Virtuosi del violino ce ne sono sempre
stati fin dalle origini dello strumento, databile, così come lo conosciamo,
intorno alla metà del Sedicesimo secolo. L’immenso Vivaldi, il grande Giuseppe
Torelli, il “diabolico” Giuseppe Tartini erano dei virtuosi dotati di una
tecnica impressionante. Così come prima di Niccolò Paganini – o per venire in
anni a noi più vicini – di Eugène Ysaÿe, lo erano stati Bach, Corelli, Verracini,
tanto per fare qualche nome. Dunque, l’uso solista dello strumento in mano a
questi giganti era una pratica abituale. Oggi meno, perché il violino eccelle
nell’orchestra in una dimensione corale e dialoga e si confronta con il resto
degli strumenti, anche se assieme alla famiglia degli archi conserva una presenza
numericamente superiore. Il concerto moderno è per sua natura un atto corale,
collettivo, e solo di rado viene proposta l’esibizione di un solista senza
altro accompagnamento che il solo strumento per un intero evento musicale.
Eppure, partiture per violino solo realizzate da compositori celebri ne
esistono eccome: basti pensare ai 24 Capricci di Paganini o alle 12 Fantasie di
Georg Philipp Telemann. Certo, il nostro orecchio è da tempo abituato ad una
armonia variegata di suoni, alle tante coloriture che ogni strumento emette e
che amalgamandosi creano quella magia sonora che ci rapisce e ci tiene in
pugno; ma chi ha avuto la fortuna di sentire dal vivo un mostro come Paganini o
ascoltare una esecuzione barocca di Bach, si deve essere convinto che la loro
maestria era capace di costruire, con le variazioni più incredibili, un
accompagnamento degno di questo nome.
Paganini in un disegno
Ce ne ha dato la prova nella sala Alessi
di Palazzo Marino Emma Arizza con il suo violino da solista. Ha eseguito brani
di Bach da Partita in re minoren. 2 e Partita in mi maggiore
n. 3; due Capricci di Paganini (l’11° e il 17°) e due omaggi di Ysaÿe
a Jacques Thibaud e a George Enescu. Abbiamo potuto ammirare senza alcuna forma
di cedimento la solenne maestosità del “ruscello di Eisenbach” (Beethoven
riferendosi alla vastità e alla qualità della sua musica lo ha definito “mare”
più che un “ruscello”), come gli esplodenti lapilli generati dalle note di
Paganini e di Ysaÿe senza avvertire la mancanza di altri strumenti. La ginnastica e la concentrazione che Paganini impone alle dita e alla mente del
violinista sono spietate, e l’occhio dello spettatore, a sua volta, viene
ipnotizzato più dalla esecuzione che dalle note. Le dita e l’archetto compiono
sulle corde vere e proprie escursioni funamboliche; i trilli e i suoni guizzano
come fiamme sempre più in alto per poi precipitare rapidamente in un’alternanza
continua e senza respiro. Il corpo stesso dell’esecutrice è come inchiodato, e
non può permettersi sbilanciamenti di sorta. Alla fine, quando la tensione si
scioglie, quel che abbiamo visto e udito ci conferma che un violino solo, e una
mano sicura che lo guida, bastano a fare un concerto.