Facendo
visita alla pinacoteca di Essen durante un suo viaggio in Germania, lo
scrittore francese Julien Green in una pagina del suo diario annota: “Cento
capolavori almeno. Che noia! Si entra quasi per vedere se tutto è a posto alle
pareti. I musei sono i luoghi più finti inventati dall’uomo, e l’allestimento
dà la nausea nel giro di un minuto come quello di una pasticceria (oppure
bisogna avere dodici anni). Riesco a guardare soltanto un paio di quadri, poi
non vedo più niente, penso ad altro, a quello che si vede dalle finestre, a
quello che sognavano i pittori mescolando i colori, e certamente non a finire
in questo Père-Lachaise della cultura. Ciascun museo diventa l’anticamera delle
imbalsamazioni, con quel silenzio di rigore accanto al letto dei defunti”. I
quadri davanti ai quali si era soffermato Green erano l’Ecce Homo di
Honoré Daumier e il Cristo con i pargoli di Emil Nolde. L’opera di
Daumier realizzata nel 1851 e rimasta incompiuta, raffigura un Cristo incatenato
esibito da Pilato dall’alto di un informe terrazzo ad una folla fitta e nutrita
che si accalca di sotto ai piedi di un palazzo. Il fascino di questo “abbozzo” di
dipinto è tutto nella sua incompiutezza e in quella figura di bambino nudo
retto dal padre fra le braccia che spicca in primo piano. Il dipinto di Nolde,
invece, coglie di spalle il Cristo mentre si piega ad abbracciare un bambino
circondato da una nidiata di loro. Anche qui poche pennellate decise che non
concedono nulla ai canoni di perfezione e di bellezza ai quali i secoli
precedenti ci avevano abituati. Green deve avere sentito queste pitture come
più essenziali e più vere rispetto allo spirito religioso, e il loro afflato
umano in stridente contrasto con la greve e linda atmosfera del museo. Erano
forse l’ordinata disposizione e l’accumulo eccessivo di opere a produrre nello
scrittore francese questo sentimento di ostilità nei confronti dei musei o un
problema di preferenze artistiche? Non si spiegherebbe altrimenti un giudizio tanto
severo per il contenitore; così perentorio da spingerlo fino a paragonarlo
addirittura a un cimitero.
Emil Nolde: Cristo con i pargoli
Si possono
muovere molte critiche ai musei, ma senza la loro istituzione non solo non potremmo
godere della vista di tanti capolavori – molti dei quali sarebbero rimasti
sigillati nelle magioni private di ricchi magnati – ma avrebbero anche corso il
rischio di andare dispersi, non restaurati con fedeltà e rigore filologico, e
persino di finire in mano a trafficanti senza scrupoli. Tuttavia, le parole di
Green contengono un fondo di verità. Ho potuto sperimentare personalmente, e in
varie occasioni, il sentimento di estraneità e di straniamento che deve avere
avvertito lui alla pinacoteca di Essen. Queste mie sensazioni di fastidio si
sono rivelate davanti al gigantismo delle strutture, alla sovrabbondanza eccessiva
di opere presenti nelle sale, allo scintillio dello sfarzo non sempre consono.
Spesso una sola opera ben sistemata, perfettamente illuminata e dalla luce
calda, può affascinarci molto di più di un salone immenso e stracolmo. Musei
più raccolti, più intimi, hanno avuto su di me una presa più profonda rispetto
ad un contenitore sterminato. Nel primo caso l’animo entra in risonanza e
l’occhio si appaga; nel secondo l’animo è divorato dal desiderio spasmodico di
vedere tutto e subito. In questo modo l’occhio si stanca, diventa pigro,
rigetta. E la coscienza, a sua volta, fa fatica a trattenere, a rimanere
lucida. Perché non considerare l’idea di tanti musei più piccoli e diffusi
sull’intera città, invece di costringere i visitatori a ore ed ore di
abbuffate, a resse esagerate, a camminate da sfinimento? Ci sarebbe anche
l’enorme vantaggio della sicurezza in caso di pericolo, oltre ad un minore
impatto di anidride carbonica e di calore. Aspetti, questi, da non trascurare.