Giulianova.
Non ci si può permettere di cancellare dalla storia italiana la Resistenza o
derubricarla sotto forma di una delle tante guerre che si sono succedute nel
tempo in Italia. Si può resistere al dolore, alla malattia, alla nostalgia,
alla fatica, al sonno, ma quando pronunciamo il nome “Resistenza”, al maiuscolo,
vogliamo dire ben altro. Il maiuscolo sta tutto nel fatto che quel movimento di
popolo è riuscito nello stesso tempo a sconfiggere due nemici: il fascismo e la
guerra. Si è pensato sempre che la guerra sia stata vissuta solo dagli uomini e,
invece, non si ricorda che anche le donne furono protagoniste, quando si trattò
di essere contro la guerra e, durante il conflitto, di diventare partigiane e
artefici, come gli uomini, della storia della Resistenza. Le donne furono parte
attiva nelle proteste contro la guerra, furono al fianco degli uomini negli
scioperi del ’42 e del ’43; loro salvarono i soldati dai rastrellamenti fascisti
e nazisti, loro dettero gli abiti borghesi per farli tornare a casa o per farli
rifugiare su in montagna. Quella di quei mesi fu una scuola rapida che condusse
ad un nuovo modo di pensare e di essere: una donna fatta non più solo per la
maternità, come volevano gli slogan fascisti dell’epoca, e magari piangere i
figli mandati a morire nella loro guerra. Furono circa trentamila le
donne combattenti sul campo, o a far da staffette e collaboratrici. Arrestate,
torturate, fucilate, non hanno dato un anonimo contributo alla lotta partigiana
e alla nascita di una Italia libera e democratica. Le donne della Resistenza
furono donne innamorate della libertà e questo loro sentimento innestò le
radici di una emancipazione futura e di un nuovo modo di vivere ed essere nella
società. Sgurbiòl era il soprannome che i contadini diedero a Leila Panza, perché
piccola e gracile. Aveva tredici anni quando incominciò a salire su in montagna
per portare da mangiare e bere ai partigiani annidati nei boschi. Aveva presto
capito che doveva farlo, dopo aver visto morire suo fratello Uber, catturato,
torturato e fucilato dalle Brigate Nere e aver saputo della strage perpetrata
dai fascisti ai danni della famiglia di sua cugina. La sua non è stata mai una
vita tranquilla, da sempre dedicata al lavoro. Fin da piccola, infatti, si
levava all’alba per andare nei campi a raccogliere gli ortaggi e nella stalla
ad accudire e curare gli animali di uno dei tanti cortili del modenese. Ma è
tra i partigiani che si è realizzato, tutte le volte che la vedevano arrivare,
o andar via, incurante del pericolo costante di cader preda di un rastrellamento,
il mito di Sgurbiòl: mito d’un sacrificio per la libertà. Quando la guerra ebbe
termine, Leilà non si fermò. La militanza nel Pci, il suo ingresso in fabbrica,
fino a diventare caporeparto, il suo impegno nella lotta per i diritti civili,
salderanno la vecchia gloriosa storia della sua infanzia alla matura scelta di
continuare a indicare la strada che l’Italia doveva percorrere per liberarsi
dalla barbarie e da ogni tipo di sopraffazione.