La
religiosità Per l’uomo, il superamento dello stato di natura fu determinato dalla
pastorizia, che fu manifestazione non solo di cultura, ma si trasformò in
lievito culturale. In questo stadio della storia dell’umanità, l’uomo comunicò
con simboli fonico-verbali e generò da sé l’idea di Dio. La creazione del
linguaggio verbale fu, sicuramente, espressione di crescita delle conoscenze, delle
qualità intellettive, della sensibilità dell’uomo. Il rapporto
con la divinità condizionò il modo di essere dell’uomo e, per tanta parte,
connotò il processo d’incivilimento. In particolare, si vuol dire che il senso
morale è legato strettamente al modo d’intendere la divinità. Anche in questo
senso, la pastorizia e l’agricoltura sono espressione di cultura e di civiltà. Il modo di
pensare e di sentire la divinità non può essere ridotto al significato
contenuto in una parola, ma a tanti elementi che sono l’essenza della civiltà e
del modo di essere di un popolo, del suo spirito religioso, che si innova, per
lo sviluppo del pensiero, per le conquiste della scienza, per gli apporti
filosofici, per il Vecchio e Nuovo Testamento. La parola,
però, definisce ed esprime, in modo essenziale, il concetto di colui o di ciò che
vuole identificare. Dal processo di riproduzione nasce l’idea di Dio, come Colui
che è causa della vita, dei suoi processi di formazione e che ha la capacità di
propiziarne gli accadimenti. Il pastore
sublima, per lo più, l’immagine di Dio, ma la assimila a sé (antropomorfismo). Egli si rese
conto che la creazione della vita non poteva essere virtù umana o degli altri
animali, ma rimandava a un dono: carisma/dono divino, di un Essere Superiore
o di Esseri Superiori. Nell’attitudine
al mito dei greci, si può spiegare il culto di varie divinità, cui si
attribuiva, spesso, la causa di una delle varie fasi della riproduzione animale
e vegetale.
Tutto quello
che avviene nel grembo è oggetto di attenta osservazione da parte del pastore. Per
attivare il processo di creazione e di riproduzione animale sono indispensabili
(theòs) θεόςθεοῦ e (theà)θεά. Θεός è: colui che, dal mancare (ος), genera
il crescere, per cui delle possibili interpretazioni potrebbero essere: l’inseminazione
(mancare) si trasforma in flusso gravidico (crescita) o anche: dalla
crescita del flusso spermaticoinizia il processo di formazione (che
è ciò che manca). In modo ancora più comprensibile si può rendere così: theòs
è colui che fa crescere ciò che mi manca o ciò di cui ho bisogno, che,
quindi, provvede alle mie necessità. Mentre θεάθεάςè colei, che, legando (nutrendo e dando forma
alla materia che è in divenire necessitato), trasforma quel crescere
disordinato e confusoin una creatura che, poi, viene al
mondo. Individuata la funzione essenziale di θεός, che è quello di essere Creatore: (o suntheis) ὁσυνθείςe/o demiurgo,
il pastore attribuisce a distinte divinità le capacità per presiedere alle fasi
e ai momenti del processo di creazione e anche l’elargizione di doni per
attivare quanto avviene nel cosmo. A capo di
tutti gli dèi fu preposto, nell’Olimpo greco, (Zeus Diòs) ΖεύςΔιός, e, in quello latino, Iuppiter Iovis, entrambi
molto prolifici e responsabili, nel cosmo, di mandare, tra l’altro, la pioggia
(in dialetto si dice: ha chiuppit: ha piovuto) per favorire lo
sviluppo della flora, nutrimento per la fauna. Incidentalmente, si ricorda che
la parola Ζεύς è la mitizzazione del significato più alto
attribuito a (zeugnumi) ζεύγνυμι: lego stretto,
congiungo, dόin matrimonio. Si ricorda,
ancora, che i latini dedussero da questo verbo iugum (in greco: ζυγόν), da cui, poi, iugerum. Inoltre, la
cultura greca generò il verbo ἀπο-θεόω, attribuendo
il seguente significato: divinizzo, metto fra gli dèi, da cui apoteosi,
che non solo indica divinizzazione, ma anche l’esaltazione di colui
che ha la capacità procreativa, in quanto, con il calco ωσιςωσεος, il pastore greco la definì: dal concetto di dio,
che si manifesta con la crescita che determina il legame tra madre e figlio
fino al parto (il mancare finale), per cui il trono di Dio è il grembo
materno, che è anche la metafora del mondo. Infatti, il Pantocratore, talvolta,
è raffigurato sul globo.
L’idea di
Dio, per i latini, non fu dissimile da quella dei greci. Molto probabilmente deus
rimanda a διὀς, genitivo irregolare di Ζεύς, che è colui che, dal legare (ad indicare e la
congiunzione e/o il periodo in cui prende forma e sostanza l’essere in
formazione), genera il mancare, che è ciò di cui l’uomo ha bisogno; la dea
è colei che, legando, genera (fa nascere quello che manca, l’indispensabile
per l’uomo). C’è da aggiungere che, se deus è ricollegabile al genitivo Διός, allora deus dei latini potrebbe indicare un potere proprio
di Zeus/ Iuppiter. Quindi, a
capo (archòs; ἀρχός: il capo), come prima causa (arché, in greco: ἀρχή) dei
processi di natura e, quindi, della vita,c’è la divinità, che, pertanto,
è generosa e munifica, in quanto ha la capacità di creare quanto all’uomo
serve. La traduzione di arché si può rendere così: durante la
gestazioneavviene la formazione dell’essere, da cui discende sia l’inizio
sia il primo Essere causativo. I greci,
inoltre, mitizzarono il flusso gravidico, che è la materia disordinata, confusa,
informe, immaginandola come (Chaos) Χάος (abisso,
spazio vuoto, immensità dell’aria), da tradurre: dal passare è ciò che manca
(nasce), che è la formazione del flusso gravidico. Da ciò che avviene nel grembo
(qui il flusso gravidico senza forma), dedussero il Chaos dell’Universo, come
fase antecedente la creazione (del mondo). I greci assegnarono
a διαβολήi seguenti significati: denigrazione, calunnia,
discordia, da cui fu elaborato il concetto di diavolo, che è
colui che denigra, calunnia, mette discordia. Per i greci,
un altro modo per indicare il creatore fu (daimon) δαίμων: potenza divina, volere divino, distributore di sorte
favorevole o avversa. La traduzione letterale di: δαίμωνdovrebbe
essere: dal generare il legare il rimanere, è ciò che si trova dentro l’andare
a mancare. Il perché di questo significato ambivalente non si riesce a spiegare.
Si sa, comunque, che la civiltà cristiana fece del demone un oppositore
di Dio. Si dovrebbe trattare di un lemma in cui potevano coesistere le
discordanti interpretazioni; d’altra parte, si deve aggiungere che da δαίμωνfu dedotto: εὐδαίμων: felice, fortunato, in quanto si
tratta del bambino, che, nascendo, realizza quanto ha desiderato: venire alla
luce, dopo essere rimasto legato e al buio. Greci e latini
non ebbero un dio del male, nel senso anche di un larvato manicheismo, ma furono
molto superstiziosi, in quanto credettero al potere dell’uomo di essere causa
di mali, guardando con invidia o persino con un’espressione di
compiacimento (ad esempio, dire di un bambino: quant’è bello!), per cui
si avvalsero di alcune espressioni magiche (come dire: benedica!) o del
fare ricorso a ciò che potesse deviare il malocchio, attraverso
particolari segni apotropaici (fallo, ferro, sale), per cui da:τροπή: rivolgimento, cambiamento, mutazione, fu dedotto: ἀπο-τροπή: deviazione, l’allontanare, lo stornare. Quindi, credettero
in persone capaci di fare i sortilegi, in greco βάσκανος: che guarda di malocchio, in latino fascinator, nel mio
territorio il magaro/la magara, ma anche capaci di dissolvere gli
incantesimi: in greco: τὸβασκάνιον: incantesimo contro i sortilegi, in latino: fascinatio,
nel Mezzogiorno: magaria.
Prima di passare
ad altri aspetti del culto religioso, mi voglio soffermare sul diritto divino e
sul diritto umano di greci e latini. I greci indicarono con δίκη: diritto, giustizia, mediante questa perifrasi: dall’andare
il mancare si genera il legare, che è l’omologo di ius iuris: va
dall’ho il mancare l’andare a scorrere il legare, ad indicare non solo il
concetto di lex, come restrizione per chi manca, ma soprattutto afferisce
alla condizione umana: lavorare (il legare) per sopperire al bisogno (al
mancare, inteso, inizialmente, come inseminazione). Ius, pertanto,
indica non solo l’insieme delle leggi umane, ma anche diritto (ad Aprigliano: ci
tengh’ u ius significa: è nel mio diritto), in quanto è sicuramente mio ciò
che ho seminato (il mancato) e ciò che è stato oggetto di fatiche (quello che
ho legato). Nel concetto di diritto divino compare la θdi θεός, per cui i greci coniarono l’aggettivo: ὅσιος: permesso
dalla legge divina, mediante questa perifrasi: il crescere di quello che
ho va a legare, da cui, poi, il sostantivo ὅσία (legge
divina).La stessa cosa dissero i latini, coniando fas (dal
nascere il crescere), da cui fasto e i fasti, per cui Foscolo: “Testimonianza
a’ fasti eran le tombe”. Ho fatto questa digressione per dare a qualche
studioso elementi per cogliere la vera differenza tra diritto divino e diritto
umano. Mi preme sottolineare che nel dialetto laconico σιόςcorrisponde a
θεός. A questo
punto, è opportuno soffermarsi sul culto e, quindi, sul sentimento religioso. I pastori
desiderano che iparti siano numerosi e che abbiano felice
esito per le gestanti e per i nati. Il parto anomaloaveva le sue
frequenze, per cui si potevano verificare tutti i casi che si possono
immaginare; da qui una serie di culti, che si manifestavano con libagioni,
voti, preghiere e sacrifici. La parola cultus, che attiene
a venerato e a coltivato, è sicuramente una parola omografa edè da collegare a una delle accezioni di colo colis, colui, cultum,
colere: venero, adoro, sacrifico a. Pertanto, il
culto, assimilabile a (therapeia theon) θεραπεία(θεῶν): rispetto,
ossequio dei greci, esprime l’insieme di riti per propiziarsi la
divinità, in particolare, durante le gravidanze. I latini coniarono voveo,
dando il significato di: prego una divinità, prometto come voto ad
una divinità per qualcosa che bramo ardentemente (ἐπιθυμία, epithumia,
per i greci), e dal supino dedussero votum: è ciò che faccio quando
il rimanere della creatura fa generare il crescere, in quanto la t è
da leggere θ. Poi, da voto, che è anche colui che ha
pregato una divinità, che ha fatto voto ad una divinità, furono dedotti: devoto
e devozione, per esempio a Giunone, mentre gli italici dedussero votare,
nel senso di scelgo, sono favorevole a. Quindi, nell’ambito di
questo contesto, i latini coniarono anche il verbo deponente: suffragor:
favorisco con il mio voto, do il voto, dedotto dal desiderio dell’esito
positivo dell’evento nascita e suffragium, omologo di (psefos) ψῆφος: pietruzza, sassolino per votare,
dando il significato di: voto, suffragio, assenso.
Il modo di
ingraziarsi la divinità avveniva con sacrifici, talvoltacruenti(di animali). I greci con (thuo) θύω: sacrifico,
probabilmente, indicarono l’intento di propiziarsi la divinità, al primo
comparire dell’abbozzo del grembo. Questo verbo si può rendere così: è ciò che
faccio quando c’è la crescita del flusso gravidico, prodromica al legame
nel grembo con la madre, per il cui esito positivo immolavano vittime agli dèi.
La vittima dei latini (in greco: θυσία) è da
collegare a (thuma thumatos) θῦμαθῦματος: sacrificio, per cui da sacrificio
dedussero uikθῦμα/vikthuma (vittima),
che veniva immolata, parola (immolata) da collegare a (mule) μύλη: mole, macigno, macina. Hostia è un sinonimo
di vittima (hos si può tradurre: genera il passare il crescere
della creatura, quando si genera il protendersi) e, verosimilmente, indica
quella offerta in contraccambio della creatura che deve nascere. Pertanto, il
sacrificio è la forma più importante di offerta votiva, per ottenere
quell’essere sacro e inviolabile che è nel grembo. I latini, infatti, usarono sacrificium,
dedotto dall’aggettivo sacer, che è qualità propria del grembo, in
quanto sacro e inviolabile, per indicare θῦμαθῦματος. Per coniare sacro si avvalsero di questa perifrasi: è ciò che
nasce dal generare il legare dallo scorrere il passare, che, in questo caso,
indica il processo di formazione dell’essere. Da sacer fu dedotto sacerdos,
che è colui che è preposto alle cose/funzioni sacre. Nella lingua italiana sacrificio
passò a significare anche: rinuncia a qualcosa di necessario per
realizzare quanto è per me molto importante. Un altro modo
di ingraziarsi la divinità era rappresentato dalle canefore, che in
processione: (pompè) πομπή(da ricordare
pompa e pompa magna), portavano nei canestri primizie e
quanto serviva per il sacrificio, tradizione che continua in occasione di
processioni religiose, soprattutto nei paesi che venerano la Madonna del
Pollino, in cui le devote portano sul capo candele votive.
Un altro modo
per propiziare la benevolenza della divinità fu espresso dalle dionisiache e
dai baccanalia. Retaggio di questi culti fu, in Grecia, il conio di κῶμος: processione bacchica, bagordo, gozzoviglia,
festa orgiastica, avvenimenti che furono tradotti nella cultura popolare
del mio paese con l’espressione: fare cummedi’. Oltre alle
libagioni e ai voti, un altro elemento del culto degli dèi attiene al
pregare e, quindi, alla preghiera. Per indicare prego, i
latini coniarono il verbo deponente: precor precaris, avvalendosi di
questa perifrasi: è ciò che faccio durante la gestazione e, in
particolare, durante il travaglio, rappresentato da un passare con
rischio di morte. Da precor furono dedotti: prece, impreco,
depreco e, finanche, precario e precarietà della vita di
chi sta per nascere. I greci coniarono almeno due verbi, di forma media, attinenti
a pregare: (euchomai)εὔχομαι (durante la gestazione/per avere una buona
gestazione, è ciò che faccio) e ἀράομαi, con lo stesso significato di εὔχομαι. I greci si avvalsero anche di (deomai tinòs ti) δέομαιτινόςτι: prego,
supplico qualcosa per qualcuno, che ha bisogno, e da δέομαι dedussero (deesis) δέησιςδέησεως: supplica per chi versa nel bisogno. C’è da dire che oro oras,con il significato di parlo, peroro, difendo, imploro,
supplico, è un dedotto di os oris: bocca, la cui perifrasi
(di os oris) si può rendere: genera l’ho il legare, va a scorrere il mancare,
per cui in chi ha parlato, perorato furono dedotti: oratore che
pronuncia orazioni, mentre il legare che genera il mancare di os
oris indusse a pensare alle orazioni/implorazioni per
scongiurare morti o danni a causa del parto. Si può anche pensare che oro
oras con il significato di: imploro, supplico sia stato
dedotto da ἀράομαι: prego, invoco, auguro e dal deverbale: ἀρά: preghiera,
supplica, voto. Per i latini,
la preghiera straziante, piena di pathos, era la supplica, fatta
dal supplice, parole da collegare a πλέκω (intreccio),
che i latini ricalcarono in plico (piego, nel mio dialetto: chi(i)k’),
ad indicare la posizione prona dell’orante davanti alla divinità, per una situazione
disperata. A tutto
questo c’erano da aggiungere i rituali, alcuni beneauguranti: il friggere come
segno dell’unzione divina o i ripieni per la Pasqua come augurio di
fecondità e di un raccolto abbondante. Si ricorda
che, per gli Ebrei, Πάσχαrimandava a transitus
(in quanto attiene al periodo della gestazione e, quindi, al passaggio della nascita).
Infatti, la perifrasi suona così: fa dal mancare generare il passare il
legare. Questa stessa perifrasi fu interpretata dai Cristiani come: la
nascita (Resurrezione) dopo la morte (il mancare del grembo), mentre
per i pagani è la nascita (anche il tripudio della natura in primavera),
dopo i passaggi dell’essere in divenire: il grembo ripieno. Da ricordare,
ancora, che tutte le farciture e la frutta, come mandorle e noci, richiamavano l’augurio
della figliolanza. Quanto detto
sin qui, si sintetizza con religio religionis: timore degli dèi,
onestà, lealtà, coscienza, scrupolo, sentimenti che albergano
nel pius, per i greci: il (threscos) θρησκός e/o l’εὐ-σεβής(eusebés). Il pio per i latiniera colui che coltivava sentimenti di umanità e si faceva carico dei
bisogni altrui; nella concezione del pastore è colui che lega chi versa nel
bisogno estremo, come la mamma che si prende cura della creatura, che
necessita di tutto, alimentandola fino a farla nascere. Per Virgilio pio fu
Enea, che si caricò sulle spalle Anchise e i Penati. Per capire il significato
di pio, bisogna dire che il pio prova pietà ed è pietoso,
che il contrario di pio è empio, che indica, primariamente, colui che non
è pio, poi: chi commette empietà contro la divinità. Dal pio si
genera anche l’orrore per chi è spietato della cultura italica. Si può
senz’altro asserire che pio è elemento connotativo di una civiltà, sebbene,
oggi, abbia assunto, esclusivamente, il significato di colui che venera la
divinità. La religio
esprime, tra l’altro, il sentimento di gratitudine alla divinità per quanto
ha dato all’uomo e per quanto continuerà a dare, se si praticano i culti. La religio
è, soprattutto, ciò che alimenta l’animo buono del pastore: avere timore
per gli dèi, essere scrupoloso, per non essere causa di male, essere di
coscienza, che è il sentimento di non dover far torto agli altri, anche in nome
di una condivisione di un comune destino, spesso di sofferenza e di bisogno.
Mutua tutti i sentimenti positivi dalle traversie che affronta la creatura per
essere di grande sollievo per la sua esistenza. Oltre a quanto già detto, in
altra occasione, su scripulum/scrupulum, c’è, in latino anche scrupus:
sasso puntuto da cui scrupulus/scripulus: sassolino appuntito,
dubbio angoscioso. L’assillo inquietante del pastore, che, con una sua
decisione, potesse causare danno agli altri, venne anche rappresentato come una
pietruzza nei calzari che martoria il viandante. Si ribadisce che lo scrupolo
non è la cattiva coscienza per aver arrecato del male, ma il timore di causare
grave nocumento agli altri, anche con decisioni in buona fede.
Oltre a
quanto già detto, il grembo materno si identifica con il (naòs) ναός/tempio (da ricordare l’aggettivo nao-foro: ναο-φόρος, che è tempio, in quanto porta un essere
sacro dentro di sé e, in italiano, è rimasto: πρό-ναος: pronao, come “porta” davanti al
tempio); per i latini il grembo è tutt’uno con fanum (si ricorda il legame particolare
con profano eprofanare, nel senso che, se la creatura è
nel tempio/grembo, c’è stato l’amore profano e chi entra in quel tempio,
durante la gestazione, profana il tempio stesso), che è da collegare alla
radice (fan) φαν(nasce da dentro, mentre um è da
rendere: il rimanere della creatura ), che è tutt’uno anche con templum,
dove alberga la vita. Il grembo è
inviolabile, per i greci: ἄσυλοςἄσυλον: asilo/rifugio, la creatura è santa, beata, quella
che per i greci è (makar makaros), μάκαρμάκαρος, è pura, per i greci: (katharòs) καθαρός, è innocente, per i greci: (anantios) ἀν-αιτίος(da collegare
al verbo medio aitiaomai: αἰτιάομαι: accuso, incolpo), è casta,
per i greci: (agnos) ἀγνός ecc. La vita
dell’uomo, nella cultura greca e latina, si concludeva con la morte. Pertanto,
vi fu il culto dei morti, che fu espresso attraverso le mitizzazioni: Ade,
Lete, Inferi, gli dèi Mani. Il Lete (come dimenticanza,
ma anche come nascondimento) rappresentò il flusso del grembo, quello
che porta a legare madre e figlio. Con Inferi ilatini rappresentarono
la vita intrauterina della creatura: da dentro il portare (in grembo),
da cui infernus: sotterraneo, infernale. I mani (manes),
invece, (poi, divenuti Dei Mani), rappresentarono il culto degli
antenati, come entità benevole nei riguardi della famiglia. Si sottolinea che
il culto dei mani fu dedotto dal verbo man-eo, che è un restare,
oltre che nella memoria, soprattutto nel cuore dei propri familiari, che sentivano
il bisogno di coltivarne, mediante rituali, il ricordo. Prima di terminare
queste considerazioni, voglio, per un attimo, soffermarmi sul fatalismo della nostra
cultura, che si riscontra nell’accezione di “moira” dei greci, di “fato”
dei latini, di destino degli italici, concezione della vita che fu
elemento di identità culturale e che fu dedotta dai processi di formazione
della vita, sempre uguali, ma, soprattutto, necessari ed immutabili, per cui
ciò che sarà (il futuro) deve essere e non può non essere per come prestabilito. Di fronte ad
un futuro già scritto, i greci pensarono che bisognava assecondare gli eventi e
coniarono ὕπειξις: accondiscendenza, cedevolezza, i latini ritennero giusto
armarsi della tranquillità d’animo, gli italici dissero che bisognava accettare
gli eventi spiacevoli con pazienza (in dialetto: ci vo’ pacinzi’)
e di rassegnazione (se il segno della gravida non compare, te ne fai una
ragione!). Per
concludere, il sentimento religioso si nutre, si arricchisce e si sostanzia dell’accoglienza
dell’ospite (metafora della creatura in grembo), che è colui che versa
nel bisogno, identificandosi anche con lo straniero, di fare l’elemosina,
la carità, di essere misericordioso, di saper perdonare, ma
soprattutto dell’etica, dei “mores”, del dovere della
cultura italica, parole che insegnano che il bisogno si vince con la
fatica dura e incessante del pastore. Pertanto, la
religiosità anima e pervade la grandiosa civiltà agro-pastorale.