L'aereo arriva nella notte e con lui l'ansia e la
paura di vedersi negato l'accesso in Israele solo perché si è costretti a
mentire. La dogana rappresenta una barriera per la verità. Qui non c'è posto
per una neutralità che non cerca le cause del conflitto ma che cerca di
convivere con le conseguenze. Per ottenere un visto turistico non si può dire
di recarsi nei territori occupati. Il lavoro di mistificazione della realtà
comincia all'interno, ma per sostenere una menzogna così a lungo bisogna far sì
che tutti gli ingranaggi siano al posto giusto, dall'ultimo impiegato di Tel
Aviv alla giovane soldatessa che mi ritrovo davanti; capelli chiari, dai
lineamenti forti, stivali neri e uniforme verde, dall'aspetto non penseresti
mai che possa imbracciare un fucile, ma qui se la guerra è psicologica la
tensione la respiri per davvero. Anche se sai di non fare nulla di male ti
fanno sentire in difetto sperando che crolli, proteggendo il castello di carta.
Ogni cosa può essere usata contro di te per poterti trattenere, maltrattare ed
espellere dal paese. È per questo che bisogna eliminare ogni traccia nei social,
nell'email, nei documenti del telefono che possa dar appiglio ad
interminabili interrogatori. L'ansia di aver dimenticato qualcosa non la puoi eliminare,
partendo di fatto in svantaggio, come se quello sbagliato fossi tu.
La
mia destinazione è At-Tuwani un piccolo villaggio a sud delle colline di Hebron
nelle valli che si estendono dal mar morto fino alla Giordania. Qui ormai da 20
anni gli abitanti si sono organizzati per contrastare l'espansione
dell'avamposto di Havat Ma’on, illegale non solo per il diritto internazionale
ma anche per la legge israeliana. Da quando i coloni Israeliani sono arrivati
qui hanno di fatto occupato una strada che collegava due villaggi e negli anni
hanno continuato ad edificare. La scelta della nonviolenza degli abitanti dei
villaggi palestinesi li ha portati a non accettare più i soprusi degli
invasori, ma di rispondere attivamente richiamando alla mente i satyagraha dell'india di Gandhi. E come
nella fisica dove ad ogni azione corrisponde una reazione, qui, nelle valli
palestinesi, la reazione è fatta anche da donne e bambini che scardinano la
logica maschilista della supremazia e riportano il confronto sulla terra. Spesso
però anche i soggetti più fragili sono presi di mira ed è qui che un passaporto
italiano può essere un privilegio e può essere un vantaggio per potersi
frapporre tra vittime e aggressori, utilizzato come mezzo di denuncia per far
arrivare la verità al di là del muro di omertà costruito da Israele.
Arrivato
nel villaggio riconosco con grande sorpresa diversi ragazzi, una volta bambini,
ormai uomini in una terra che ti fa crescere velocemente. Negli anni ho sempre
provato una certa inquietudine per le sorti di queste persone, che nonostante i
loro sforzi sono costrette a vivere in un perenne clima di tensione. A primo
impatto nulla sembra essere cambiato dall'ultima volta che sono stato qui nel
2012 e questo in parte mi dà serenità. Solo ora vedendoli realizzo che non era
scontato che li avrei ritrovati qui. Ed è stato proprio quel loro remare contro
corrente che gli ha permesso di rimanere immobili. Tra
i tanti ragazzi ritrovo Alì, un giovane palestinese che al tempo accompagnavamo
nel tragitto dal suo villaggio alla scuola nel villaggio vicino, percorso che
più volte è stato preso di mira dai coloni ferendo i bambini inerti che avevano
come unica colpa di essere nati da famiglie non ebree. Dopo avermi riconosciuto
Alì mi invita per la cena e a passare la notte da loro. In questo periodo il
loro villaggio è stato preso di mira e le famiglie si sentono più sicure con
degli internazionali. In un attacco recente una donna americana è stata colpita
alla testa con un bastone da un colono, riportando una ferita che ha avuto
bisogno di punti e di accertamenti medici. La cittadinanza non ti dà la
certezza di non essere aggredito, ma le pressioni del consolato americano hanno
portato all'arresto di due coloni, un evento raro per questa terra, dove coloni
ed esercito giocano un ruolo di squadra.
Ali
è robusto e non molto alto, ha delle sopracciglia sottili e zigomi pronunciati
che danno al suo ampio viso un tocco di femminilità. Indossa una kefiah a
ribadire il suo legame con questa terra. Le sue radici sono qui, anche se i
terreni dei suoi genitori sono stati occupati. Lungo il tragitto in macchina
per arrivare a casa sua si fermerà davanti a degli alberi piantati dalla sua
famiglia e ad un piccolo terreno recintato. Scendiamo dalla macchina ed il
momento acquisisce una certa sacralità, il sole splende alto nel cielo e
l'unico rumore che si percepisce è il soffiare incessante del vento. Ali è lì
fermo in piedi che scruta quella terra, ottenuta di nuovo da suo padre a
seguito di una causa giudiziaria nei confronti di Israele. È solo un centesimo
di ciò che gli apparteneva, ma la fissa intensamente come fosse la cosa più
importante che ci sia, più della sua vita. La resilienza di questi ragazzi mi
lascia sperare in un futuro differente. La notte ci ritroviamo a giocare a
carte davanti a un bicchiere di tè. Da qualche anno nel villaggio è arrivata
l'elettricità. Siamo abituati a pensare ad una casa come un edificio costruito
dall'uomo, qui però gli abitanti si sono adattati all'ambiente. Senza alcun
tipo di recinto a delimitare le proprietà alcune famiglie vivono ancora in
delle caverne. La casa è una grande stanza unica, il soffitto è scurito
dall'umidità e ai margini si possono notare tutte le scorte. Sdraiati su dei
materassi, gli stessi che si usano per poter mangiare da seduti e poter dormire
la notte, Alì mi chiede se ha senso mettere al mondo un figlio sapendo già che
dovrà soffrire. Questa è una domanda che non ci si aspetta in un posto dove le
famiglie sono molto numerose e dove la prima cosa che ti domandano è se sei
sposato e quanti figli hai. Prima ancora di sapere da dove vieni. Senza mai
chiederti che cosa fai. Come se la famiglia fosse già tutto, indissolubile
dall'uomo. Nonostante ciò, Ali a 25 anni ha deciso di mettere la causa
palestinese davanti a tutto.
Il
giorno seguente andiamo in accompagnamento di Mahmud al pascolo, un uomo sulla
sessantina, dal viso scavato e consumato dalla vita di villaggio. Mentre siamo
sulle colline, timidamente verdi dopo le piogge dell'inverno, più volte i
coloni e l'esercito arrivano a spingerci sempre più in basso nelle valli
prendendo di fatto il controllo del territorio. I pascoli si incrociano nei
terreni palestinesi ma chi ha la meglio sono sempre i coloni che imbracciando
fucili e pistole minacciano i pastori. Ogni volta che l'esercito interviene è
sempre a discapito dei palestinesi. Le telecamere di un internazionale presente
sul posto cercano di disincentivare la violenza, anche se spesso gli aggressori
sembrano non curarsi degli occhi puntati addosso e anzi diventiamo bersaglio
dei loro attacchi. La scarsità di risorse della terra sembrerebbe un problema
comune con l'eccezione che i palestinesi sopravvivono grazie alla terra, mentre
i coloni Israeliani la utilizzano come mezzo per poter annettere nuovo
territorio in barba ad ogni trattato internazionale. Proprio quando la tensione
sembra aumentare arrivano dalle colline alcuni bambini e donne che portano il
pranzo. Mentre i soldati continuano ad intimare di lasciare la terra, i
palestinesi apparecchiano nei campi. I bambini continuano ad andare su e giù
per la collina cercando dei piccoli legnetti per poter accendere il fuoco e
preparare il tè. Tutto sotto gli occhi dei tre soldati poco più che ventenni,
mandati a combattere una guerra basata sul pregiudizio. Forse non sanno neanche
loro perché sono lì, ma la logica militare conosce solo ordini da eseguire. I
bambini di questa famiglia non vanno a scuola ma lavorano già in tenera età. In
queste condizioni di vita non si può sprecare nessuna risorsa. I nuovi giovani
si sentiranno sempre più legati alla terra non vivendo nel mito dell'occidente,
ma forse è proprio questo che ci spaventa, come lo controlli un popolo che vive
in delle caverne e che decide di non omologarsi.
Qui
le persone si svegliano ogni giorno sapendo di dover combattere per la loro
esistenza nella più totale indifferenza della diplomazia internazionale che
sostiene uno stato di repressione. Contrariamente al conflitto ucraino qui non
si parla mai di aggressore e di aggredito. Non esistono sanzioni. È considerata
politica interna su cui coscientemente non si vuole intervenire. Netanyahu è
stato in Italia la scorsa settimana per incontrare il premier italiano. Il
ministro degli esteri Tajani è a Tel Aviv in questi giorni. L'esportazione della
democrazia a domicilio che di frequente ci arroghiamo di portare nel mondo qui
non funziona. È una democrazia selettiva e guarda alle logiche del potere e
agli interessi economici. I palestinesi non hanno nulla da offrire, se non
insegnarci a resistete nonostante tutte le avversità.