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sabato 15 aprile 2023

QUOTIDIANITÀ
di Angelo Gaccione
 


In apparenza la quotidianità, e il suo fluire, sembra identica per tutti: banale, monotona, ripetitiva, priva di slanci e di accensioni. Scandita da quello che convenzionalmente abbiamo chiamato tempo, e che segna l’arco delle nostre giornate: da quando lasciamo il letto al mattino per ritornarci alla sera. Ogni professione – ed ogni mestiere – è condizionata da questo tempo circolare, e, insieme, dalla ripetitività a cui essa obbliga. Vale per le fabbriche, per gli uffici, per le scuole, per lo sport, per la ricerca, e persino per quella che con un termine abusato definiamo attività creativa. E ciò perché ogni professione ha delle regole rigide, ogni attività il suo metodo. Questa ritualità alla lunga finisce per divenire un tran tran oppressivo e giustamente i parigini l’hanno sintetizzato nella triade: métro, boulot, dodo (metrò, lavoro, nanna). Se questa condizione appare universale, essa ha però anche degli aspetti individuali legati a delle variabili precise: età, salute, posizione sociale, imprevisti, disgrazie, successo, lutti e quant’altro un essere umano è costretto a subire nel corso della sua vita. In un contesto in apparenza così statico esiste un eroismo della quotidianità che ha del miracoloso e si incarna in gesti affettuosi, di attenzione, di cura; gesti semplici, piccoli gesti che rivelano un radicato substrato di umanità che pervicacemente resiste ad ogni intemperia, ad ogni tempesta, ed è il motivo che spesso ci convince a non disperare del tutto. Curare, come fa una mamma degna di questo nome, il proprio congiunto fino alla fine e senza un lamento è qualcosa di così umanamente immenso che, nella società d’oggi, paragoniamo ad una fatica sovrumana superiore alle nostre forze e alla nostra sopportazione. Fare visita ad un amico ammalato, prestare attenzione alle cose minime dell’esistenza, non richiede, invece, una devozione così totale. Mettersi in ascolto vuol dire semplicemente disporsi all’umiltà, ad una gentilezza che vuole fare i conti con il nostro egoismo. Si tratta di un atteggiamento che in fin dei conti non costa nulla, ma può fare grandi cose e giovare più di quanto si creda. È a questa sensibilità che dovremmo educare la gioventù se fossimo saggi. La famiglia da questo punto di vista può poco: in genere i figli si rivoltano contro tutto ciò che avvertono in casa come un fastidio, quando sono per l’appunto figli, e diventano consapevoli dell’errore solo quando si trasformano a loro volta in genitori ed è ormai troppo tardi. Ma negli asili, nelle scuole, nei luoghi preposti al compito educativo e pedagogico, si può fare molto perché le figure di riferimento – e con le quali i minori si identificano – sono ai loro occhi più autorevoli dei genitori. Inoltre esse agiscono sul collettivo, sul gruppo, sulla collaborazione, sul comportamento comune, per una quantità di ore che ad un genitore impegnato nel lavoro non è assolutamente consentito. È qui che andrebbe sconfitta la competizione, la logica perversa della supremazia per gareggiare in gentilezza e solidarietà. Per imparare sin da subito uno dei più profondi principî umani e che io ho sintetizzato nel distico di questi semplici versi: “compassione per chi cade”/ “con passione per chi solleva”.