La formula del «pessimismo leopardiano»
ha un padre nobile: il filosofo Giovanni Gentile che la inventò in un suo
saggio del 1916 sulle Operette morali di Leopardi. Si trattava
di una sciocchezza tutta in chiave reazionaria perché intendeva sminuire la
figura di Leopardi a poeta impressionistico e regionale e poeta non patriottico
o non sufficiente patriottico. Per giustificare tale giudizio, Gentile tira fuori
dal cappello a cilindro due posizioni, a suo dire, soggettive e dicotomiche: il
«pessimismo della ragione» e l’«ottimismo del cuore», rilevandone la
contraddittorietà e, di conseguenza, anche la fallacia, la inettitudine e la
superficialità del pensiero filosofico e di quello poetico del recanatese. Benedetto Croce pubblica due saggi
dapprima su “La Critica” e poi nel volume Poesia e non poesia del
1923, dove il filosofo rivolge l’accusa alla poesia leopardiana di essere
fondata su elementi allotri, di momenti meditativi, filosofici, polemici che,
per il filosofo napoletano, in quanto tali sono giudicati estranei alla
ispirazione e «intuizione poetica» e quindi da considerare come «non poetici»,
tranne un esiguo numero ridotto di idilli; per quanto riguarda la filosofia
leopardiana essa sarebbe, nel profondo, «sentimento« e «risentimento» per una
«vita strozzata», e quindi dettata da un anelito soggettivo e non da una
aspirazione universale qual è propriamente quella della filosofia. In questo
che oggi appare come un chiaro pregiudizio, ne deriva la valutazione fortemente
negativa anche del pensiero leopardiano giudicato letteralmente inesistente: «La
filosofia - afferma Croce - in quanto pessimistica o ottimistica è sempre intrinse camente pseudo-filosofia, filosofia a uso privato».1 Lasciamo da parte le sciocchezze
dell’italietta fascista che tentò un recupero del Leopardi come anche di
Alfieri e Foscolo giudicandoli precursori del fascismo; lasciamo anche da parte
le sciocchezze venute in questi ultimi anni dalla matrice cattolica e
reazionaria di mettere su Leopardi l’etichetta di poeta mistico se non
addirittura cattolico, e veniamo al punto della «questione Leopardi». Partiamo dalla triade:
Leopardi-Gramsci-Pasolini. Seguendo questo filo rosso possiamo riavvolgere il
nastro e rintracciare, a ritroso, quel problema rimasto ancora insoluto
dall’Unità d’Italia del 1861 ad oggi di una piccola borghesia (come si diceva
una volta) costantemente reazionaria, sempre posizionata dalla parte degli
interessi della grande e ricca borghesia industriale (e oggi post-industriale)
e dei ricchi produttori agricoli. I migliori e più combattivi intellettuali
italiani (che siano essi scrittori, poeti o giornalisti) sono sempre stati
messi nelle condizioni di isolamento e di non nuocere, e questo vale anche per
la repubblica democratica nata dalla lotta al nazi-fascismo e dalla
costituzione repubblicana. I nostri migliori intellettuali sono sempre stati
degli isolati, questo postulato è valido per Leopardi come per Gramsci (rinchiuso
nelle patrie galere dal fascismo) fino a Pasolini, assassinato dal connubio tra
la massoneria reazionaria delle logge segrete in corrispondenza con interessi
profondi sottostanti nella Democrazia Cristiana e negli ambienti golpisti
collegati con la normale manovalanza delinquenziale. Oggi, giunti alla fine della seconda
repubblica, le cose non sono cambiate granché, gli intellettuali sono diventati
merce rara, se non rarissima, e quei pochi sono ridotti alla condizione di
salariati e quindi in condizioni di non nuocere. Mi sembra che non ci sia da
aggiungere altro. Per tornare a Leopardi, il 7 Giugno
1820, il recanatese scrive: «E un popolo di filosofi sarebbe il più
piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per
così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci
ravvicini alla natura. E questo dovrebbe essere il frutto dei lumi straordinari
di questo secolo» (p. 115 del manoscritto dello Zibaldone).
Questa dizione, «ultrafilosofia», è
intesa da Leopardi in senso materialistico, quell’accenno sdegnoso e ironico a
«un popolo di filosofi (che) sarebbe il più piccolo e codardo del mondo», deve
essere inteso proprio all’opposto da come fu interpretato da filosofi
reazionari come Giovanni Gentile e Augusto Del Noce, cioè come «prassi», quella
nozione che poi sarà di Gramsci, ovvero, di un popolo che passa alla azione,
alla azione politica, quello è il punto culminante del ragionamento del
recanatese che vede intorno a sé un «popolo» impolitico e neghittoso; il
termine «ultrafilosofia» risiederebbe nel passaggio alla «prassi», in una
moderna «filosofia della prassi» (che sarà il cavallo di battaglia di Gramsci
rinchiuso in carcere), non certo nel senso idealistico e retorico come
l’intendevano filosofi reazionari Gentile e Del Noce. La questione «felicità»
di cui scrive Leopardi nello Zibaldone è la felicità non del
singolo cittadino ma dell’intero «popolo» neghittoso e inconsapevole, Leopardi
parla con sé stesso ma mai per sé stesso, la «felicità» non è mai il
raggiungimento di un cittadino isolato ma di un cittadino che vive e opera in
una comunità, in un «popolo». Il pensiero di Leopardi muove sempre entro la
cornice di un impianto concettuale materialistico erede del pensiero dei Lumi
ed è diretto verso l’azione pratica, altro che pessimismo e ottimismo! In
Leopardi, nel Leopardi isolato e dimenticato dai contemporanei, c’è sempre
chiarissimo il concetto di una filosofia e di una politica della «prassi» che
il recanatese chiama «ultrafilosofia». Tutto il pensiero dello Zibaldone è
orientato in questa direzione, verso la lotta per il miglioramento delle
condizioni di vita e delle condizioni della vita intellettuale del «popolo»,
altro che mero pessimismo e mero ottimismo, buono per i confetti perugina. La
frase tanto spesso ripetuta e tanto spesso equivocata delle «magnifiche sorti e
progressive» è da intendere nella seguente accezione: Leopardi ci vuole mettere
sull’avviso di diffidare del falso progresso borghese-agrario, in quanto il
recanatese mirava ad un progresso molto più radicale, che andasse al di là
dell’orizzonte politico della propria epoca e del proprio ambiente, operazione
politica di un «popolo» consapevole dei propri diritti nei confronti della
«natura» e della «società» di cui il recanatese non scorgeva la benché minima
attestazione. Il termine « utrafilosofia» contenuto
nello Zibaldone, è stato riproposto da Cesare Luporini ma in
accezione del tutto opposta a quella del Gentile, come un progetto-speranza per
gli italiani dell’avvenire, un concetto sì disperato nelle condizioni in cui si
trova Leopardi relegato nell’immobilismo dell’Italia della Restaurazione dove
non appare all’orizzonte alcuna luce che possa far presagire un diverso destino
dei popoli italiani; quando Leopardi verga quella parola, non ha certo in mente
un super-uomo nietzschiano quanto un progetto, una disperazione progettualmente
pensata in vista di un obiettivo storico concreto; verso le «sorti
progressive», dunque, e in questa accezione «sembra condensarsi la “disperata
speranza” dell’individuo Leopardi», scrive a ragione Cesare Luporini nel 1947.
Note 1 B.
Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923, pp.
103-119. 2 Il testo Leopardi progressivo fu pubblicato per
la prima volta nel volume Filosofi vecchi e nuovi:
Scheler-Hegel-Kant-Fichte-Leopardi, Sansoni, Firenze, 1947. Come Luporini
scrive in un’avvertenza ad una nuova edizione, datata del febbraio 1980,
«questo Leopardi progressivo ebbe subito una sua risonanza particolare, così
che poi, nel corso di tutti questi anni, molte volte sono stato sollecitato a
ripubblicarlo in edizione separata. Questa domanda proveniva da varie parti, ma
soprattutto dal mondo della scuola (insegnanti e studenti), il che mi ha sempre
fatto particolare piacere» (C. Luporini, Avvertenze dal 1980 al 1992,
in Id., Leopardi progressivo, Roma, Editori Riuniti, 2006, p. ix).