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mercoledì 12 luglio 2023

INTEGRAZIONE O COESISTENZA?
di Graziano Mantiloni


Ho avuto sempre il torto o il pregio non so, comunque il pallino di considerare il mio paese natale un microcosmo che rappresenta bene, in scala, molte delle problematiche della nostra società. Prendiamo l’immigrazione. Nel paese, Castel del Piano, bassa Toscana, circa 4700 abitanti, sono presenti poco meno di un migliaio di stranieri, di una cinquantina di etnie diverse, che a vario titolo vi hanno preso stabilmente dimora. Circa un quarto del totale, senza contare gli “irregolari”. Non volendo tenere in considerazione razzismi o presunti primati di appartenenza a un luogo (che pur esistono e non fanno che peggiorare le cose), si deve constatare che il fenomeno ha raggiunto vette importanti e ha portato con sé il problema dell’integrazione. Tuttavia, il termine “integrazione”, che ormai sta sulla bocca di tutti, se si guarda sul vocabolario, non vuol significare altro che inserimento in un contesto sociale accettandone usi e costumi e forse pure la mentalità. È questo quello che intendiamo? Un’illusione che non fa altro che affaticare quei processi di evoluzione dei popoli, che esistono da che esiste l’uomo. Si dovrebbe parlare più appropriatamente di “coesistenza”. Infatti, non dovremmo mai dimenticare che ciò che spesso viene considerata la “nostra” civiltà non è altro che lo stratificarsi di usi, costumi, credenze, culture, che nel corso dei secoli hanno creato “altre” popolazioni interagendo tra loro. Possiamo forse dire che noi italiani siamo i diretti discendenti dei Latini, o Etruschi, o Dauni? Ma neanche per idea! I miei discendenti, tanto per fare un esempio personale, sono immigrati in zona nel 1709 in seguito a una grave carestia. Lo scienziato Guido Barbujani attraverso uno studio complesso e articolato ha dimostrato partendo dal DNA quanto l’Italia sia un territorio che potrebbe benissimo essere definito un crogiuolo di genti provenienti da varie parti del mondo. Dico che, tanto per riprendere il ragionamento sull’attualità, preso atto che se non ci fossero gli immigrati il paese si sarebbe drammaticamente spopolato (la scuola elementare, ad esempio, sarebbe a rischio soppressione), ma da sempre le popolazioni, in osmosi continua, si sono spostate per i più vari motivi tra cui guerre, pestilenze, fame, portandosi dietro i loro costumi e la loro cultura mescolando e mescolandosi con gli altri. Anche oggi, ritrovare in un paese una sovrabbondante varietà di etnie, usanze, religioni, è un dato di fatto irreversibile e non può che avviare un processo inarrestabile di evoluzione della società, che durerà per generazioni, un passaggio a livelli di convivenza come non avremmo mai immaginato e non può che essere un bene. Sì, qualcuno a questo punto storcerà il naso, ma sono convinto che è dal contrasto, dallo sforzo al dialogo, dalla capacità di ascolto e comprensione che nasca un nuovo modo di vivere nel futuro. Certamente, pretendere che chi arriva in un paese, disperato, profugo, senza conoscere la lingua, con problemi esistenziali giganteschi, possa adattarsi, pretendere che vestano in giacca e cravatta se fino a ieri vestivano la tunica pakistana, oppure biasimarli per quel telefonino portato perennemente davanti agli occhi come un cordone ombelicale, è veramente difficile. O possiamo pretendere che si converta al cristianesimo chi ha radicata una credenza diversa?
Non ho verità in tasca o ricette da prescrivere, ma sono convinto che in questo momento ogni persona di buon senso, ogni Amministrazione locale, ogni assessore addetto al “sociale”, debba fare tutti gli sforzi possibili per creare occasioni di dialogo con chi arriva da lontano, disperato, senza nulla indosso se non il proprio portato di tradizioni e conoscenze, scegliendo di vivere tra i vicoli ormai abbandonati di un paese che ha perduto da tempo la sua fisionomia, l’urbanistica, il suo tessuto sociale ed economico.
Una Amministrazione locale ha il compito e il dovere di porsi in prima linea per affrontare in ogni occasione la nuova epoca dominata dall’immigrazione. Organizzare anche una festa curda o indiana, uno spettacolo all’usanza senegalese piuttosto che cinese, una cena comune con prodotti tunisini o del Marocco, potrebbero costituire importanti passi di avvicinamento. Come non si stanca di ripetere anche Papa Francesco, bisogna andare incontro al fratello e porger lui una mano. Questo deve essere lo spirito. Sì, almeno un sorriso, può innescare un processo virtuoso utile alla coesistenza. È difficile a volte fare comunità o meglio fare una nuova comunità, ma oggi siamo in mezzo a questo processo inarrestabile (checché ne dicano quelli che vorrebbero alzare muri o chiudere i porti), ci si deve impegnare in ogni ambito possibile con tutte le energie di cui disponiamo consapevoli che i tempi sono lunghi ma non se ne può fare a meno.