Deepak Tripathi è un PhD, un ricercatore
all’inizio della carriera accademica, britannico che con diligenza
ripercorre la storia del concetto di sovranità. Il difetto principale del
suo saggio, oltre a quello di non mettere in discussione la NATO, è di aderire
al punto di vista mainstream che non distingue tra sovranità e
potere: con il rifiuto del potere assoluto si finisce così per giustificare la
sovranità limitata. In realtà, come si è detto altre volte, la sovranità o c’è
o non c’è – tertium non datur. Il motivo è che la sovranità è la
condizione per l’esercizio della responsabilità di governo – senza
sovranità, ossia quando si debba rispondere a qualcun altro, o quando non si
capisca bene chi comandi, si è degli irresponsabili. Sebbene più antico della
dottrina della divisione dei poteri – Montesquieu pubblica De l’Esprit
des Lois nel 1748 – il concetto moderno di sovranità, nato con la Pace
di Vestfalia, 1648, è stato meno oggetto delle riflessioni dei filosofi, legato
com’era alla separazione tra potere politico e religioso. Sono stati gli
americani, o Tocqueville nell’osservarne i costumi – qui Tripathi non è chiaro
– a teorizzare il principio che la sovranità appartiene al popolo. Tocqueville
era infatti impressionato dalla vitalità e dall’autonomia delle comunità locali
negli Stati Uniti del primo Ottocento. Fra l’altro, ciò spiega perché il
termine populismo abbia avuto negli Stati Uniti un significato meno negativo
che in Europa, dove è sinonimo di demagogia, almeno finché non è arrivato
Trump. È immaginabile che sempre agli americani si debba l’introduzione del concetto
di sovranità e del principio di non ingerenza nella Carta delle Nazioni Unite.
Come sappiamo, con la morte di Roosevelt, gli Stati Uniti hanno subito
imboccato la direzione opposta, e per questo non è così azzardato pensare che
il motivo per cui nella costituzione di un paese occupato come l’Italia, il
concetto di sovranità deducibile dagli articoli 1 e 11 sia così vago, sia
l’influenza dell’occupante (che negli stessi mesi in cui si elaborava la
Costituzione imponeva il “regime change”, ovvero la fine del governo di unità
nazionale). Va in proposito ricordato che il “rules based order” è un sistema
in cui i governi si sottopongono alle regole americane, ossia diventano
irresponsabili. Ciò ci porta alla domanda: ma allora essere sovrani vuol dire
non accettare nessun vincolo esterno? Evidentemente no; la convivenza richiede
che si facciano accordi e si medino interessi opposti per salvaguardare la pace
mondiale. Il problema è che questi accordi, che questi trattati non possono
essere definitivi: ogni governo, vecchio o nuovo, deve avere la facoltà di
recedere se le condizioni pattuite si rivelino insoddisfacenti o contrarie ai
propri interessi. Il caso della NATO, dove nessuno se ne va, pur di fronte a un
cambio di natura – da alleanza difensiva a offensiva – e dove, grazie al folle
art. 5, si è stati chiamati ad andare in Afghanistan con il pretesto di un
attacco terroristico, rivelatosi a tutti gli effetti frutto di un diabolico
complotto interno, è tipico di un trattato limitativo della sovranità
nazionale, quindi da ripudiare. La NATO è anche il motivo per cui nessuno oggi
se ne va da una UE che è diventata un’organizzazione guerrafondaia. Eppure la
libertà di andarsene dall’UE è fuori discussione, come ha dimostrato Brexit. Ma
lì, dal punto di vista americano, i motivi erano più futili, e non c’era la
guerra. Decisivo per il successo di Brexit è stato l’appoggio di un Corbin
giustamente indignato per il trattamento della Grecia, ma con le idee
altrettanto confuse sull’ordine internazionale. Diventata incerta, in
particolare dopo la Grecia, la convenienza economica dell’appartenenza all’UE,
e diventata inaccettabile la sua posizione sulla guerra, la permanenza in essa
ha senso solo per dare più peso alla battaglia per lo scioglimento della NATO,
priorità assoluta per un’Europa che voglia riprendere in mano il proprio
destino, ed essere fattore di ordine e di pace.