9.
L’appello accorato di Erasmo. Ai
tempi di Erasmo come a quelli nostri, ci sono dunque i cristianesimi, rigorosamente al plurale. C'è un certo cristianesimo
istituzionale, ipocrita e dogmatico che finisce, tramite la retorica bellica,
con l'opprimere il popolo e asservirlo alla tirannide dei principi secolari e
non secolari, quando si tratta invece di seminare
semen evangelicum ("spargere il seme del Vangelo") con la pratica
di vita di cui tanti cristiani sono capaci senza onori e fama, con la
testimonianza della ipsa vita, del
modo di vita, invitando tutti, cristiani e non cristiani, alla salus (cfr. AD, 274-275). Lo spirito
costruttivo di Erasmo è preminente e balza in evidenza, contrapposto allo
spirito distruttivo e nichilistico di tutti i promotori di guerre: "Etenim
si gloria ducuntur, non paulo magnificentius est servare quam perdere, multo
pulchrius extruere civitatem quam demoliri" (nella efficace traduzione di
Silvana Seidel Menchi: "Li spinge la sete di gloria? Ma è assai più
lodevole preservare che annientare, è molto più nobile costruire una città che
distruggerla", AD, 278-279). Parole d'oro, che andrebbero ricordate ai
guerrafondai e ai seminatori di sventure di tutti i tempi. Erasmo fa appello a
tutte le risorse umane, simboliche, etiche, culturali e civili per scongiurare
e porre fine agli orrori di quella res
tartarea, aliena a vita et doctrina Christi che è la guerra, una faccenda infernale che fondamentalmente
disumanizza gli uomini - trasformandoli appunto in belve sempre pronte a
uccidere o a essere uccise -, procura un'infinità di disastri e sciagure, invia
alla morte innanzitutto la florida
iuventus ("gioventù in fiore"), orba le donne dei loro mariti e
compagni, i figli dei loro padri, colpisce duramente e in vari modi la
popolazione civile (cfr. AD, 280-281). Erasmo
si ripete, torna a insistere su questi temi già trattati nel corso della sua
disamina, perché le parole non bastano mai a render conto e ad esprimere ciò
che si constata e si prova durante una guerra. Il suo discorso volge alla
conclusione e il suo appello si fa accorato. Egli sa bene che una cultura della
pace e della giustizia può affermarsi solo a determinate condizioni.
Se
vogliamo essere cristiani di fatto, con coerenza e non solo di nome o per le
insegne, se miriamo ad coelestia (a cose alte, celesti), se consideriamo l'inconsistenza e fugacità delle
illusioni umane (quam inania sint, quam
fugacia rerum humanarum ludibria), se constatiamo penitus ("profondamente") quanto sia
"difficile" (ardua res) per
l'uomo indiarsi (transformari in deum) e preservarsi dal contagio dei mali mondani,
se pratichiamo le tre virtù dell'innocentia
(ut puri simus a vitiis), della charitas (con cui possiamo giovare agli
altri il più possibile) e della patientia
(con cui sopportiamo i malfattori e, nei limiti del possibile, rendiamo il bene
per il male), se Gesù vere est 'et via et
veritas et vita' (cfr. Gv, 14,
6), se tutte queste condizioni si attuano, noi potremo vivere godendo i frutti
della pax e della charitas (cfr. AD, 282-283). Carità
e pace sono o dovrebbero essere dunque alla base anche dell'azione politica dei
pontefici, principi e re, negli stati e nelle città. Con una evidente
ispirazione platonica, Erasmo scrive che i governanti devono essere nella res publica e nello stato quod oculus est in corpore, quod in anima
ratio ("quel che l'occhio è nel corpo, quel che è nella vita interiore
la ragione", cfr. AD, 282-283). Fin troppo sangue si è versato, troppe
guerre interminabili (diutina bella)
hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la storia umana e dei
cristiani in particolare. Grande è dunque (o dovrebbe essere, se la ragione si
affermasse) il desiderium pacis di
tutti ed Erasmo conclude il saggio Dulce
bellum inexpertis riponendo le sue speranze nel nuovo pontefice Leone X,
della famiglia dei Medici (famosa per il suo mecenatismo e amore per gli
studi). Cresciuto fra gli uomini più colti del suo tempo (suoi precettori
furono Angelo Poliziano, Marsilio Ficino, Bernardo Dovizi da Bibbiena), in Musarum gremio educatus, Leone X era
succeduto al soglio pontificio nel marzo 1513, dopo il quasi decennale e
disastroso pontificato di Giulio II (1503-1513). Alla fine del suo adagium, Erasmo esorta il nuovo
pontefice a ristabilire fra gli uomini un vincolo e un clima di communis concordia, invitandolo a far
rifiorire nella chiesa il messaggio evangelico, non certo a confermare il
primato delle opes (ricchezze) e dell'imperium (potere, dominio, cfr. AD, 284-285).