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domenica 30 aprile 2023

ATTRAVERSO I BALCANI: DA SARAJEVO A GRAMSH
di Pierpaolo Calonaci


Un viaggio nella geografia politica della subalternità.
 
Bruce Chatwin usò icasticamente la tensione generata dall’irrequietezza per descrivere il movimento che l’anima compie verso la ricerca intangibile del viaggiare e del conoscere ciò che è altro da sé. Ne fece appunto un’“anatomia dell’irrequietezza”. In queste righe desidero riprendere l’immagine per farne lente di anatomia politica della subalternità e del dominio dove certe aree geografiche (es. i Balcani, Gerusalemme, la Palestina, la Siria, l’America Latina tutta ecc.) ne portano e ne porteranno i segni indelebili. Segni che nei Balcani si manifestano nell’architettura, nell’ordine urbano, nelle case, nelle relazioni sociali come matrice antropologica, nell’organizzazione degli spazi sociali e dei suoi bisogni ma in particolare si rifletterono,nel nome della pulizia etnica, sul corpo dei bambini bosniaci che furono letteralmente massacrati dai cecchini serbo-croati (e dal lassez-faire dell’Europa e degli Usa) affinché il loro corpo immolato servisse in futuro a ricordare che il modello culturale e politico di Tito era da cancellare. D’ora in poi subalternità con le sue briciole di felicità corrotta.
Ogni viaggio, questo in particolare dato che si dipana lungo la storia drammatica dei Balcani, porta con sé un profondo, incosciente o meno, senso di disgusto o di rifiuto degli spazi angusti in cui una certa geografia politica, e la normalizzazione politica che la governa, ci vorrebbe rinchiudere per farci arrendere all’ “è così”. A ciò si accompagna un senso di “inattualità” del viaggiare in una dimensione temporale che non sia dettata dai ritmi produttivi (sta qui la differenza col turismo); che riducono il viaggio ad una fuga velleitaria da un determinismo sociale, speculare, metaforicamente, alla protervia del domandare ad una rosa il perché del suo fiorire. Poiché un viaggio è il pensiero che si esercita attraverso una lente che reagisce contro il presentare i fenomeni sociali disponendoli a tal guisa che la “posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici”. (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura dell’Istituto Gramsci, Torino, Einaudi, 1975, Q. 11, § 15, p. 1403). Il pacifismo è irretito in questo modello analitico-meccanicista dei fenomeni sociali e ciò lo rende molto spesso incapace di analisi fondate, maldestro nel formulare quesiti e dubbi e quindi impreparato a formulare una “qualità delle domande” (Paolucci) da porre alle istituzioni legittimanti l’egemonia culturale e politica della guerra, depotenziando soprattutto l’affermazione per cui l’obbedienza non è più una virtù.



Attraversato il confine croato-bosniaco entriamo nella pianura verde che scorre lungo la Neretva: frutti e ortaggi (che nella tradizione culinaria orientale la fanno da padrone) fanno ovunque capolino sulle bancarelle che riempiono il lato stradale, siamo in settembre e il sole è caldo. La moto punta verso le montagne ad Est da cui i Balcani sono caratterizzati; gli erti profili mi conducono al ricordo di Sebrenica nella quale andai nel 2005… da quelle montagne calò sulle vite dei suoi abitanti la morte per mano dell’esercito serbo-croato grazie anche all’ipocritica tattica della “non-intromissione” che i Caschi blu olandesi, a cui la popolazione di Srebrenica fu affidata per essere protetta, misero in atto con colpevole acribia. Ci fermiamo nel piccolo paese di Pocitelj a pochi chilometri dall’ingresso in Bosnia. Come altrove vi fu pulizia etnica che il silenzio, la storia, la cultura islamica che nella piccola moschea trovano il proprio fulcro non possono che aumentarne il ricordo della sofferenza a cui la Bosnia è stata immolata. Perché il popolo bosniaco a maggioranza islamica avrebbe dovuto dimostrare che per essere accettato nel consesso occidentale, speculare all’etica religiosa che lo caratterizza, fosse all’altezza del diktat del sacrificio che quell’etica impone (medesimo leitmotiv per l’Ucraina, vedi le parole di Stoltenberg). C’erano delle donne, contadine, dallo sguardo dimesso, che all’ingresso del paese vendevano succhi di frutta del loro raccolto, ovviamente c’era quello al melograno, segno per antonomasia direi, della floridezza della cultura islamica. Alcune vendevano i propri manufatti di cotone. Stavano tutte in meticoloso silenzio. Ricordo che un vero e proprio contrasto con il lento scorrere della Neretva sopraffaceva il cuore laddove la memoria della sofferenza innocentemente versata pulsava forte d’indignazione: si può riparare nella filosofia, quale incunabolo immanentista nel grande libro della storia, per non perdere la bussola della ragione quando, come durante quel sentimento di rabbia che provammo, si intuisce che l’armonia della natura stessa diventa una ghigliottina sotto cui aspetta senza vita la vita. 



La struttura delle relazioni sociali che immediatamente dopo la morte di Tito furono fatte ruotare attorno al perno del terrore e dell’odio (a cui la paura della cecità derivata dallo scontro fra la religione cristiana e quella islamica aggiungeva la dirimenza dell’idea del “noi siamo nella verità”) riflettevano gli effetti di una manipolazione e una propaganda degli Stati interessati che per decenni smantellò l’ideale multiculturale che sotto Tito si compì affinché giungesse il tempo della guerra fratricida, “della guerra di tutti contro tutti” come i Bosniaci sogliono chiamarla. Pocitelj possedeva un silenzio di parole mute che aspettano riposte ai perché di quanto successo lì e altrove (di cui l’immenso e valoroso lavoro del Tribunale internazionale per i crimini in ex-Jugoslava ha dato risposte giuridiche e penali senza peraltro scardinare nulla delle cause della guerra). Un silenzio davanti all’umano bisogno, che lì è stato tranciato recisamente, di realizzare praticamente le categorie che della vita ne dovrebbero essere solide fondamenta (coscienza, azione, lotta, elevazione spirituale, solidarietà). Un silenzio segno dello sradicamento dell’egemonia totalitarista della guerra. È lo sradicamento della vita da sé stessa, direbbe Simone Weil, che si ripiega e si cristallizza. È la sventura che, differentemente dalla riflessione weiliana su questa parola, niente ha a che fare col destino o col fato ma è una variabile dipendente della riproduzione del dominio. Credo che oggi vivano a Pocitelj in pochissimi poiché la maggior parte delle case, tutte rifatte, sono state acquistate da alcune catene di turismo per farne altrettante residenze per coloro - noi borghesi occidentali - che allora, cioè dal profilarsi della concreta possibilità della guerra, preferimmo voltare la faccia (d’altronde Ponzio Pilato è il tipo di uomo occidentale). 



Il sangue, il dolore, le cicatrici si “cancellano” con il profitto: considero concreta l’affermazione per cui turismo equivale a terrorismo giacché esso si serve di un sistema di significati e significanti che dissimulano lo sviluppo in senso alle leggi economiche neoliberiste dietro il denominatore comune di civiltà. Il risultato è ovvio per chi vuol vedere: Pocitelj è stato rianimato svuotandosi di vita reale. Nell’architettura delle case è entrato l’uso della malta che esse non conoscevano; i tetti con le travi in legno e le molte finestre (caratteristica tipicamente turca) sono stati comunque rispettati. La moschea è visitabile e i segni del suo bombardamento sono stati sistemati per assicurane stabilità e consentirne di svolgere la funzione sociale. Il senso genuino, popolare, quando è rispettato, della fede, quando cioè non è mistificato col fine di rendere passiva la vita (il senso oppiaceo che Marx denunciò), risorge sotto qualsiasi condizione.
Proseguiamo per Mostar, distante appena 30 chilometri; percorso che si dipana lungo gole e montagne dove l’acqua scorre blu intensa. La guerra nei Balcani si è potuta svolgere sostanzialmente senza nessun inciampo (fino ad un certo punto) da parte della Serbia che non ne voleva l’indipendenza sfruttando al meglio l’orografia appunto. Se storicamente da un lato questa caratteristica ha fatto sempre percepire all’Occidente che i Balcani ne fossero separati e in certo senso antagonisti (o peggio nemici) quale luogo foriero solo di spine al fianco degli interessi colonialisti degli imperi di allora (e degli Stati di adesso pur con forme, parole e istanze assai diverse), dall’altro quella li ha preservati e tutt’oggi non sono stati ancora ingoiati dall’industrialismo del Grande Fratello (si pensi che in Albania non vi è alcun McDonald’s… ma solo lì…). 



Laddove quindi la Serbia, che tutt’ora non ha abbandonato la sua idea di essere anacronisticamente la garante dell’unità slava che la Russia fino al 1989 ha garantito (guardare alla querelle in atto contro il Kosovo), non è riuscita a ricondurre all’ovile culturale la Bosnia, ci sono riusciti la UE e gli Usa, imponendole quell’identità culturale, di segno economicista, tanto estranea alla sua storia quanto però efficace sul piano del consenso internazionale e della subalternità tramite una data idea di “pace” che non è altro il dover riconoscere l’egemonia di stati forti sulla proprie istanze di autonomia politica. Per inciso, la dirimente differenza tra “l’indipendenza” della Bosnia rispetto al percorso di Slovenia e Croazia risiede nel fatto che queste due entità possiedono una prossimità culturale nonché vera e propria affinità religiosa verso i confinanti Stati europei (senza insinuare che il loro percorso verso l’indipendenza non sia stato a spese di sangue e sofferenze); prossimità che la Bosnia non ha mai avuto. Essa è stata considerata la pecora nera. Perché la guerra di Bosnia, di cui Sarajevo, che racconterò nel prosieguo del racconto, ne è stato l’emblema insieme a Srebrenica (senza dimenticare le altre città ovviamente), è stata una guerra soprattutto e anche religiosa.