Èstata la
segnalazione di Claudio Toscani il 6 settembre 2023 su “Avvenire” a invogliarmi
all’acquisto di questo libro, mosso da due motivazioni intrecciate. La prima è
conoscere meglio, al di là dei suoi molti scritti dottrinari (ma forse è
riduttivo definirli così, e neppure “teorici” si conviene loro, meglio
teologici), l’autore. La seconda è la speranza di potermi addentrare meglio
nelle radici vissute della sua convinta adesione al mondo di Comunione e
Liberazione, di cui resta tra i rappresentanti di maggiore spicco; ad esso ha
dedicato non pochi impegnativi scritti. La mia non è alcuna ricognizione piena
di Nella luce dell’inizio; mi soffermerò solo su alcuni spunti
(discutibili, certo) che la lettura mi ha offerto. Queste pagine mi hanno per
lunghi tratti coinvolto; non fosse stato così, non avrei loro dedicato
quest’attenzione, che mi viene spontanea. Ho tentato di spiegarmi il titolo,
dubito mi sia riuscito. Lo si può connettere, penso, con l’esperienza di
Comunione e Liberazione (e, prima, della Gioventù Studentesca), quale si è
configurata nell’autore. In questa linea mi è parso di scorgere in suor
Cristiana (pp. 169-172) una sorta di controfigura al femminile del don Giussani
che tanta presa ha avuto su taluni. “Effettivamente
– mi conferma Camisasca - suor Cristiana rappresenta una eco un po’ sbiadita di
don Giussani”. Devo confessare: conosco da tempo Massimo
Camisasca (e suo fratello Franco, cui il libro è significativamente dedicato);
non ho letto molto di lui, non so quanto ne ho davvero capito, ma mi ha sempre
interessato; così mi ha colpito quel tanto che ho saputo della sua vita.
Ricordo Comunione e Liberazione. Le origini (1954-1968) - ediz. San
Paolo 2001, introdotto da Josef Ratzinger; recensito tra gli altri da Gad
Lerner sul “Corriere della Sera” nella primavera del 2001. Non ho modo di
rileggerlo ora, ma lo conservo segnato a matita; mi sono rimaste però le pagine
sull’ambiente provinciale in cui è cresciuto don Giussani, per certi aspetti
analogo a quello in cui sono vissuto io,più
tardi. Sullo sfondo sta il mio superficiale rapporto con don Giussani, che pur
a modo mio posso dire di aver frequentato. È nato 17 anni prima di me; quando
l’ho conosciuto la sua posizione, ormai affermata, era ben diversa da quella di
un mero, provvisorio supplente al Berchet, quale ero io. Ricordo la scarsa
volontà, peraltro reciproca, di conoscersi; dovrei rimproverare anche a me
stesso il vuoto di empatia che ho ascritto a lui. Devo anche aggiungere che, in
questi giorni malagevoli per me, l’urgenza di tornare a un mondo lontano, ma
per me tuttora ricco di colori, si è acutizzata. Ma torniamo al libro: ben
impaginato, a righe larghe, a caratteri leggibilissimi - ed è un sollievo.
Accattivante la figura di copertina: è già una promessa. L’esergo poi - Tout
comprendre, pour tout pardonner - affascina e insieme interroga; imprime
una commovente patina esistenziale all’intero testo.
Il periodo in cui si distende la narrazione è
breve: tra il maggio del 1966 e il giugno del 1968. Pochi i personaggi in
gioco: protagonisti sono Enrico (il padre), Marco (il figlio), cui si aggiunge
Lucia amata, alfine - in un lieto fine - condotta all’altare da Marco: è leisoprattutto a dar volto all’ossatura affettiva
del testo. Nelle giornate in cui si articola il raccontotuttavia si proiettano ricordi, attese, speranze. Si
rapprendono eventi, persone, meditazioni appartenenti ad anni, climi,
contingenze lontane, e per forza di cose differenti. Della figura del padre
colpisce il rifiuto di aderire alla Repubblica Sociale, la conseguente,
debilitante, prigionia in uno Stalag (come successe a non pochi altri, tra cui
Guareschi, Paci...). Sorprendente è il dialogo difficile, altalenante, e
tuttavia rassicurante tra padre e figlio: diversi casi della vita vi si
intrecciano; diverse sono le difficoltà anche affettive attraversate. La vita
del figlio Marco è incerta ma alla fine riuscita. L’ambiente in cui si muove la
vicenda non è il mio, ma ho apprezzato il modo di narrare di Camisasca:
spigliato, snello, mai inutilmente contorto; penetrante nelle osservazioni
psicologiche e nelle riflessioni etico-filosofiche o religiose. Teso infine a
evitare dogmatismi e aprioristici paraocchi, o così mi è parso, encomiabilmente
dal mio punto di vista. Mi è sembrato riflettere quello “stato d’animo di
silenzio, di pace, di accordo con le cose, di serenità; un senso di giusta
distanza nella vita: né ansia, né disinteresse” - di cui leggo a p. 8). Un’eco
di Pavese si avverte nel perseguire “quello stile asciutto, essenziale, che
esalta il valore della parola, senza togliere nulla al sangue della frase o del
verso” (p. 72). Non è il mio mondo, ripeto, e tuttavia vi è presente qualcosa
che riguarda anche me; persino la visione del mondo mi è forse meno estranea di
quanto si possa pensare. Non solo la crudele “caccia alle lucertole” (pp.
159-160), per me tra me macerie della Milano dell’immediato dopoguerra; non
solo l’imbarazzante richiesta “di salire su una sedia e recitare una poesia
davanti agli ospiti, nei giorni di festa” (p. 186); non solo un cenno al gioco
delle carte (p. 74). Ma soprattutto la sensibilità per la natura, la
consuetudine col mondo culturale; il ritorno di artisti da me molto amati quali
Montale, Dostoevskij, Mozart, Manzoni, Caravaggio, Verdi, Primo Levi ...;
assente tuttavia il “mio” Kafka.
L’universo culturale in cui si muove il
romanzoè variegato, non manca l’attenzione
al sociale, alla dimensione estetico-artistica, alla realtà psicologica (citata
è tuttavia la psicanalisi, non la psichiatria), ovviamente al mondo femminile,
che ha anzi un grande rilievo. Dominante resta tuttavia la sensibilità
religiosa, evidente soprattutto nelle ultime pagine, otre che naturalmente
nella figura di Massimo Camisasca. Una sensibilità che non è la mia e tuttavia
non mi è così estranea, anche se esiste per me in modi e in sensi assai lontani
dai suoi, ed è stata raggiunta da me per vie sensibilmente differenti.
Nell’insieme mi colpisce la visione del mondo presente nel libro: la fiducia in
un tono della vitaanimato dalla speranza,
lontano da malinconie, depressioni, angosce, abbandoni (ma l’abbandono èanche affidamento...): “L’abbandono rimane dentro
di noi come una voce che non possiamo accettare. Eppure possiamo guarire, se
impariamo a poco a poco a perdonare” (p. 148). Questo riprende e motiva
l’esergo. L’esortazione è a tentare risposte, a reagire; e non in nome di
nulla. A questo si associa una religiosità non nemica del vivere, della sua possibile
gioia, del piacere di esistere. Una prospettiva per nulla nuova per me, e già
presente negli scrittori da me amati, se non in forme di religiosità appena
sfiorate. C’è un messaggio a cuiNella
luce dell’inizio dà voce, ed è questa visione positiva della vita, un
tantino idilliaca forse, ma aperta alla speranza e alla felicità, non consumata
tra malinconie, depressioni, sfiducie. Un’istanza condivisibile, che certo ha
proprie condizioni di possibilità in esistenze che si sono salvate, e che può
comunque realizzarsi per vie differenti, anche lontane tra loro. Come tanta
arte di ogni tempo insegna.Camillo De Piaz
coglie benissimo che “il cristianesimo non può e non deve essere inteso come un
disperato, suturno, e disumano soggiorno di sragionate rinunce”. Hanno inciso
troppo “sulle meditazioni cristiane le fonde occhiaie e il lucidi pallori dei
teschi, troppo cisi è scordati” del “gesto
festivo di Cristo a Cana” (Giuseppe Gozzini, Sulla frontiera. Camillo De
Piaz, la Resistenza, il Concilio e oltre, Scheiwiller, Milano 2007, pp.
81-82). Delle due domande iniziali la prima ha ottenuto risposta, mi si è
confermato e arricchito il tono della personalità di Massimo Camisasca. Quanto
a Comunione e Liberazione non saprei... sarà per un’altra volta.
Massimo
Camisasca Nella
luce dell’inizio Ed.
San Paolo 2023 Pag.
190, € 16.