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domenica 30 aprile 2023
ATTRAVERSO I BALCANI: DA SARAJEVO A GRAMSH
di
Pierpaolo Calonaci
Un
viaggio nella geografia politica della subalternità.
Bruce
Chatwin usò icasticamente la tensione generata dall’irrequietezza per
descrivere il movimento che l’anima compie verso la ricerca intangibile del
viaggiare e del conoscere ciò che è altro da sé. Ne fece appunto un’“anatomia dell’irrequietezza”.
In queste righe desidero riprendere l’immagine per farne lente di anatomia
politica della subalternità e del dominio dove certe aree geografiche (es. i Balcani,
Gerusalemme, la Palestina, la Siria, l’America Latina tutta ecc.) ne portano e
ne porteranno i segni indelebili. Segni che nei Balcani si manifestano nell’architettura,
nell’ordine urbano, nelle case, nelle relazioni sociali come matrice
antropologica, nell’organizzazione degli spazi sociali e dei suoi bisogni ma in
particolare si rifletterono,nel nome della pulizia etnica, sul corpo dei bambini
bosniaci che furono letteralmente massacrati dai cecchini serbo-croati (e dal lassez-faire dell’Europa e degli Usa) affinché
il loro corpo immolato servisse in futuro a ricordare che il modello culturale
e politico di Tito era da cancellare. D’ora in poi subalternità con le sue
briciole di felicità corrotta.
Ogni
viaggio, questo in particolare dato che si dipana lungo la storia drammatica
dei Balcani, porta con sé un profondo, incosciente o meno, senso di disgusto o
di rifiuto degli spazi angusti in cui una certa geografia politica, e la
normalizzazione politica che la governa, ci vorrebbe rinchiudere per farci
arrendere all’ “è così”. A ciò si accompagna un senso di “inattualità” del
viaggiare in una dimensione temporale che non sia dettata dai ritmi produttivi
(sta qui la differenza col turismo); che riducono il viaggio ad una fuga
velleitaria da un determinismo sociale, speculare, metaforicamente, alla
protervia del domandare ad una rosa il perché del suo fiorire. Poiché un
viaggio è il pensiero che si esercita attraverso una lente che reagisce contro
il presentare i fenomeni sociali disponendoli a tal guisa che la “posizione del
problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è
legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere
perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti
storici”. (A. Gramsci, Quaderni del
carcere, a cura dell’Istituto Gramsci, Torino, Einaudi, 1975, Q. 11, § 15,
p. 1403). Il pacifismo è irretito in questo modello analitico-meccanicista dei
fenomeni sociali e ciò lo rende molto spesso incapace di analisi fondate,
maldestro nel formulare quesiti e dubbi e quindi impreparato a formulare una “qualità
delle domande” (Paolucci) da porre alle istituzioni legittimanti l’egemonia
culturale e politica della guerra, depotenziando soprattutto l’affermazione per
cui l’obbedienza non è più una virtù.
Attraversato
il confine croato-bosniaco entriamo nella pianura verde che scorre lungo la Neretva:
frutti e ortaggi (che nella tradizione culinaria orientale la fanno da padrone)
fanno ovunque capolino sulle bancarelle che riempiono il lato stradale, siamo
in settembre e il sole è caldo. La moto punta verso le montagne ad Est da cui i
Balcani sono caratterizzati; gli erti profili mi conducono al ricordo di Sebrenica
nella quale andai nel 2005… da quelle montagne calò sulle vite dei suoi
abitanti la morte per mano dell’esercito serbo-croato grazie anche
all’ipocritica tattica della “non-intromissione” che i Caschi blu olandesi, a
cui la popolazione di Srebrenica fu affidata per essere protetta, misero in
atto con colpevole acribia. Ci fermiamo nel piccolo paese di Pocitelj a pochi
chilometri dall’ingresso in Bosnia. Come altrove vi fu pulizia etnica che il
silenzio, la storia, la cultura islamica che nella piccola moschea trovano il
proprio fulcro non possono che aumentarne il ricordo della sofferenza a cui la
Bosnia è stata immolata. Perché il popolo bosniaco a maggioranza islamica avrebbe
dovuto dimostrare che per essere accettato nel consesso occidentale, speculare
all’etica religiosa che lo caratterizza, fosse all’altezza del diktat del sacrificio che quell’etica
impone (medesimo leitmotiv per
l’Ucraina, vedi le parole di Stoltenberg). C’erano delle donne, contadine, dallo
sguardo dimesso, che all’ingresso del paese vendevano succhi di frutta del loro
raccolto, ovviamente c’era quello al melograno, segno per antonomasia direi,
della floridezza della cultura islamica. Alcune vendevano i propri manufatti di
cotone. Stavano tutte in meticoloso silenzio. Ricordo che un vero e proprio
contrasto con il lento scorrere della Neretva sopraffaceva il cuore laddove la
memoria della sofferenza innocentemente versata pulsava forte d’indignazione:
si può riparare nella filosofia, quale incunabolo immanentista nel grande libro
della storia, per non perdere la bussola della ragione quando, come durante
quel sentimento di rabbia che provammo, si intuisce che l’armonia della natura stessa
diventa una ghigliottina sotto cui aspetta senza vita la vita.
La struttura delle relazioni sociali che immediatamente dopo la morte di Tito furono fatte ruotare attorno al perno del terrore e dell’odio (a cui la paura della cecità derivata dallo scontro fra la religione cristiana e quella islamica aggiungeva la dirimenza dell’idea del “noi siamo nella verità”) riflettevano gli effetti di una manipolazione e una propaganda degli Stati interessati che per decenni smantellò l’ideale multiculturale che sotto Tito si compì affinché giungesse il tempo della guerra fratricida, “della guerra di tutti contro tutti” come i Bosniaci sogliono chiamarla. Pocitelj possedeva un silenzio di parole mute che aspettano riposte ai perché di quanto successo lì e altrove (di cui l’immenso e valoroso lavoro del Tribunale internazionale per i crimini in ex-Jugoslava ha dato risposte giuridiche e penali senza peraltro scardinare nulla delle cause della guerra). Un silenzio davanti all’umano bisogno, che lì è stato tranciato recisamente, di realizzare praticamente le categorie che della vita ne dovrebbero essere solide fondamenta (coscienza, azione, lotta, elevazione spirituale, solidarietà). Un silenzio segno dello sradicamento dell’egemonia totalitarista della guerra. È lo sradicamento della vita da sé stessa, direbbe Simone Weil, che si ripiega e si cristallizza. È la sventura che, differentemente dalla riflessione weiliana su questa parola, niente ha a che fare col destino o col fato ma è una variabile dipendente della riproduzione del dominio. Credo che oggi vivano a Pocitelj in pochissimi poiché la maggior parte delle case, tutte rifatte, sono state acquistate da alcune catene di turismo per farne altrettante residenze per coloro - noi borghesi occidentali - che allora, cioè dal profilarsi della concreta possibilità della guerra, preferimmo voltare la faccia (d’altronde Ponzio Pilato è il tipo di uomo occidentale).
Il sangue, il
dolore, le cicatrici si “cancellano” con il profitto: considero concreta
l’affermazione per cui turismo equivale a terrorismo giacché esso si serve di
un sistema di significati e significanti che dissimulano lo sviluppo in senso
alle leggi economiche neoliberiste dietro il denominatore comune di civiltà. Il
risultato è ovvio per chi vuol vedere: Pocitelj è stato rianimato svuotandosi di
vita reale. Nell’architettura delle case è entrato l’uso della malta che esse
non conoscevano; i tetti con le travi in legno e le molte finestre (caratteristica
tipicamente turca) sono stati comunque rispettati. La moschea è visitabile e i
segni del suo bombardamento sono stati sistemati per assicurane stabilità e
consentirne di svolgere la funzione sociale. Il senso genuino, popolare, quando
è rispettato, della fede, quando cioè non è mistificato col fine di rendere
passiva la vita (il senso oppiaceo che Marx denunciò), risorge sotto qualsiasi
condizione.
Proseguiamo
per Mostar, distante appena 30 chilometri; percorso che si dipana lungo gole e
montagne dove l’acqua scorre blu intensa. La guerra nei Balcani si è potuta
svolgere sostanzialmente senza nessun inciampo (fino ad un certo punto) da
parte della Serbia che non ne voleva l’indipendenza sfruttando al meglio
l’orografia appunto. Se storicamente da un lato questa caratteristica ha fatto
sempre percepire all’Occidente che i Balcani ne fossero separati e in certo
senso antagonisti (o peggio nemici) quale luogo foriero solo di spine al fianco
degli interessi colonialisti degli imperi di allora (e degli Stati di adesso
pur con forme, parole e istanze assai diverse), dall’altro quella li ha
preservati e tutt’oggi non sono stati ancora ingoiati dall’industrialismo del
Grande Fratello (si pensi che in Albania non vi è alcun McDonald’s… ma solo
lì…).
Laddove quindi la Serbia, che tutt’ora non ha abbandonato la sua idea di essere anacronisticamente la garante dell’unità slava che la Russia fino al 1989 ha garantito (guardare alla querelle in atto contro il Kosovo), non è riuscita a ricondurre all’ovile culturale la Bosnia, ci sono riusciti la UE e gli Usa, imponendole quell’identità culturale, di segno economicista, tanto estranea alla sua storia quanto però efficace sul piano del consenso internazionale e della subalternità tramite una data idea di “pace” che non è altro il dover riconoscere l’egemonia di stati forti sulla proprie istanze di autonomia politica. Per inciso, la dirimente differenza tra “l’indipendenza” della Bosnia rispetto al percorso di Slovenia e Croazia risiede nel fatto che queste due entità possiedono una prossimità culturale nonché vera e propria affinità religiosa verso i confinanti Stati europei (senza insinuare che il loro percorso verso l’indipendenza non sia stato a spese di sangue e sofferenze); prossimità che la Bosnia non ha mai avuto. Essa è stata considerata la pecora nera. Perché la guerra di Bosnia, di cui Sarajevo, che racconterò nel prosieguo del racconto, ne è stato l’emblema insieme a Srebrenica (senza dimenticare le altre città ovviamente), è stata una guerra soprattutto e anche religiosa.
FERMATE L’OLTRAGGIO!
Piombino, partono i test sul corpo vivo della
città.
Partono
i test. Sul corpo vivo di una città, Piombino, e del prezioso territorio
circostante. Nottetempo, fra giovedì 4 e venerdì 5 maggio, è annunciato l'arrivo
della prima metaniera, ad affiancare la nave rigassificatrice Golar Tundra, già
temerariamente ormeggiata dal 19 marzo nel porto turistico che serve l'Elba,
l'arcipelago toscano, la Corsica e la Sardegna. La metaniera avrà in pancia circa
170.000 metri cubi di gas liquefatto: metano compresso 600 volte, portato a una
temperatura intorno a -162° Celsius. Proviene dal democraticissimo Egitto. Sarà
scaricato in due fasi per i test sulla nave rigassificatrice: "I test - leggiamo - dureranno
una ventina di giorni e serviranno per testare gli impianti per la
rigassificazione e i sistemi di bordo. Dopo aver effettuato la prima operazione
di scarico, che durerà circa 48 ore, la metaniera sarà disormeggiata e lascerà
il porto di Piombino, poi tornerà dopo una decina di giorni per scaricare il
rimanente gas che servirà a completare i test di performance. Il
rigassificatore dovrebbe essere pronto per avviare la fase commerciale nella
seconda metà di maggio".
Mercoledì
3 maggio mattina, a partire dalle 9.30, data di convocazione del Consiglio
regionale della Toscana, Idra sarà
ancora una volta davanti al portone del Palazzo del Pegaso, in Via Cavour 2-4. Ad
aspettare che il presidente della Giunta Eugenio Giani osservi gli impegni
ripetutamente presi, e mai onorati, di incontro con la delegazione nazionale
autrice della memoria tecnica depositata da Idra
per Pec in conferenza di servizi il 17 ottobre 2022. A proporre alla Giunta di ritirare
il consenso all'avallo della scelta del commissario Giani, tuttora presidente
della Giunta, di esporre la popolazione di Piombino, dell'isola d'Elba e della
costa tirrenica fra San Vincenzo e Follonica a una prova certa di angoscia a
fronte del ragionevolissimo timore di danni, più o meno gravi, temuti sul piano
della sicurezza, oltre che su quello economico ed ecologico, per le
caratteristiche delle operazioni in programma all'interno dell'insediamento
industriale collocato nel porto, quando ancora risulta incompiuta l'analisi
della documentazione presentata al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio,
e irriverentemente contro la volontà espressa da ampi strati della cittadinanza
e dall'intera Amministrazione comunale. A proporre al Consiglio regionale un
risveglio di consapevolezza del grave vulnus che produrrebbe l'attivazione
delle procedure di test alla credibilità delle istituzioni che si fregiano del
titolo di rappresentanze democratiche, depositarie di un potere del popolo qui
manifestamente conculcato. A sottolineare l'esecrabile parentela che lega
l'atto di forza improvvidamente programmato con la politica di sostegno alla
perpetuazione di fatto dei massacri nell'Europa orientale attraverso la
fornitura di armamenti a flusso continuo, in assenza di iniziative efficaci di intermediazione,
interposizione e pacificazione. Si attende intanto l’esito della petizione
presentata sulla vicenda a gennaio al Parlamento europeo.
Associazione
di volontariato Idra
sabato 29 aprile 2023
LA GUERRA PARTIGIANA IN VALLE CAMONICA
di
Marco Vitale
Si
è svolto a Sellero, il 21 aprile scorso, un incontro promosso da Ecomuseo della
Resistenza, Federazione Volontari per la Libertà, Associazione Fiamme Verdi, A.N.P.I
Sezione di Valsaviore e Alta Valle Camonica, Comune di Sellero. Proponiamo ai
nostri lettori la prolusione tenuta da Marco Vitale.
“È
questa unità d’intenti, di propositi, di azione che fu propria della Resistenza
che noi vogliamo celebrare in questo nostro incontro. Ho detto celebrare e non
commemorare. Il nostro incontro non è una commemorazione. Le commemorazioni
interessano i morti, le cose morte, e noi invece vogliamo esaltare qualcosa che
in noi è vivo e deve essere vivo nell’Italia di oggi. E vivi sono nei nostri
cuori e nel loro insegnamento i compagni che hanno affermato col supremo
sacrificio la loro fede”.
(Lionello
Levi Sandri. Discorso tenuto il 22 settembre 1984 al Convegno dei candidati
partigiani)
La
guerra partigiana bresciana è stata assai importante, illustrata da personaggi
di valore, ben documentata da studi storici seri ed affidabili. Nel suo ambito
le vicende della Val Camonica e dei suoi protagonisti occupano un ruolo di
primo piano. Basti pensare al feroce assalto fascista del 3 luglio 1944 a Cevo
(Valsaviore), che lasciò ottocento abitanti su mille senza tetto. O pensare
all’eroica Corteno dove, secondo i fascisti, anche i muli sono partigiani e
dove opera il gruppo di Antonio Schivardi 34 anni, insegnante “primo tra i
primi in ogni combattimento, in ogni audacia”, come reca la motivazione della
medaglia d’oro al valore militare decretata alla memoria. O ricordare che nel
settembre 1944 Pontedilegno fu liberata dai partigiani e venne amministrata,
con il metodo democratico, dopo aver allontanato il podestà fascista. E lo
stesso avvenne in altri comuni dell’Alta Val Camonica, come Vezza d’Oglio, Vione,
Corteno e altre località e comuni dove operava la 54° Brigata Garibaldi come in
Valsaviore, Cimbergo, Paspardo. E penso soprattutto alle due battaglie del
Mortirolo, la prima del 22 febbraio 1944 e la seconda che inizia il 10 aprile
1945. Le battaglie del Mortirolo furono gli unici scontri campali della
Resistenza. Sul passo del Mortirolo le Fiamme Verdi avevano creato una
postazione stabile, ben protetta e ben guidata da Lionello Levi Sandri,
capitano e combattente coraggioso, ma anche finissimo giurista. Ebreo per parte
di padre, per lunghi anni apprezzato ed amato professore al Liceo Arnaldo,
espulso dalla scuola a causa delle leggi antiebraiche. Il Distretto Culturale
di Valle Camonica ha dedicato un saggio importante alla famiglia Levi Sandri in
un bel libro intitolato “Storie di ebrei in Val Camonica tra fughe e
Resistenza” (Compagnia della Stampa, 2016). Io avrò occasione di collaborare
con Lionello Levi Sandri, presidente del Consiglio di Stato nel corso degli
anni ’80.
Fu
grazie alla guerra partigiana che la medaglia d’argento al valore militare che
decora il gonfalone del Comune di Brescia poté essere motivata con queste
parole: ‘Nella lotta di liberazione la Città di Brescia prodigava con generosa
larghezza il sangue dei suoi figli migliori e con il fiero e tenace contegno
degli abitanti della città e della provincia sosteneva validamente la
resistenza contro l’invasore. Memorabili e duri gli scontri combattuti nelle
valli, e mirabili tra tutti quelli del passo del Mortirolo e quelli delle valli
Trompia e Sabbia. Nei giorni della insurrezione generale, liberatasi con
fulminea azione dall’occupazione nemica, la popolazione bresciana osava
chiudere le sue strade alle colonne tedesche in ritirata e con sanguinosi
combattimenti causava gravi danni al nemico e provocava la cattura di migliaia
di prigionieri’.
Le
cifre della Resistenza bresciana sono queste:
3
medaglie d’oro al valore militare
26
medaglie d’argento al valore militare
21
medaglie di bronzo al valore militare
19
croci di guerra
I
caduti nelle formazioni partigiane e nei campi di concentramento furono 1312.
E
dietro a queste crude cifre ci sono tante storie umanamente e intellettualmente
coinvolgenti, in gran parte testimoniate dalle lettere di commiato dei
condannati a morte, come Astolfo Lunardi (53 anni) condannato insieme a Ermanno
Margheriti (24 anni) e fucilati insieme, come padre e figlio. Come Luigi Ercoli
di Bienno, 26 anni, uno dei primi organizzatori del movimento partigiano in Val
Camonica. Fu sottoposto a durissime torture e poi inviato ad un campo di
concentramento vicino a Mauthausen dove muore il 15 gennaio 1945. La sua ultima
lettera inviata dal carcere bresciano a un amico è tra le più drammatiche e
forti della Resistenza bresciana. In essa descrive dettagliatamente le torture
subite e definisce gli obiettivi di tante sofferenze con queste parole: “Ora
mi scorrono le lacrime. Le prime da che sono qua. Piango e non so il perché.
Forse è l’essere qua inattivo per quella libertà. Ma se Iddio ci guarda dovrà
pur concordare che Dio, Patria, Famiglia, devono essere accompagnate da Fede, Libertà
e Pace, sei cose che noi vogliamo ed avremo. Costi quello che costi”.
E
poi a Brescia ci sono i carcerati nella cella dei “politici”, la cella 101,
dove su una parete qualcuno ha scritto: “Quando nel mondo l’ingiustizia impera,
la patria degli onesti è la galera”. Qui sono passati in tanti, tra i quali
Luigi Ercoli del quale ho già detto. Edoardo Ziletti, nelle sue memorie dal carcere,
così descrive gli ospiti della cella 101 di quell’amarissimo autunno 1944:
“E
rivedo anche te, amico Boni, disteso sulla branda, inseguire teoremi di fisica
e proposizioni filosofiche, in attesa paziente di tempi più umani; e il
tumultuoso Vitale e il pacifico Lorandi e l’allegro Marconi e il flemmatico
Leonardi, la bella compagnia cui è venuto ad aggiungersi il giovane Botticelli
coi segni delle percosse sul viso… E Don Vender? L’avete visto guizzare, in
pantaloni e maniche di camicia, per i corridoi, da un usciolo all’altro a
portare cibo, biglietti, parole di incoraggiamento e di conforto? Se lo
beccavano, chi l’avrebbe salvato? Non ho mai visto un uomo così pieno di fede e
di coraggio come lui, allora”.
In
realtà quello che Don Vender faceva anche in carcere, e cioè assistere gli
antifascisti e i partigiani arrestati, era quello che molti facevano fuori dal
carcere, senza pensare che, secondo le ordinanze dei tedeschi, queste attività
erano passibili di pena di morte. Il periodo dal 25 luglio 1943 (caduta del
fascismo) e dall’8 settembre 1943 (armistizio del governo Badoglio con gli
Angloamericani con immediata occupazione tedesca dell’Italia del Nord), sino al
25 aprile 1945, fu un periodo tumultuoso, intenso e doloroso. In ogni città e
valle del Nord si andò organizzando la Resistenza partigiana per la liberazione
dell’Italia dai tedeschi e dai fascisti della repubblica sociale di Salò. Mio padre,
liberale crociano e antifascista da sempre, collaborò nell’organizzazione della
Resistenza partigiana nel bresciano e riceverà una croce di guerra per questa
attività. Fu anche lui carcerato a Brescia con Boni e Vender, ma non fu
processato perché durante il grande bombardamento del 13 luglio 1944 riuscì,
con altri, a fuggire. Noi eravamo rifugiati in una casetta che mio padre, con
grande lungimiranza, aveva acquistato ed attrezzato sino dal 1938.
Con
queste radici e in questa atmosfera familiare potete, forse, capire come anche
un ragazzo tra gli 8 e 10 anni potesse essere molto consapevole e partecipe
della situazione. Io porto la apparentemente strana testimonianza che, in quegli
anni, anche un ragazzo tra gli 8 e 10 anni poteva capire perfettamente cosa
stesse succedendo e sentirsi partecipe degli eventi. Ma quelli erano anni in
cui si cresceva in fretta. In quei due anni incontrai, al seguito di mio padre,
parecchi antifascisti militanti e parecchi partigiani. La nostra casetta era
molto isolata e si trovava ai piedi delle montagne che segnano il passaggio dalla
Franciacorta alla Val Camonica. Da lì partivano i sentieri di montagna che da
un lato salivano a Polaveno e si connettevano con la Val Trompia e dall’altro
quelli che si connettevano con la Val Camonica e con la Svizzera. La
maggioranza dei combattenti che si fermavano a casa nostra erano in transito ma
c’erano anche dei partigiani stanziali insieme ai quali ascoltavamo i messaggi
di Radio Londra. Era affascinante per me stare con i grandi che mi chiamavano “bocia”
e ascoltare insieme a loro i messaggi criptati che erano di grande importanza
per gli aviolanci. “La scuola è cominciata” voleva dire: siamo pronti al
lancio; “il vulcano si è spento”, non abbiamo potuto lanciare; “andate in cerca
di funghi”, scenderanno dei paracadutisti.
Ma il messaggio che non ho mai dimenticato per la gioia che esso suscitò
nei grandi fu il messaggio: “Attenzione! Per Alberico le foglie spuntano”
voleva dire che gli anglo-americani si erano convinti a lanciare materiale
utile sul Mortirolo, dove le Fiamme Verdi si erano radicate. E ricordo, a
contrario, il senso di demoralizzazione e di tristezza quando, nell’autunno
1944, giunse il proclama indirizzato dagli Alleati ai combattenti della
Resistenza che diceva: “Patrioti, la campagna estiva è finita ed ha inizio
la campagna invernale. Il sopravvenire della pioggia e del fango
inevitabilmente significa un rallentamento del ritmo della battaglia. Quindi le
istruzioni sono come segue:
cesserete
per il momento operazioni organizzate su vasta scala;
conserverete
le vostre munizioni e vi terrete pronti per nuovi ordini;
ascolterete
il più possibile il programma “Italia combatte” trasmesso da questo Quartier
Generale, in modo da essere al corrente di nuovi ordini e cambiamenti di
situazione”.
Teresio Olivelli
Il
messaggio fu inteso come un ordine di smobilitazione. E comunque gli aviolanci
furono sospesi. Ma nessuno realmente smobilitò ed anzi qualcuno incominciò a
pensare alla ricostruzione, come Teresio Olivelli. Il 12 gennaio 1945 muore nel
campo di lavori forzati di Hersbruck Teresio Olivelli, medaglia d’oro della
Resistenza e che era entrato a far parte della resistenza a Brescia pur non
essendo bresciano e che tra la fine del 1943 e i primi mesi del 1944 svolse tra
Milano e Brescia un’attività prodigiosa, prima di essere arrestato il 27 aprile
1944. È lui l’autore della Preghiera del Ribelle, la più bella composizione
poetica della Resistenza. È lui, insieme al compagno Sertori, entrambi membri del
Collegio Universitario Ghislieri di Pavia, del quali Olivelli fu giovanissimo
rettore, il principale progettatore e animatore della rivista Il Ribelle, la
più importante rivista della Resistenza, il cui primo numero uscì a Brescia nel
marzo 1944. Se ne stamparono 15 mila copie e fu distribuito oltre che a
Brescia, a Pavia, Cremona, Bergamo, Val Camonica, Val Sabbia, Lago d’Orta.
Nel
corso del 1944 si andò organizzando il movimento delle Fiamme Verdi, certamente
la più originale formazione partigiana bresciana, nata una notte di dicembre
del 1943 a Brescia, in casa Piotti, via Aleardi 11 e che avrà il comando operativo
e il quartiere generale in Cividate Camuno nella canonica di Don Carlo Comensoli
un prete coraggioso. Il regolamento
delle Fiamme Verdi è molto chiaro ed evidenzia le caratteristiche del
movimento:
“Le
Fiamme Verdi continuano la gloriosa tradizione dei battaglioni alpini italiani
che non hanno conosciuto sconfitta. Le Fiamme Verdi appartengono al Corpo
Volontari della Libertà e fanno parte, come unità guerrigliera, dell’Esercito
italiano di Liberazione. Essere una Fiamma Verde è un onore e un impegno
totale. La Fiamma Verde rispetta la proprietà altrui, lenisce la miseria,
denuncia ai superiori l’ingiustizia e disciplinatamente, se gli sia comandato,
la punisce”.
C’è
anche il giuramento da fare, la mano sul Vangelo:
“Giuro
di combattere finché i tedeschi e fascisti non siano cacciati definitivamente
dal suolo della Patria, finché l’Italia non abbia unità, libertà, dignità.
Giuro di non far tregua coi vili, i rinnegati, le spie; di mantenere il segreto
e di non venire mai meno alla disciplina. Qualora venissi meno al mio
giuramento, invoco su di me la vendetta dei fratelli italiani e la giustizia di
Dio”.
Le
Fiamme Verdi sono un movimento di chiara ed esplicita ispirazione cattolica, ma
non si identificano con nessun partito come è chiaramente confermato nel
messaggio di congedo che il Generale Masini, comandante delle Fiamme Verdi,
invierà il 28 aprile 1945:
“La
grande ora è venuta. Le bandiere della libertà sono ora tutte spiegate al
vento. Dai monti e dalle valli sono scese alle città le nostre belle divisioni.
Si sono aperte la strada combattendo e le loro verdi fiamme hanno annunciato al
popolo l’ora della liberazione. Ed è anche venuto il momento per noi
conclusivo, quello che noi abbiamo voluto come unica meta, quello oltre il
quale ognuno riprende la sua strada. Il nostro compito di soldati è terminato.
Comincia domani il compito di ciascuno come cittadino, secondo le aspirazioni e
le tendenze politiche che lo indirizzano. Una sola cosa abbiamo da rivendicare:
la volontà di mantenere all’Italia la libertà che i patrioti le hanno
riconsacrato col sangue e l’amore per questa nostra Patria sfortunata ed eroica”.
28
aprile 1945
Il
Generale Masini
Comandante
le Fiamme Verdi
Piero Calamandrei
Un
giorno, ricordando Don Vender, il prete dell’argine, già cappellano militare delle
Fiamme Verdi, Mino Martinazzoli concluse dicendo: “La lezione di questi
uomini, di questi preti, certamente ha prodotto un seme che non può esser
diventato infecondo. Il problema vero che abbiamo è quello di essere dei buoni
cittadini, capaci per questo, di approntare una buona terra che lo riscaldi e
torni a farlo fiorire”. Le nostre generazioni (intendo quella di
Martinazzoli e la mia) hanno avuto grandi maestri. Ma non siamo stati bravi
allievi. Ne abbiamo fatto mediocre uso. Per questo la Resistenza non finisce il
25 aprile 1945, ma deve riprendere e continuare in difesa della Libertà (non
solo nostra) e della nostra Costituzione che sono il frutto migliore di quella
stagione, ma che sono ora in forte pericolo e si stanno sgretolando. L’unica
cosa seria che possiamo fare è di trasmettere, con grande umiltà, ai giovani
gli insegnamenti e gli esempi che noi abbiamo ricevuto. Così, con Luciano
Costa, possiamo trasmettere un bellissimo insegnamento di Don Vender: “Animo, Animo”.
E insieme quello che un altro grande maestro, Piero Calamandrei, indirizzò ai
giovani, in occasione di un altro 25 aprile: “Se voi volete andare in
pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle
montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei
campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la
libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la
nostra Costituzione”.
Piero Calamandrei |
PER ALFIO PANNEGA
Alfio Pannega
Per il XIII anniversario della scomparsa.
Viterbo. Il 30 aprile
ricorre l’anniversario della scomparsa di Alfio Pannega, che ci ha lasciato nel
2010 ma il cui ricordo è ancora luminosamente vivo in chi lo ha conosciuto e
gli è stato amico e compagno di lotte contro la guerra e il fascismo, contro il
razzismo e l'oppressione di classe, per i diritti umani di tutti gli esseri
umani, in difesa dell'intero mondo vivente, nella solidarietà e nella
condivisione di tutto il bene e tutti i beni. Perché Alfio era un militante
antifascista e nonviolento, antirazzista ed internazionalista, comunista e
libertario. E se Alfio fosse vivo oggi sarebbe sulle barricate contro la
guerra che fa strage di innumerevoli esseri umani inermi e innocenti e minaccia
di distruzione l’umanità intera. Se Alfio fosse vivo oggi sarebbe sulle barricate
contro il razzismo dei governi europei che fa strage di innocenti nel Mediterraneo.
Se Alfio
fosse vivo oggi sarebbe sulle barricate contro il fascismo che è tornato al
governo del nostro sventurato paese.
Ma Alfio è
vivo se noi ne proseguiamo la lotta. Siamo noi che dobbiamo fare oggi
quello che Alfio, il nostro compagno antifascista e nonviolento Alfio, il
nostro compagno antirazzista ed internazionalista Alfio, il nostro compagno
comunista e libertario Alfio, farebbe senza esitazione se fosse qui con noi.
Oppresse e
oppressi di tutti i paesi, unitevi.
Soccorrere,
accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Opporsi a
tutte le guerre, a tutti gli eserciti, a tutte le armi.
Salvare le
vite è il primo dovere.
Chi salva
una vita salva il mondo.
Centro di
ricerca per la pace, i diritti umani
e la difesa della biosfera di Viterbo
NOTE MILANESI
Gandhi |
C’è frase
una frase di Gandhi che così recita: “Sii il cambiamento che vorresti
al di fuori di te”. Frase scelta dall’Amsa, l’Azienda municipale addetta
alla raccolta dei rifiuti urbani, che l’aveva fatta stampigliare sui contenitori
di raccolta per piccoli volumi, posizionati sulle strade, di cui alcuni
esemplari si trovano, ancora, in un viale vicino a Porta Romana. Personalmente
non ne sono scandalizzato. Certo, ben altra è la finalità della frase, in
origine. Ma ha comunque, così come utilizzata, davanti a una deriva dell’educazione,
del rispetto reciproco per il nostro vivere comune, la giudico positiva. Recentemente
ho saputo di un’altra iniziativa, stavolta si tratta di un gruppo privato di
cui non so nulla, che ha creato una linea di abbigliamento in cotone naturale
per promuovere e finanziare la diffusione del concetto di “nonviolenza” presso
i minori. C’è un sito di un negozio virtuale dal nome suggestivo: Gatto
Stizzito (www.gattostizzito.com/shop) ma altri riferimenti sicuramente si
troveranno all’interno dello stesso. Interessante è la spiegazione del logo,
ripreso da un loro volantino che mi è capitato tra le mani: “(...) Esso è un
gatto stizzito, ed è risaputo che il gatto prima di attaccare assume una
posizione con la schiena inarcata, questo vuol essere il nostro insegnamento.
Possiamo arrivare ad inarcare la schiena, dopodiché, sfogata la fisiologica
aggressività, è utile tornare nella nostra umana condizione di individui
interessati al bene comune. Al bene della nostra società (spero quella di
tutti, nda) e di ogni individuo che la compone)”. Questo capita a Milano,
piccole cose, in un contesto mondiale di possibile guerra nucleare. Sentiamo dirigenti
di Stato, in generale, (con le stellette) che parlano di “vittoria” dimenticando
la sicura morte dei propri cittadini, per i quali si vuole “vincere”!
Giuseppe Bruzzone
giovedì 27 aprile 2023
NON BANALIZZIAMO
IL “PIANO MATTEI”
di Franco
Astengo
La presidente
del governo in carica ha più volte richiamato la necessità di varare un
"Piano Mattei" rivolto ai paesi africani per agevolare la possibilità
dell'Italia di fronteggiare il fabbisogno energetico in forme diverse rispetto
a quanto avvenuto nel corso degli ultimi anni: la guerra in corso dopo
l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia ha accelerato questo tipo di
esigenza. Per non banalizzare il richiamo al presidente dell'ENI e
oltrepassare anche il riferimento alla sua tragica fine sarebbe il caso di
richiamare - sia pure in forme schematica - all'interno di quale quadro
economico - politico Mattei avesse agito: anche in questo caso oltrepassando il
rituale scenario dello scontro con le "Sette Sorelle" cui si fa
normalmente riferimento in questi casi di richiamo più o meno storico.
Allora cerchiamo di andare per
ordine:
1) Alla vigilia
della seconda guerra mondiale l'Italia era classificata al settimo posto al
mondo per il valore aggiunto della produzione manifatturiera calcolata in
dollari correnti e pari a 1.798.000.000- il 2,7% del totale - alle spalle e a
enorme distanza di USA, Germania, URSS, Inghilterra ma anche, in misura minore
a Giappone e Francia;
2) Nel 1937 i
punti di debolezza dell'Italia si misuravano nel numero degli addetti all'industria
e negli HP di potenza installata; nei limiti dell'organizzazione aziendale
mentre il livello della tecnologia non era molto distante da quello dei 6 paesi
citati (in particolare nella produzione di energia elettrica, in quella di
fibre tessili artificiali, in alcuni settori della chimica e della meccanica);
3) Al termine
della seconda guerra mondiale il sistema economico nazionale si configurava
come poco più di un ammasso informe di giacimenti minerari, di aree agricole,
di impianti industriali, di reti di trasporto, di comunicazione, di
distribuzione. Il patrimonio industriale aveva subito danni ragguardevoli
dov'era meno consistente, nell'area centromeridionale: quivi tuttavia erano
ubicati i più grandi stabilimenti del settore siderurgico ed alcuni del settore
chimico;
4) Posto 100
l'indice del 1938 la produzione manifatturiera era precipitata al 29,1 e quella
agricola al 67.3. Per la ricostruzione furono decisivi due fattori: lo schieramento
dalla parte degli USA (con l'accettazione del Piano Marshall) e l'intervento
pubblico in economia, prima di tutto per la ricostruzione della rete
infrastrutturale.
In questo quadro la
disoccupazione fu una scelta strategica. Le conseguenze furono il rallentamento
della ripresa industriale, la riduzione dei salari, il blocco della domanda
interna. La cosa che evidenzia il carattere di classe di questa scelta riguarda
il fatto che accanto alla stretta creditizia, come misura complementare per ridurre
la spesa pubblica e quindi tenere a freno il finanziamento monetario del
deficit, vi fu il drastico aumento del prezzo del pane e dei prezzi
amministrati. Il pane era ancora uno di quei beni che rimaneva
razionato. La politica liberista del governo aveva dunque fatto pagare
costi salatissimi sia al proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato
del Mezzogiorno.
Agli elevati profitti stavano di fronte salari bassi e
pesantissime condizioni di lavoro: condizioni miserrime per milioni di persone
cui si accompagnava una fortissima emigrazione verso i Paesi europei (pensiamo
allo scambio carbone /manodopera con il Belgio e la trasmigrazione di interi
paesi del Sud in Germania o in Svizzera), le Americhe e l’Australia.
La ricostruzione poteva considerarsi ultimata nel 1954, quando la
produzione industriale aveva superato ormai dell’81% la produzione del 1938, ma
le condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare
soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta
grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle
esportazioni.
Toccò all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia
sul terreno dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella
siderurgia, nella chimica e nell’industria petrolifera, con la vicenda legata
all’ENI di Mattei fino alla sua misteriosa scomparsa.
Ma se aumentò complessivamente la produttività e con essa i
profitti, i salari rimasero comunque indietro e scarsi furono i progressi dell’occupazione:
nel 1955 risultavano ancora ben 2.161.000 disoccupati.
In una fase di sviluppo caratterizzata da alti profitti e da bassi
salari, il padronato portò avanti una dura politica di attacco ai sindacati.
5) Nell'ottobre 1955 da più parti si tentò di compilare un bilancio
di quella fase: fu annunciato lo "schema Vanoni" per lo sviluppo del
reddito e dell'occupazione, fu organizzato il Primo Convegno degli Amici del
Mondo dedicato alla "lotta contro i monopoli" e Palmiro Togliatti in
un saggio dedicato alla scomparsa di Alcide De Gasperi (pubblicato da Rinascita
in due parti) usò per la prima volta la categoria di "restaurazione
capitalistica" che poi ebbe una considerevole fortuna;
6) Il caso più importante e clamoroso nel quadro di questo processo di
restaurazione capitalistica fu quello dell'Eni di Enrico Mattei. L'Eni sorse
nel 1953 dopo la mancata liquidazione dell'Agip, come holding che riuniva varie
società statali del settore energetico con un fondo di dotazione di 30 miliardi
e con "il compito di promuovere, anche con partecipazione diretta,
iniziative riguardanti tutti i settori collegati al petrolio e al gas naturale
in Italia e all'estero, con il diritto esclusivo di ricerca e di sfruttamento
del metano nella Valle Padana. La sua crescita fu rapidissima e prorompente.
Gli investimenti aumentarono del 700 per cento tra il 1954 e il 1962. L'impegno
della holding si estese ad alcuni settori collaterali (raffinazione oli
minerali, produzione gomma sintetica, fertilizzanti) con una politica molto
aggressiva sul mercato. Mattei si era mosso cercando di procurarsi petrolio
greggio direttamente dagli stati produttori, oltrepassando le multinazionali
(le famose "Seven Sisters") al punto da arrivare ad un accordo con
l'Iran (1957) basato su di un rapporto del 25% alla sua società e al 75% allo
stato iraniano. Caduto il primo ministro Mossadeq che aveva accettato
quell'accordo (mentre le già ricordate multinazionali pretendevano il 50%)
Mattei fu violentemente attaccato fino ad arrivare al misterioso incidente che
ne provocò la morte nel 1962. Mattei rappresentò, in sostanza, un punto di
riferimento fondamentale in quel discorso di restaurazione e modernizzazione
capitalistica di cui stiamo accennando.
7) Un tentativo effettivamente volto a riformare quel quadro fu
tentato con la nascita del primo governo organico di centro-sinistra
attraverso un progetto di attuazione del concetto di programmazione economica
tentato dal ministro socialista Antonio Giolitti. La novità del
Piano Giolitti, rispetto a precedenti documenti, risiedeva nel tentativo di
giungere al momento della definizione delle decisioni di riforma o di
investimento che dovevano incidere non nel medio periodo ma nell’immediato.
I rapporti con il sistema delle imprese venivano
affrontati sulla base di una premessa molto chiaramente formulata: “Il problema
di programmazione si compie in un’economia mista, nella quale coesistono centri
di decisione pubblici e privati, ciascuno dei quali è dotato di una propria sfera
di autonomia. Il programma non investe ovviamente la sfera di autonomia dei
vari centri se non nella misura in cui coordinamenti e vincoli si rivelano
necessari per la realizzazione delle sue finalità.
E. Mattei
Il Piano Giolitti continuava
facendo notare la scarsa esperienza del Ministero delle Partecipazioni Statali
di orientare i programmi delle maggiori imprese pubbliche; si proponeva quindi,
la revisione della struttura organizzativa delle imprese a partecipazione
Statale, sulla base di grandi gruppi integrati come l’Iri e l’Eni, e inoltre veniva
proposto il rafforzamento del controllo del Governo sulle imprese a
partecipazione dello Stato.
Anche il Ministro Giolitti,
nella relazione che illustrava il suo Piano, parlava di Mezzogiorno; egli
concentrava la maggior parte delle risorse dello Stato, per garantire la
massima industrializzazione nelle aree maggiormente suscettibili di sviluppo.
La maggior parte degli investimenti arrivavano al Sud del paese, attraverso
progetti finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno.
I
comunisti discussero della linea del centro sinistra rispetto alla
programmazione economica in un convegno rimasto celebre e svolto nel marzo 1962
presso l’Istituto Gramsci.
La compattezza della cultura marxista
cominciava ad incrinarsi, interrogata da correnti di pensiero che non vi
avevano mai avuto cittadinanza (l’esistenzialismo, i francofortesi, la
psicoanalisi). In questo contesto era maturata l’esigenza di una rinnovata
riflessione sui principi teorici, le strategie politiche, le strutture
organizzative e gli stessi referenti sociali su cui il Pci aveva fondato il
proprio radicamento nel primo quindicennio repubblicano. Di tale esigenza fu
espressione il convegno del Gramsci, segnato da un memorabile scontro tra
Giorgio Amendola da una parte e Bruno Trentin, Vittorio Foa e Lucio Magri
dall’altra.
mercoledì 26 aprile 2023
NATO… MALE
di Luigi Mazzella
“Si
ode a destra
uno squillo di tromba
a sinistra risponde uno squillo”
I partiti
favorevoli alla politica della NATO, all’accettazione dell’egemonia in essa
degli Stati uniti, alla guerra a Russia, Cina (e chi più ne ha più ne metta fino
a comprendere il mondo intero) coprono, in Italia, la totalità degli
schieramenti politici. Neppure gli ex democristiani, di dichiarata fede
cattolica, seguono più il pacifismo del Papa e si accodano, invece, alla Curia
romana e all’interesse dello IOR di finanziare l’industria delle
armi. Solo il Movimento Cinque Stelle mostra un certo distacco dal coro
dei “guerrieri”, limitando, però, la presa di distanza al solo invio delle armi
a Zelenski, e confermando implicitamente. sul piano ideologico, la
preferenza dei neo nazisti Azov rispetto a
quelli Wagner. Giuseppe Conte sa bene che c’è un forte e crescente
astensionismo dal voto che, unito a un dissenso non manifestato per fedeltà di
partito, potrebbe anche significare che la stragrande maggioranza
degli Italiani non condivide l’ansia della pulzella della
Garbatella e del suo accigliato Ministro della Difesa, Guido Crosetto, né di
dare missili al capo ucraino né di fare il solletico alla Cina, inviando la
portaerei Morosini nel mare che lambisce Taiwan, definendolo “Mediterraneo
allargato” e quindi in buona sostanza “mare nostrum” (come faceva il suo Vate
politico). Il leader succeduto a Beppe Grillo (nel disinteresse sempre più
palese di quest’ultimo per l’attività politica) ha lanciato l’idea di
promuovere un referendum per sapere se veramente gli Italiani accettano l’idea
di vedere nuovamente il loro Paese devastato dai missili, probabilmente, questa
volta, a testata nucleare. È bastata questa proposta per scatenare la
reazione risentita di Stefano Bonaccini, neo Presidente del Partito
Democratico. Egli è intervenuto in sostanziale sostegno del governo di Giorgia
Meloni, proclamando enfaticamente che “la politica estera non si fa con i referendum”,
ma, si deve arguire, "con le spie, con i diplomatici di carriera
(entusiasti e nostalgici dell’era di Di Maio) e i generali (agli ordini di
Crosetto)". A che serve, avrebbe fatto intendere il poco bonario
Bonaccini, interrogare il popolo… se la risposta è tanto scontata per gli
Italiani (“non vogliamo subire distruzioni per effetto di missili russi o
cinesi”) quanto inutile per il governo in carica (che come Don Abbondio
non può darsi il coraggio che non ha, anche perché i bravi di Joe Biden
hanno taciuto che il “loro Don Rodrigo” comincia ad apparire inadeguato al suo
“ruolo di comando” agli stessi americani che vogliono sostituirlo). Intanto nel
sonno soporoso dei cittadini, nell’assordante silenzio del sistema
mass-mediatico al completo, nella inconcludenza verbale e scritta degli
intellettuali appartenenti alla stessa area culturale dei “fratelli coltelli”
fascisti e comunisti (miscuglio di religiosità monoteistica e di idealismo
teutonico) potrebbe succedere qualcosa e gli scongiuri, con tutto il
rispetto per la Signora Presidente, diverrebbero obbligatori. La pulzella
della Garbatella potrebbe anche essere indotta a pensare (a causa delle
reminiscenze a lei più care) che starebbe per scoccare “sul quadrante
della Storia” l’ora del destino dell’Italia ma gli abitanti dello Stivale
hanno appreso, a loro spese, quanto quell’orologio sia infido e
pericoloso!