ATTRAVERSO I BALCANI: DA SARAJEVO A GRAMSH di
Pierpaolo Calonaci
Un
viaggio nella geografia politica della subalternità. Bruce
Chatwin usò icasticamente la tensione generata dall’irrequietezza per
descrivere il movimento che l’anima compie verso la ricerca intangibile del
viaggiare e del conoscere ciò che è altro da sé. Ne fece appunto un’“anatomia dell’irrequietezza”.
In queste righe desidero riprendere l’immagine per farne lente di anatomia
politica della subalternità e del dominio dove certe aree geografiche (es. i Balcani,
Gerusalemme, la Palestina, la Siria, l’America Latina tutta ecc.) ne portano e
ne porteranno i segni indelebili. Segni che nei Balcani si manifestano nell’architettura,
nell’ordine urbano, nelle case, nelle relazioni sociali come matrice
antropologica, nell’organizzazione degli spazi sociali e dei suoi bisogni ma in
particolare si rifletterono,nel nome della pulizia etnica, sul corpo dei bambini
bosniaci che furono letteralmente massacrati dai cecchini serbo-croati (e dal lassez-faire dell’Europa e degli Usa) affinché
il loro corpo immolato servisse in futuro a ricordare che il modello culturale
e politico di Tito era da cancellare. D’ora in poi subalternità con le sue
briciole di felicità corrotta. Ogni
viaggio, questo in particolare dato che si dipana lungo la storia drammatica
dei Balcani, porta con sé un profondo, incosciente o meno, senso di disgusto o
di rifiuto degli spazi angusti in cui una certa geografia politica, e la
normalizzazione politica che la governa, ci vorrebbe rinchiudere per farci
arrendere all’ “è così”. A ciò si accompagna un senso di “inattualità” del
viaggiare in una dimensione temporale che non sia dettata dai ritmi produttivi
(sta qui la differenza col turismo); che riducono il viaggio ad una fuga
velleitaria da un determinismo sociale, speculare, metaforicamente, alla
protervia del domandare ad una rosa il perché del suo fiorire. Poiché un
viaggio è il pensiero che si esercita attraverso una lente che reagisce contro
il presentare i fenomeni sociali disponendoli a tal guisa che la “posizione del
problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è
legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere
perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti
storici”. (A. Gramsci, Quaderni del
carcere, a cura dell’Istituto Gramsci, Torino, Einaudi, 1975, Q. 11, § 15,
p. 1403). Il pacifismo è irretito in questo modello analitico-meccanicista dei
fenomeni sociali e ciò lo rende molto spesso incapace di analisi fondate,
maldestro nel formulare quesiti e dubbi e quindi impreparato a formulare una “qualità
delle domande” (Paolucci) da porre alle istituzioni legittimanti l’egemonia
culturale e politica della guerra, depotenziando soprattutto l’affermazione per
cui l’obbedienza non è più una virtù.
Attraversato
il confine croato-bosniaco entriamo nella pianura verde che scorre lungo la Neretva:
frutti e ortaggi (che nella tradizione culinaria orientale la fanno da padrone)
fanno ovunque capolino sulle bancarelle che riempiono il lato stradale, siamo
in settembre e il sole è caldo. La moto punta verso le montagne ad Est da cui i
Balcani sono caratterizzati; gli erti profili mi conducono al ricordo di Sebrenica
nella quale andai nel 2005… da quelle montagne calò sulle vite dei suoi
abitanti la morte per mano dell’esercito serbo-croato grazie anche
all’ipocritica tattica della “non-intromissione” che i Caschi blu olandesi, a
cui la popolazione di Srebrenica fu affidata per essere protetta, misero in
atto con colpevole acribia. Ci fermiamo nel piccolo paese di Pocitelj a pochi
chilometri dall’ingresso in Bosnia. Come altrove vi fu pulizia etnica che il
silenzio, la storia, la cultura islamica che nella piccola moschea trovano il
proprio fulcro non possono che aumentarne il ricordo della sofferenza a cui la
Bosnia è stata immolata. Perché il popolo bosniaco a maggioranza islamica avrebbe
dovuto dimostrare che per essere accettato nel consesso occidentale, speculare
all’etica religiosa che lo caratterizza, fosse all’altezza del diktat del sacrificio che quell’etica
impone (medesimo leitmotiv per
l’Ucraina, vedi le parole di Stoltenberg). C’erano delle donne, contadine, dallo
sguardo dimesso, che all’ingresso del paese vendevano succhi di frutta del loro
raccolto, ovviamente c’era quello al melograno, segno per antonomasia direi,
della floridezza della cultura islamica. Alcune vendevano i propri manufatti di
cotone. Stavano tutte in meticoloso silenzio. Ricordo che un vero e proprio
contrasto con il lento scorrere della Neretva sopraffaceva il cuore laddove la
memoria della sofferenza innocentemente versata pulsava forte d’indignazione:
si può riparare nella filosofia, quale incunabolo immanentista nel grande libro
della storia, per non perdere la bussola della ragione quando, come durante
quel sentimento di rabbia che provammo, si intuisce che l’armonia della natura stessa
diventa una ghigliottina sotto cui aspetta senza vita la vita.
La struttura
delle relazioni sociali che immediatamente dopo la morte di Tito furono fatte
ruotare attorno al perno del terrore e dell’odio (a cui la paura della cecità
derivata dallo scontro fra la religione cristiana e quella islamica aggiungeva
la dirimenza dell’idea del “noi siamo nella verità”) riflettevano gli effetti
di una manipolazione e una propaganda degli Stati interessati che per decenni
smantellò l’ideale multiculturale che sotto Tito si compì affinché giungesse il
tempo della guerra fratricida, “della guerra di tutti contro tutti” come i
Bosniaci sogliono chiamarla. Pocitelj possedeva un silenzio di parole mute che
aspettano riposte ai perché di quanto successo lì e altrove (di cui l’immenso e
valoroso lavoro del Tribunale internazionale per i crimini in ex-Jugoslava ha
dato risposte giuridiche e penali senza peraltro scardinare nulla delle cause
della guerra). Un silenzio davanti all’umano bisogno, che lì è stato tranciato
recisamente, di realizzare praticamente le categorie che della vita ne
dovrebbero essere solide fondamenta (coscienza, azione, lotta, elevazione
spirituale, solidarietà). Un silenzio segno dello sradicamento dell’egemonia
totalitarista della guerra. È lo sradicamento
della vita da sé stessa, direbbe Simone Weil, che si ripiega e si cristallizza.
È la sventura che, differentemente
dalla riflessione weiliana su questa parola, niente ha a che fare col destino o
col fato ma è una variabile dipendente della riproduzione del dominio. Credo
che oggi vivano a Pocitelj in pochissimi poiché la maggior parte delle case,
tutte rifatte, sono state acquistate da alcune catene di turismo per farne
altrettante residenze per coloro - noi borghesi occidentali - che allora, cioè
dal profilarsi della concreta possibilità della guerra, preferimmo voltare la
faccia (d’altronde Ponzio Pilato è il tipo di uomo occidentale).
Il sangue, il
dolore, le cicatrici si “cancellano” con il profitto: considero concreta
l’affermazione per cui turismo equivale a terrorismo giacché esso si serve di
un sistema di significati e significanti che dissimulano lo sviluppo in senso
alle leggi economiche neoliberiste dietro il denominatore comune di civiltà. Il
risultato è ovvio per chi vuol vedere: Pocitelj è stato rianimato svuotandosi di
vita reale. Nell’architettura delle case è entrato l’uso della malta che esse
non conoscevano; i tetti con le travi in legno e le molte finestre (caratteristica
tipicamente turca) sono stati comunque rispettati. La moschea è visitabile e i
segni del suo bombardamento sono stati sistemati per assicurane stabilità e
consentirne di svolgere la funzione sociale. Il senso genuino, popolare, quando
è rispettato, della fede, quando cioè non è mistificato col fine di rendere
passiva la vita (il senso oppiaceo che Marx denunciò), risorge sotto qualsiasi
condizione. Proseguiamo
per Mostar, distante appena 30 chilometri; percorso che si dipana lungo gole e
montagne dove l’acqua scorre blu intensa. La guerra nei Balcani si è potuta
svolgere sostanzialmente senza nessun inciampo (fino ad un certo punto) da
parte della Serbia che non ne voleva l’indipendenza sfruttando al meglio
l’orografia appunto. Se storicamente da un lato questa caratteristica ha fatto
sempre percepire all’Occidente che i Balcani ne fossero separati e in certo
senso antagonisti (o peggio nemici) quale luogo foriero solo di spine al fianco
degli interessi colonialisti degli imperi di allora (e degli Stati di adesso
pur con forme, parole e istanze assai diverse), dall’altro quella li ha
preservati e tutt’oggi non sono stati ancora ingoiati dall’industrialismo del
Grande Fratello (si pensi che in Albania non vi è alcun McDonald’s… ma solo
lì…).
Laddove quindi la Serbia, che tutt’ora non ha abbandonato la sua idea di
essere anacronisticamente la garante dell’unità slava che la Russia fino al
1989 ha garantito (guardare alla querelle
in atto contro il Kosovo), non è riuscita a ricondurre all’ovile culturale la
Bosnia, ci sono riusciti la UE e gli Usa, imponendole quell’identità culturale,
di segno economicista, tanto estranea
alla sua storia quanto però efficace sul piano del consenso internazionale e
della subalternità tramite una data idea di “pace” che non è altro il dover
riconoscere l’egemonia di stati forti sulla proprie istanze di autonomia
politica. Per inciso, la dirimente differenza tra “l’indipendenza” della Bosnia
rispetto al percorso di Slovenia e Croazia risiede nel fatto che queste due
entità possiedono una prossimità culturale nonché vera e propria affinità religiosa
verso i confinanti Stati europei (senza insinuare che il loro percorso verso
l’indipendenza non sia stato a spese di sangue e sofferenze); prossimità che la
Bosnia non ha mai avuto. Essa è stata considerata la pecora nera. Perché la
guerra di Bosnia, di cui Sarajevo, che racconterò nel prosieguo del racconto,
ne è stato l’emblema insieme a Srebrenica (senza dimenticare le altre città ovviamente), è stata una guerra soprattutto e anche religiosa.