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martedì 9 maggio 2023

SEQUESTRO MORO


 
La verità incompleta. Intervista al magistrato Guido Salvini consulente della seconda Commissione Moro e della Commissione antimafia.
  
Ritiene che il sequestro Moro sia stato deciso e pianificato solo dalle Brigate Rosse o che vi sia stata una qualche forma di eterodirezione?
 
Non direi una eterodirezione ma gli attori entrati sulla scena a sequestro avvenuto hanno certamente convogliato gli eventi su determinati binari. L’obiettivo che si erano proposte le Brigate Rosse con il sequestro Moro era quello di colpire ad alto livello il SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali. Ma non sono riuscito nemmeno a scalfirlo, ammesso che esistesse. Incolti, salvo l’eccezione di cui tra poco dirò, impreparati a gestire un discorso al di fuori di quello delle armi, chiusi nella loro vetusta gabbia ideologica i brigatisti non si sono resi conto che il percorso che avrebbe avuto la prigionia dell’ostaggio sarebbe stata in realtà seguito, condizionato e in qualche modo diretto da altri che hanno colto l’occasione di quanto accaduto per dirigerlo ai propri fini. Era uno scenario più grande di loro e in questo senso paradossalmente le Brigate Rosse sono rimaste confinate nel solo ruolo di esecutori finendo a comportarsi come altri volevano. Non è un caso che dopo l’assassinio di Moro, con il quale in realtà non hanno ottenuto nulla se non la separazione definitiva da quelle simpatie che pure avevano in alcune aree sociali, abbiano rapidamente percorso la strada del declino e dell'uscita di scena almeno come organizzazione armata.
 
Si può spiegare meglio? Chi ha approfittato del sequestro dell’on. Moro?
 
Moro era inviso ad entrambe le forze dominanti dello scacchiere internazionale dell’epoca. Agli oltranzisti atlantici non piaceva il suo progetto di associare il PCI al governo, progetto che era in discussione proprio nei giorni del suo rapimento. Ma non era gradito nemmeno ai sovietici perché Berlinguer e il PCI eurocomunista partecipando al governo avrebbero dimostrato che anche per via democratica si poteva accedere alle stanze del potere e ciò avrebbe significato il crollo del primato ideologico del PCUS. Moro voleva introdurre elementi dinamici in un quadro internazionale che doveva essere statico, metteva così in discussione gli equilibri di Jalta.

Aldo Moro
 
Dei 55 giorni del sequestro quale è stato l’esatto momento che aveva dentro di sé la premessa per un esito tragico?
 
Secondo me il comunicato n. 3 con cui le Brigate Rosse annunciavano che l'interrogatorio proseguiva con la piena collaborazione del prigioniero, collaborazione ribadita nel comunicato n. 6 in cui si affermava che Moro, con nomi e fatti, aveva rivelato i responsabili delle pagine più sanguinose della storia italiana. Le Brigate Rosse avevano tuttavia dichiarato di non voler rendere subito pubblici, tramite i mass media o altri comunicati, il contenuto degli interrogatori. A quel punto l’intera vicenda è stata affrontata con occhi diversi. Non si trattava più con una operazione militare e giudiziaria solo di cercare il luogo ove era tenuto prigioniero ma di recuperare quei “verbali”. Lo ha colto bene nel suo libro di memorie Dieci anni di solitudine il senatore Giovanni Pellegrino già Presidente negli anni ’90 della Commissione stragi. Prima di tutto Moro doveva essere delegittimato diffondendo l’interpretazione che egli scriveva sotto dettatura dei suoi carcerieri e questo concetto è stato inoculato nell’opinione pubblica. Poi l’obiettivo più urgente era diventato quello di mettere le mani sugli interrogatori e renderli inoffensivi. Pensiamo al secondo rinvenimento di via Montenevoso nel 1990, con gli accenni che i manoscritti contenevano anche alla struttura Stay Behind. Molto probabilmente, questo è un aspetto che in genere non si considera, le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, a fronte del comunicato n. 6, comunque allusivo e sibillino, potevano temere che Moro avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto di più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Aldo Moro era politicamente morto, più ancora che morto divenuto ingombrante, poteva essere lasciato morire e così è stato. Il consulente USA nel comitato di crisi Steve Pieczenik ha del resto spiegato anni più tardi in una intervista che la morte di Moro non era stata un insuccesso della sua missione, anzi era stato consentito che ciò accadesse senza intervenire. L’ostaggio più importante dal punto di vista degli equilibri politici, erano invece le carte, gli interrogatori. Alla fine Moro è stato ucciso e i suoi interrogatori completi non sono stati mai trovati né resi pubblici nemmeno con la caduta dell’intercapedine di via Montenevoso. Questo nonostante l’affannosa ricerca ordinata dal generale dalla Chiesa anche in tutte carceri speciali e nonostante appaia molto difficile, come ha sostenuto Moretti, che gli originali, le bobine e forse qualche video siano stati bruciati. Le Brigate Rosse erano maniache dell’archiviazione di tutti i loro documenti e ben difficilmente, anche in vista di un utilizzo futuro, si sarebbero private di un trofeo del genere.
 
Quindi dopo l’abbandono da parte dello Stato, più interessato a quanto Moro avesse detto che alla vita dell'ostaggio, la sorte del prigioniero era segnata?
 
Credo di sì. C’è stata nelle ultime settimane prima del 9 maggio l’iniziativa del Vaticano che, lo abbiamo definitivamente accertato con il lavoro della 2ª Commissione Parlamentare Moro, aveva messo a disposizione una somma enorme, 10 miliardi di lire, da consegnare alle Brigate Rosse in cambio della salvezza dell’ostaggio. Ma per quanto condotta ad alti livelli quella del Vaticano era pur sempre una “iniziativa privata” che non proveniva dal Governo e dalle istituzioni mentre le Brigate Rosse pretendevano da queste un riconoscimento politico. Quindi era destinata a fallire.

 
Alla fine vi è stato secondo lei un accordo tacito tra le istituzioni e le Brigate Rosse?
 
Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, compreso il silenzio sui “verbali” di Moro, è molto probabile. lo ricorda sempre il presidente Pellegrino, che lo Stato si sia accontentato della verità, utile sul piano strettamente giudiziario ma parziale, offerta dal memoriale di Valerio Morucci ed il livello di “dicibililità” si sia fermato lì. Una sorta di scambio tacito, appunto. Poi Morucci, Moretti, con i suoi 6 ergastoli, e a seguire tutti gli altri alla spicciolata hanno avuto i primi consistenti benefici penitenziari dopo appena una dozzina di anni di carcere, un trattamento molto più benevolo rispetto alla carcerazione subita da militanti meno noti di altri gruppi armati che però non avevano niente da vendere e rispetto anche ai condannati per delitti comuni.
 
Chi condusse gli interrogatori di Moro?
 
Certamente non solo Mario Moretti, un semplice perito industriale che aveva la metà degli anni di Moro e che non era all’altezza sul piano culturale di condurre un dialogo del genere. Credo che i registi a distanza degli interrogatori dello statista siano state ben altre “intelligenze”, forse il prof. Giovanni Senzani, criminologo consulente del Ministero di giustizia, che operavano dalla base del Comitato esecutivo a Firenze e cioè dal back stage mai del tutto venuto alla luce di quei 55 giorni. Anche questo aspetto del sequestro è stato lasciato in ombra e anche per questo motivo le bobine degli interrogatori sono scomparse.



Passando più in dettaglio alla vostra Relazione come avete lavorato nei termini di tempo ristretti dovuti allo scioglimento delle Camere?
 
Innanzitutto per la prima volta con il lavoro di queste commissioni, la seconda Commissione Moro e la Commissione antimafia, grazie in particolare all'impegno dell’on. Stefania Ascari, si è offerta una ricostruzione visiva della scena di via Fani con piantine e rappresentazioni grafiche dettagliate in cui sono collocati, ognuno al suo posto, gli sparatori, i testimoni, le autovetture e le rose dei bossoli. E questo studio ha dato dei risultati.


Credo che si riferisca al numero e alla posizione degli sparatori. Sono stati individuati, secondo la vostra ricostruzione, tutti coloro che agirono in via Fani?
 
Credo che dalla relazione emerga, sulla base di elementi oggettivi e non di dietrologie che abbiamo sempre evitato, che in via Fani abbiano agito più sparatori rispetto quelli indicati da Valerio Morucci. Mi riferisco ad uno o più sparatori in alto a sinistra che annullarono il tentativo di reazione dell’agente Iozzino. Richiamo l’attenzione sul racconto di una testimone da noi sentita, molto precisa e attendibile, che ne vide almeno uno. Poi c’era un altro sparatore posizionato in basso a destra che colpì con estrema precisione alle spalle il brigadiere Zizzi. Ancora un testimone molto attendibile, un medico che stava passando in via Fani e che era stato praticamente dimenticato dagli inquirenti dell'epoca, ci ha confermato la presenza di una motocicletta accanto ai terroristi travestiti da avieri. Anche la presenza di una moto con funzioni di appoggio è quindi ormai una certezza. Sono protagonisti della scena di via Fani di cui non si è mai voluto dire nulla e bisognerebbe capire perché.

Giovanni Senzani

Nella relazione si parla anche di quello che è avvenuto dopo la fuga da via Fani e del trasbordo di Moro sul furgone…
 
Nella relazione c’è anche una ricostruzione della fuga del convoglio da via Fani da cui emerge che i brigatisti disponevano quella mattina non di uno ma di due furgoni e che ben difficilmente il trasbordo di Moro nella cassa di legno può essere avvenuto, come affermano, in una piazza frequentata, Piazza del Cenacolo. Con ogni probabilità quell’operazione è avvenuta nella zona isolata e boscosa di via Massimi, non molto dopo l’inizio della fuga, e con l’intervento di altre presenze che sono state taciute. Ancora sono emersi nuovi elementi che rafforzano l’ipotesi che l’ultima prigione di Moro, poco prima dell’omicidio, non fosse via Montalcini ma si trovasse proprio nella zona del Ghetto ebraico ove il corpo è stato ritrovato. Tutte zone d’ombra queste che dovrebbero avere una spiegazione e che si intersecano con il punto centrale e cioè la strategia e l’esito tragico di quei 55 giorni.

 
La relazione approvata dalla Commissione antimafia è molto critica sul modo con cui furono condotte le indagini dagli investigatori e dalla magistratura già nei momenti immediatamente successivi a sequestro. Cosa ci può dire in merito?
 
La fase iniziale delle indagini e cioè quella decisiva è stata condotta in modo artigianale. I testimoni oculari sono stati sentiti in modo più che approssimativo da differenti organi di Polizia giudiziaria e poi da magistrati che “ruotavano”, senza nemmeno una piantina che collocasse esattamente i testimoni e quanto avevano visto in un preciso punto dell'incrocio e senza mostrare fotografie dei vari modelli di vetture e furgoni da identificare. In questo modo, in assenza di una èquipe investigativa unica e dedicata, ogni audizione è avvenuta senza nemmeno conoscere il contenuto delle altre e senza quindi poter formare un quadro d’insieme e sovrapponibile. Non parlo di tecniche scientifiche, che all’epoca potevano non essere disponibili, ma di normali audizioni di testimoni la cui tecnica doveva essere un patrimonio degli investigatori e degli inquirenti. Eppure ci si trovava dinanzi al più grave delitto politico del dopoguerra. Dopo il mancato confinamento di via Fani e l’invasione dei curiosi questo è stato il secondo inquinamento colposo della scena del crimine. Poche delle conoscenze così perdute erano recuperabili, qualche testimone per fortuna è stato rintracciato e si è reso disponibile grazie all'impegno delle Commissioni parlamentari.


La Commissione ha anche sentito Franco Bonisoli uno dei componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse e presente in via Fani. Come si è rapportato con voi?
 
Franco Bonisoli ha da tempo ripudiato la lotta armata e ha partecipato ad incontri anche nelle scuole sui temi del terrorismo e della riconciliazione con Agnese Moro e i familiari di altre vittime. Ma la sua audizione è stata desolante. Ci ha raccontato di non poterci dire niente perché aveva dimenticato, sì, dimenticato, dice così, tutto quello che era successo in via Fani e dopo. Come se uno dei principali protagonisti della più importante e con maggiori conseguenze azione brigatista potesse semplicemente averla del tutto rimossa dalla sua mente. Un comportamento, quello di Franco Bonisoli ma anche di altri in occasioni simili, che fa riflettere su certi atteggiamenti puramente esteriori e poco costosi che dopo la fine del terrorismo sono stati, ingiustamente, tanto apprezzati. Un vero mutamento interiore dovrebbe passare attraverso l’offerta di verità. Altrimenti la fraternizzazione anche con i parenti delle vittime rimane una scatola vuota e priva di contenuto.
 
Cosa ne pensa del possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro dell’on. Moro?
 
Non enfatizzo un possibile intervento della criminalità organizzata nel sequestro Moro. Può darsi che vi sia stato qualche appoggio logistico, ma non molto di più. Invece è certo che durante i 55 giorni della prigionia la criminalità organizzata, dalla banda della Magliana alla Camorra, si sia proposta e sia stata attivata per individuare la prigione di Moro, anche con qualche probabilità di successo. Ma anche la disponibilità e l’attivismo della criminalità organizzata, ce lo hanno detto molte testimonianze tra cui quella di Maurizio Abbatino, fu fermata. Non per motivi etici ma perché Moro liberato non serviva più.