πρό-ναος: pronao, come “porta” davanti al tempio); per i latini il grembo è tutt’uno con  fanum (si ricorda il legame particolare con profano e profanare, nel senso che, se la creatura è nel tempio/grembo, c’è stato l’amore profano e chi entra in quel tempio, durante la gestazione, profana il tempio stesso), che è da collegare alla radice (fan) φαν (nasce da dentro, mentre um è da rendere: il rimanere della creatura ), che è tutt’uno anche con templum, dove alberga la vita.
Il grembo è inviolabile, per i greci: συλος συλον: asilo/rifugio, la creatura è santa, beata, quella che per i greci è (makar makaros), μάκαρ μάκαρος, è pura, per i greci: (katharòs) καθαρός, è innocente, per i greci: (anantios) ν-αιτίος (da collegare al verbo medio aitiaomai: ατιάομαι: accuso, incolpo), è casta, per i greci: (agnos) γνός ecc.
La vita dell’uomo, nella cultura greca e latina, si concludeva con la morte. Pertanto, vi fu il culto dei morti, che fu espresso attraverso le mitizzazioni: Ade, Lete, Inferi, gli dèi Mani. Il Lete (come dimenticanza, ma anche come nascondimento) rappresentò il flusso del grembo, quello che porta a legare madre e figlio. Con Inferi i latini rappresentarono la vita intrauterina della creatura: da dentro il portare (in grembo), da cui infernus: sotterraneo, infernale. I mani (manes), invece, (poi, divenuti Dei Mani), rappresentarono il culto degli antenati, come entità benevole nei riguardi della famiglia. Si sottolinea che il culto dei mani fu dedotto dal verbo man-eo, che è un restare, oltre che nella memoria, soprattutto nel cuore dei propri familiari, che sentivano il bisogno di coltivarne, mediante rituali, il ricordo.
Prima di terminare queste considerazioni, voglio, per un attimo, soffermarmi sul fatalismo della nostra cultura, che si riscontra nell’accezione di “moira” dei greci, di “fato” dei latini, di destino degli italici, concezione della vita che fu elemento di identità culturale e che fu dedotta dai processi di formazione della vita, sempre uguali, ma, soprattutto, necessari ed immutabili, per cui ciò che sarà (il futuro) deve essere e non può non essere per come prestabilito.
Di fronte ad un futuro già scritto, i greci pensarono che bisognava assecondare gli eventi e coniarono πειξις: accondiscendenza, cedevolezza, i latini ritennero giusto armarsi della tranquillità d’animo, gli italici dissero che bisognava accettare gli eventi spiacevoli con pazienza (in dialetto: ci vo’ pacinzi’) e di rassegnazione (se il segno della gravida non compare, te ne fai una ragione!).
Per concludere, il sentimento religioso si nutre, si arricchisce e si sostanzia dell’accoglienza dell’ospite (metafora della creatura in grembo), che è colui che versa nel bisogno, identificandosi anche con lo straniero, di fare l’elemosina, la carità, di essere misericordioso, di saper perdonare, ma soprattutto dell’etica, dei “mores”, del dovere della cultura italica, parole che insegnano che il bisogno si vince con la fatica dura e incessante del pastore.
Pertanto, la religiosità anima e pervade la grandiosa civiltà agro-pastorale.