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venerdì 30 giugno 2023

VOLIZIONE E IMPOTENZA
di Angelo Gaccione

 
Sei tu il milanese, io invece sono un calabrese
”. Così mi aveva apostrofato più volte e con bonario affetto il poeta lombardo Guido Oldani, teorico e ideatore del realismo terminale, invertendo le parti. Lui saggiamente calmo, controllato, non schiavo del tempo, rispettoso del suo scorrere e senza forzature. Io, invece, calabrese contronatura, maniaco della puntualità, ossessionato dal tempo come se non mi bastasse mai. Il poeta di Melegnano con quelle parole intendeva sottolineare il mio attivismo ipercinetico, la mia divorante nevrosi per il fare, i miei ritmi stakanovisti propri degli abitanti di questa città della fretta. Ma così lo sono diventato o lo sono sempre stato? Ora che ci penso lo ero già da ragazzo e l’età adulta non ha fatto che accentuarlo questo attivismo. Milano, da parte sua, ha esasperato in me il binomio tempo-ritmo, tanto da rendermi inquieto se sono costretto a fermarmi, se non posso essere parte dell’azione collettiva. Persino il passo ha finito per assumere un ritmo esagerato, e si è contratta di molto la frazione di tempo che dedico ai pasti. Devo fare, questa è la mia condanna. L’indolenza mi è insopportabile e ho sempre avuto un debole per gli uomini d’azione. Invidio la pacatezza di Oldani, io ritrovo la mia quando vado in cerca della mia Milano, quando la esploro e mi perdo. Allora sento che il cuore rallenta il battito e il respiro diventa umano. Quando però agisco, mi butto a capofitto e lo faccio fino allo sfinimento, fino al traguardo che raramente mi sfugge. Forzo il tempo con impazienza come a volerlo domare. Ma di recente, trovandomi a fare i conti con un problema di salute, sono stato costretto a rallentare il passo. È avvenuto ciò che sapevo da sempre e su cui ho più volte scritto e ragionato. Non c’è volizione che possa tener testa all’impotenza, per quanto forte, intensa, caparbia, ostinata essa sia. Quando il corpo diviene debole o incapace di muoversi, anche la volontà si piega e ogni volizione è costretta alla resa, a riconoscere l’inanità dei suoi sforzi. “Noi non abbiamo un corpo, ma siamo il nostro corpo” ha scritto su “Odissea” il saggista piacentino Franco Toscani. Un corpo estremamente fragile. Etereo, come un sospiro.