La
verità incompleta. Intervista al magistrato Guido Salvini consulente della seconda Commissione Moro e della
Commissione antimafia. Ritiene
che il sequestro Moro sia stato deciso e pianificato solo dalle Brigate Rosse o
che vi sia stata una qualche forma di eterodirezione? Non
direi una eterodirezione ma gli attori entrati sulla scena a sequestro avvenuto
hanno certamente convogliato gli eventi su determinati binari. L’obiettivo che
si erano proposte le Brigate Rosse con il sequestro Moro era quello di colpire
ad alto livello il SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali. Ma non sono
riuscito nemmeno a scalfirlo, ammesso che esistesse. Incolti,
salvo l’eccezione di cui tra poco dirò, impreparati a gestire un discorso al di
fuori di quello delle armi, chiusi nella loro vetusta gabbia ideologica i
brigatisti non si sono resi conto che il percorso che avrebbe avuto la
prigionia dell’ostaggio sarebbe stata in realtà seguito, condizionato e in
qualche modo diretto da altri che hanno colto l’occasione di quanto accaduto
per dirigerlo ai propri fini.Era uno scenario
più grande di loro e in questo senso paradossalmente le Brigate Rosse sono
rimaste confinate nel solo ruolo di esecutori finendo a comportarsi come altri
volevano. Non è un caso che dopo l’assassinio di Moro, con il quale in realtà
non hanno ottenuto nulla se non la separazione definitiva da quelle simpatie
che pure avevano in alcune aree sociali, abbiano rapidamente percorso la strada
del declino e dell'uscita di scena almeno come organizzazione armata. Si
può spiegare meglio? Chi ha approfittato del
sequestro dell’on. Moro? Moro
era inviso ad entrambe le forze dominanti dello scacchiere internazionale
dell’epoca. Agli oltranzisti atlantici non piaceva il suo progetto di associare
il PCI al governo, progetto che era in discussione proprio nei giorni del suo
rapimento. Ma non era gradito nemmeno ai sovietici perché Berlinguer e il PCI
eurocomunista partecipando al governo avrebbero dimostrato che anche per via
democratica si poteva accedere alle stanze del potere e ciò avrebbe significato
il crollo del primato ideologico del PCUS. Moro voleva introdurre elementi
dinamici in un quadro internazionale che doveva essere statico, metteva così in
discussione gli equilibri di Jalta.
Aldo Moro
Dei 55 giorni del sequestro quale è stato l’esatto momento che aveva dentro di
sé la premessa per un esito tragico? Secondo
me il comunicato n. 3 con cui le Brigate Rosse annunciavano che
l'interrogatorio proseguiva con la piena collaborazione del prigioniero, collaborazione ribadita nel comunicato n. 6 in cui si affermava
che Moro, con nomi e fatti, aveva rivelato i responsabili delle pagine più
sanguinose della storia italiana. Le Brigate Rosse avevano tuttavia dichiarato
di non voler rendere subito pubblici, tramite i mass media o altri comunicati,
il contenuto degli interrogatori. A quel punto l’intera vicenda è stata
affrontata con occhi diversi. Non si trattava più con una operazione militare e
giudiziaria solo di cercare il luogo ove era tenuto prigioniero ma di
recuperare quei “verbali”. Lo ha colto bene nel suo libro di memorie Dieci
anni di solitudine il senatore Giovanni Pellegrino già Presidente negli
anni ’90 della Commissione stragi. Prima di tutto Moro
doveva essere delegittimato diffondendo l’interpretazione che egli scriveva
sotto dettatura dei suoi carcerieri e questo concetto è stato inoculato nell’opinione
pubblica. Poi l’obiettivo più urgente era diventato quello di mettere le mani
sugli interrogatori e renderli inoffensivi.
Pensiamo al secondo rinvenimento di via Montenevoso nel 1990, con gli accenni
che i manoscritti contenevano anche alla struttura Stay Behind. Molto
probabilmente, questo è un aspetto che in genere non si considera, le
istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, a fronte del
comunicato n. 6, comunque allusivo e sibillino, potevano temere che Moro avesse
raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto di più di quanto
effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto
pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel
punto Aldo Moro era politicamente morto, più ancora che morto divenuto
ingombrante, poteva essere lasciato morire e così è stato. Il consulente USA
nel comitato di crisi Steve Pieczenik ha del resto spiegato anni più tardi in
una intervista che la morte di Moro non era stata un insuccesso della sua missione,
anzi era stato consentito che ciò accadesse senza intervenire. L’ostaggio più importante
dal punto di vista degli equilibri politici, erano invece le carte, gli
interrogatori. Alla fine Moro è stato ucciso e i suoi interrogatori completi
non sono stati mai trovati né resi pubblici nemmeno con la caduta
dell’intercapedine di via Montenevoso. Questo nonostante l’affannosa ricerca
ordinata dal generale dalla Chiesa anche in tutte carceri speciali e nonostante
appaia molto difficile, come ha sostenuto Moretti, che gli originali, le bobine
e forse qualche video siano stati bruciati. Le Brigate Rosse erano maniache
dell’archiviazione di tutti i loro documenti e ben difficilmente, anche in
vista di un utilizzo futuro, si sarebbero private di un trofeo del genere. Quindi dopo l’abbandono da parte dello Stato, più interessato a
quanto Moro avesse detto che alla vita dell'ostaggio, la sorte del prigioniero
era segnata? Credo di sì. C’è stata nelle ultime settimane prima del 9 maggio
l’iniziativa del Vaticano che, lo abbiamo definitivamente accertato con il lavoro
della 2ª Commissione Parlamentare Moro, aveva messo a disposizione una somma
enorme, 10 miliardi di lire, da consegnare alle Brigate Rosse in cambio della
salvezza dell’ostaggio. Ma
per quanto condotta ad alti livelli quella del Vaticano era pur sempre una
“iniziativa privata” che non proveniva dal Governo e dalle istituzioni mentre
le Brigate Rosse pretendevano da queste un riconoscimento politico. Quindi era
destinata a fallire.
Alla fine vi è stato secondo lei un accordo tacito tra le istituzioni
e le Brigate Rosse? Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, compreso il silenzio
sui “verbali” di Moro, è molto probabile. lo ricorda sempre il
presidente Pellegrino, che lo Stato si sia accontentato della verità, utile sul
piano strettamente giudiziario ma parziale, offerta dal memoriale di Valerio
Morucci ed il livello di “dicibililità” si sia fermato lì. Una sorta di scambio
tacito, appunto. Poi Morucci, Moretti, con i suoi 6 ergastoli, e a seguire
tutti gli altri alla spicciolata hanno avuto i primi consistenti benefici
penitenziari dopo appena una dozzina di anni di carcere, un trattamento molto
più benevolo rispetto alla carcerazione subita da militanti meno noti di altri
gruppi armati che però non avevano niente da vendere e rispetto anche ai condannati per delitti comuni. Chi condusse gli interrogatori di Moro? Certamente non solo Mario Moretti, un semplice perito industriale che
aveva la metà degli anni di Moro e che non era all’altezza sul piano culturale
di condurre un dialogo del genere. Credo che i registi a distanza degli
interrogatori dello statista siano state ben altre “intelligenze”, forse il
prof. Giovanni Senzani, criminologo consulente del Ministero di giustizia, che
operavano dalla base del Comitato esecutivo a Firenze e cioè dal back
stage mai del tutto venuto alla luce di quei 55 giorni. Anche questo aspetto
del sequestro è stato lasciato in ombra e anche per questo motivo le bobine
degli interrogatori sono scomparse.
Passando più in dettaglio alla vostra Relazione come avete
lavorato nei termini di tempo ristretti dovuti allo scioglimento delle Camere? Innanzitutto per la prima volta con il lavoro di queste
commissioni, la seconda Commissione Moro e la Commissione antimafia, grazie in
particolare all'impegno dell’on. Stefania Ascari, si è offerta una
ricostruzione visiva della scena di via Fani con piantine e rappresentazioni
grafiche dettagliate in cui sono collocati, ognuno al suo posto, gli sparatori,
i testimoni, le autovetture e le rose dei bossoli. E questo studio ha dato dei
risultati.
Credo che si riferisca al numero e alla posizione degli sparatori.
Sono stati individuati, secondo la vostra ricostruzione, tutti coloro che
agirono in via Fani? Credo che dalla relazione emerga, sulla base di elementi oggettivi
e non di dietrologie che abbiamo sempre evitato, che in via Fani abbiano agito
più sparatori rispetto quelli indicati da Valerio Morucci. Mi riferisco ad uno
o più sparatori in alto a sinistra che annullarono il tentativo di reazione
dell’agente Iozzino. Richiamo l’attenzione sul racconto di una testimone da noi
sentita, molto precisa e attendibile, che ne vide almeno uno. Poi c’era un
altro sparatore posizionato in basso a destra che colpì con estrema precisione
alle spalle il brigadiere Zizzi. Ancora un testimone molto attendibile, un
medico che stava passando in via Fani e che era stato praticamente dimenticato
dagli inquirenti dell'epoca, ci ha confermato la presenza di una motocicletta
accanto ai terroristi travestiti da avieri. Anche la presenza di una moto con
funzioni di appoggio è quindi ormai una certezza. Sono protagonisti della scena
di via Fani di cui non si è mai voluto dire nulla e bisognerebbe capire perché.
Giovanni Senzani
Nella relazione si parla anche di quello che è avvenuto dopo la
fuga da via Fani e del trasbordo di Moro sul furgone… Nella relazione c’è anche una ricostruzione della fuga del
convoglio da via Fani da cui emerge che i brigatisti disponevano quella mattina
non di uno ma di due furgoni e che ben difficilmente il trasbordo di Moro nella
cassa di legno può essere avvenuto, come affermano, in una piazza frequentata,
Piazza del Cenacolo. Con ogni probabilità quell’operazione è avvenuta nella
zona isolata e boscosa di via Massimi, non molto dopo l’inizio della fuga, e
con l’intervento di altre presenze che sono state taciute. Ancora sono emersi nuovi
elementi che rafforzano l’ipotesi che l’ultima prigione di Moro, poco prima dell’omicidio,
non fosse via Montalcini ma si trovasse proprio nella zona del
Ghetto ebraico ove il corpo è stato ritrovato. Tutte zone d’ombra queste che
dovrebbero avere una spiegazione e che si intersecano con il punto centrale e
cioè la strategia e l’esito tragico di quei 55 giorni.
La relazione approvata dalla Commissione antimafia è molto critica
sul modo con cui furono condotte le indagini dagli investigatori e dalla
magistratura già nei momenti immediatamente successivi a sequestro. Cosa ci può
dire in merito? La fase iniziale delle indagini e cioè quella decisiva è stata
condotta in modo artigianale. I testimoni oculari sono stati sentiti in modo
più che approssimativo da differenti organi di Polizia giudiziaria e poi da
magistrati che “ruotavano”, senza nemmeno una piantina che collocasse
esattamente i testimoni e quanto avevano visto in un preciso punto
dell'incrocio e senza mostrare fotografie dei vari modelli di vetture e furgoni
da identificare. In questo modo, in assenza di una èquipe investigativa unica e
dedicata, ogni audizione è avvenuta senza nemmeno conoscere il contenuto delle
altre e senza quindi poter formare un quadro d’insieme e sovrapponibile. Non
parlo di tecniche scientifiche, che all’epoca potevano non essere disponibili,
ma di normali audizioni di testimoni la cui tecnica doveva essere un patrimonio
degli investigatori e degli inquirenti. Eppure ci si trovava dinanzi al più
grave delitto politico del dopoguerra. Dopo il mancato confinamento di via Fani
e l’invasione dei curiosi questo è stato il secondo inquinamento colposo della
scena del crimine. Poche delle conoscenze così perdute erano recuperabili,
qualche testimone per fortuna è stato rintracciato e si è reso disponibile
grazie all'impegno delle Commissioni parlamentari.
La
Commissione ha anche sentito Franco Bonisoli uno dei componenti del nucleo
storico delle Brigate Rosse e presente in via Fani. Come si è rapportato con
voi? Franco
Bonisoli ha da tempo ripudiato la lotta armata e ha partecipato ad incontri
anche nelle scuole sui temi del terrorismo e della riconciliazione con Agnese
Moro e i familiari di altre vittime. Ma la sua
audizione è stata desolante. Ci ha raccontato di non poterci dire niente perché
aveva dimenticato, sì, dimenticato, dice così, tutto quello che era successo in
via Fani e dopo. Come se uno dei principali protagonisti della più importante e
con maggiori conseguenze azione brigatista potesse semplicemente averla del
tutto rimossa dalla sua mente. Un
comportamento, quello di Franco Bonisoli ma anche di altri in occasioni simili,
che fa riflettere su certi atteggiamenti puramente esteriori e poco costosi che
dopo la fine del terrorismo sono stati, ingiustamente, tanto apprezzati. Un
vero mutamento interiore dovrebbe passare attraverso l’offerta di verità. Altrimenti
la fraternizzazione anche con i parenti delle vittime rimane una scatola vuota
e priva di contenuto. Cosa ne pensa del possibile intervento della criminalità
organizzata nel sequestro dell’on. Moro? Non enfatizzo un possibile intervento della criminalità organizzata
nel sequestro Moro. Può darsi che vi sia stato qualche appoggio logistico, ma
non molto di più. Invece è certo che durante i 55 giorni della prigionia la criminalità
organizzata, dalla banda della Magliana alla Camorra, si sia proposta e sia
stata attivata per individuare la prigione di Moro, anche con qualche
probabilità di successo. Ma anche la disponibilità e l’attivismo della
criminalità organizzata, ce lo hanno detto molte testimonianze tra cui quella
di Maurizio Abbatino, fu fermata. Non per motivi etici ma perché Moro liberato
non serviva più.