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sabato 24 giugno 2023

ERASMO
di Franco Toscani



9. L’appello accorato di Erasmo.
 
Ai tempi di Erasmo come a quelli nostri, ci sono dunque i cristianesimi, rigorosamente al plurale. C'è un certo cristianesimo istituzionale, ipocrita e dogmatico che finisce, tramite la retorica bellica, con l'opprimere il popolo e asservirlo alla tirannide dei principi secolari e non secolari, quando si tratta invece di seminare semen evangelicum ("spargere il seme del Vangelo") con la pratica di vita di cui tanti cristiani sono capaci senza onori e fama, con la testimonianza della ipsa vita, del modo di vita, invitando tutti, cristiani e non cristiani, alla salus (cfr. AD, 274-275). Lo spirito costruttivo di Erasmo è preminente e balza in evidenza, contrapposto allo spirito distruttivo e nichilistico di tutti i promotori di guerre: "Etenim si gloria ducuntur, non paulo magnificentius est servare quam perdere, multo pulchrius extruere civitatem quam demoliri" (nella efficace traduzione di Silvana Seidel Menchi: "Li spinge la sete di gloria? Ma è assai più lodevole preservare che annientare, è molto più nobile costruire una città che distruggerla", AD, 278-279). Parole d'oro, che andrebbero ricordate ai guerrafondai e ai seminatori di sventure di tutti i tempi. Erasmo fa appello a tutte le risorse umane, simboliche, etiche, culturali e civili per scongiurare e porre fine agli orrori di quella res tartarea, aliena a vita et doctrina Christi che è la guerra, una faccenda infernale che fondamentalmente disumanizza gli uomini - trasformandoli appunto in belve sempre pronte a uccidere o a essere uccise -, procura un'infinità di disastri e sciagure, invia alla morte innanzitutto la florida iuventus ("gioventù in fiore"), orba le donne dei loro mariti e compagni, i figli dei loro padri, colpisce duramente e in vari modi la popolazione civile (cfr. AD, 280-281).
Erasmo si ripete, torna a insistere su questi temi già trattati nel corso della sua disamina, perché le parole non bastano mai a render conto e ad esprimere ciò che si constata e si prova durante una guerra. Il suo discorso volge alla conclusione e il suo appello si fa accorato. Egli sa bene che una cultura della pace e della giustizia può affermarsi solo a determinate condizioni.



Se vogliamo essere cristiani di fatto, con coerenza e non solo di nome o per le insegne, se miriamo ad coelestia (a cose alte, celesti), se consideriamo l'inconsistenza e fugacità delle illusioni umane (quam inania sint, quam fugacia rerum humanarum ludibria), se constatiamo penitus ("profondamente") quanto sia "difficile" (ardua res) per l'uomo indiarsi (transformari in deum) e preservarsi dal contagio dei mali mondani, se pratichiamo le tre virtù dell'innocentia (ut puri simus a vitiis), della charitas (con cui possiamo giovare agli altri il più possibile) e della patientia (con cui sopportiamo i malfattori e, nei limiti del possibile, rendiamo il bene per il male), se Gesù vere est 'et via et veritas et vita' (cfr. Gv, 14, 6), se tutte queste condizioni si attuano, noi potremo vivere godendo i frutti della pax e della charitas (cfr. AD, 282-283).
Carità e pace sono o dovrebbero essere dunque alla base anche dell'azione politica dei pontefici, principi e re, negli stati e nelle città. Con una evidente ispirazione platonica, Erasmo scrive che i governanti devono essere nella res publica e nello stato quod oculus est in corpore, quod in anima ratio ("quel che l'occhio è nel corpo, quel che è nella vita interiore la ragione", cfr. AD, 282-283). Fin troppo sangue si è versato, troppe guerre interminabili (diutina bella) hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la storia umana e dei cristiani in particolare. Grande è dunque (o dovrebbe essere, se la ragione si affermasse) il desiderium pacis di tutti ed Erasmo conclude il saggio Dulce bellum inexpertis riponendo le sue speranze nel nuovo pontefice Leone X, della famiglia dei Medici (famosa per il suo mecenatismo e amore per gli studi). Cresciuto fra gli uomini più colti del suo tempo (suoi precettori furono Angelo Poliziano, Marsilio Ficino, Bernardo Dovizi da Bibbiena), in Musarum gremio educatus, Leone X era succeduto al soglio pontificio nel marzo 1513, dopo il quasi decennale e disastroso pontificato di Giulio II (1503-1513). Alla fine del suo adagium, Erasmo esorta il nuovo pontefice a ristabilire fra gli uomini un vincolo e un clima di communis concordia, invitandolo a far rifiorire nella chiesa il messaggio evangelico, non certo a confermare il primato delle opes (ricchezze) e dell'imperium (potere, dominio, cfr. AD, 284-285).