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sabato 16 settembre 2023

MUSEI E COSCIENZA
di Angelo Gaccione

Honoré Daumier: Ecce Homo
 
Facendo visita alla pinacoteca di Essen durante un suo viaggio in Germania, lo scrittore francese Julien Green in una pagina del suo diario annota: “Cento capolavori almeno. Che noia! Si entra quasi per vedere se tutto è a posto alle pareti. I musei sono i luoghi più finti inventati dall’uomo, e l’allestimento dà la nausea nel giro di un minuto come quello di una pasticceria (oppure bisogna avere dodici anni). Riesco a guardare soltanto un paio di quadri, poi non vedo più niente, penso ad altro, a quello che si vede dalle finestre, a quello che sognavano i pittori mescolando i colori, e certamente non a finire in questo Père-Lachaise della cultura. Ciascun museo diventa l’anticamera delle imbalsamazioni, con quel silenzio di rigore accanto al letto dei defunti”. I quadri davanti ai quali si era soffermato Green erano l’Ecce Homo di Honoré Daumier e il Cristo con i pargoli di Emil Nolde. L’opera di Daumier realizzata nel 1851 e rimasta incompiuta, raffigura un Cristo incatenato esibito da Pilato dall’alto di un informe terrazzo ad una folla fitta e nutrita che si accalca di sotto ai piedi di un palazzo. Il fascino di questo “abbozzo” di dipinto è tutto nella sua incompiutezza e in quella figura di bambino nudo retto dal padre fra le braccia che spicca in primo piano. Il dipinto di Nolde, invece, coglie di spalle il Cristo mentre si piega ad abbracciare un bambino circondato da una nidiata di loro. Anche qui poche pennellate decise che non concedono nulla ai canoni di perfezione e di bellezza ai quali i secoli precedenti ci avevano abituati. Green deve avere sentito queste pitture come più essenziali e più vere rispetto allo spirito religioso, e il loro afflato umano in stridente contrasto con la greve e linda atmosfera del museo. Erano forse l’ordinata disposizione e l’accumulo eccessivo di opere a produrre nello scrittore francese questo sentimento di ostilità nei confronti dei musei o un problema di preferenze artistiche? Non si spiegherebbe altrimenti un giudizio tanto severo per il contenitore; così perentorio da spingerlo fino a paragonarlo addirittura a un cimitero.


Emil Nolde: Cristo con i pargoli

Si possono muovere molte critiche ai musei, ma senza la loro istituzione non solo non potremmo godere della vista di tanti capolavori – molti dei quali sarebbero rimasti sigillati nelle magioni private di ricchi magnati – ma avrebbero anche corso il rischio di andare dispersi, non restaurati con fedeltà e rigore filologico, e persino di finire in mano a trafficanti senza scrupoli. Tuttavia, le parole di Green contengono un fondo di verità. Ho potuto sperimentare personalmente, e in varie occasioni, il sentimento di estraneità e di straniamento che deve avere avvertito lui alla pinacoteca di Essen. Queste mie sensazioni di fastidio si sono rivelate davanti al gigantismo delle strutture, alla sovrabbondanza eccessiva di opere presenti nelle sale, allo scintillio dello sfarzo non sempre consono. Spesso una sola opera ben sistemata, perfettamente illuminata e dalla luce calda, può affascinarci molto di più di un salone immenso e stracolmo. Musei più raccolti, più intimi, hanno avuto su di me una presa più profonda rispetto ad un contenitore sterminato. Nel primo caso l’animo entra in risonanza e l’occhio si appaga; nel secondo l’animo è divorato dal desiderio spasmodico di vedere tutto e subito. In questo modo l’occhio si stanca, diventa pigro, rigetta. E la coscienza, a sua volta, fa fatica a trattenere, a rimanere lucida. Perché non considerare l’idea di tanti musei più piccoli e diffusi sull’intera città, invece di costringere i visitatori a ore ed ore di abbuffate, a resse esagerate, a camminate da sfinimento? Ci sarebbe anche l’enorme vantaggio della sicurezza in caso di pericolo, oltre ad un minore impatto di anidride carbonica e di calore. Aspetti, questi, da non trascurare.