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lunedì 31 luglio 2023

MELVILLE E IL CASSONETTO DELL’IMMONDIZIA
di Angelo Gaccione
 

Cesare Pavese

Parlando di Herman Melville, e in particolare del racconto Benito Cereno, in un lontano scritto del 1932, Cesare Pavese sottolinea il clima di indifferenza e di avversione del pubblico nei confronti dell’autore di Moby Dick. La magia era svanita man mano che la sua prosa si era allontanata dall’esotismo, lo stile si era fatto più “pregnante” e la materia aveva imboccato strade nuove e più ardite. La critica non sarà da meno e oscillerà fra silenzio, avversione e stroncature. Finiva così l’illusione del narratore di guadagnare con la scrittura “il pane per sé e per la sua famiglia”. Il passaggio di Pavese è impietoso: “(…) accadeva che toccasse ai lettori e ai recensori il compito di ricordargli che la società non da nulla per nulla e che chi vuole essere acclamato deve in sostanza divertirla o viziarla” [‘Melville, i miti di Moby Dick e Benito Cereno’].
Questo scritto è stato ora riproposto nel volume Cesare Pavese il mito, curato da Marcello Veneziani per la casa editrice Vallecchi di Firenze. Credo che ad ogni scrittore degno di tale nome dovrebbe interessare questa puntuta sottolineatura di Pavese e meditarla. Assecondare il gusto del pubblico fino a viziarlo, costituisce, a mio modesto parere, un tradimento. Un tradimento per la sua coscienza morale, la sola a cui uno scrittore scrupoloso deve obbedire. Da tempo, oramai, il novantanove per cento di quello che ancora definiamo letteratura, ha preso una pericolosa deriva. Da un lato il pubblico viene viziato e saziato fino alla bulimia, dall’altro si sono fatti sempre più stretti e invalicabili gli anfratti, già molto accidentati, per quei pochissimi che non vogliono né vellicare i gusti deteriori del pubblico, né provocare offesa alla propria coscienza morale di scrittori.


Herman Melville
in un ritratto di Joseph O. Eaton

Non c’è figura pubblica (vale per ogni ambito delle professioni e per ogni ambito dell’intrattenimento), che non possa contare sulla benevolenza del potere mediatico e sui suoi circuiti di diffusione di massa – variamente connotati – a cui non venga spalancata la porta dell’editoria “maggiore”. È divenuto così pervasivo, invadente, e forse inarrestabile, questo processo, che una marea di titoli inutili e mediocri sommerge il poco di buono in circolazione e lo soffoca. Una foresta fitta e intricata, che raramente lascia scampo a qualche “cespuglio” dalla forma e dal pensiero dissonanti, che tenta disperatamente di far capolino dalla sterpaglia. Il prodotto stesso (così si parla del libro negli ambienti del commercio) ha finito per perdere di autorevolezza, ed è scomparsa quell’aura di rispetto che lo aveva per secoli e secoli contraddistinto. Si dirà: la società di massa ha bisogno di prodotti di massa. Il consumismo è basato sulla merce, anche su merci deteriori, ed il libro è una merce come un’altra soggetta al consumo e al cassonetto dell’immondizia.
Potevano bastare le televisioni per questo, gli stadi, i festival di San Remo, i rotocalchi, i talk show. Ma così stanno le cose e bisogna prenderne atto.
Tenete duro voi scrittori dignitosi e marginali, non concedete un centimetro al nemico. Lo so, dovete farvi largo avanzando con il pugnale ben serrato fra i denti, ma non vi è dato altro, se non volete finire nel cassonetto della spazzatura.