Una
grande poetessa del secolo scorso, Vislawa Szymborska, posta davanti al quesito
“piace la poesia?” rispondeva:“A qualcuno piace la poesia. Non a
tutti. E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. Senza contare le scuole,
dove è un obbligo, e i poeti stessi, ce ne saranno forse due su mille. Piace,
ma piace anche la pasta in brodo, piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa, piace averla vinta, piace accarezzare un cane. La
poesia. Ma cos’è la poesia? Più d’una risposta incerta è stata già data in
proposito. Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo, come alla
salvezza di un corrimano”. Un corrimano dunque. Cui aggrapparsi,
soprattutto nei momenti difficili. E quale momento più critico di questo, tra
Covid prima, emergenza climatica, la guerra in Europa e, io aggiungo, un
governo di destra che più di destra non si può. La poesia è l’arte della
Parola. Il logos che crea e che fissa un’idea, un’emozione, un evento e che sa
dare un’anima alle cose. In questi ultimi tre anni mi sono concentrato sul
senso della Parola, dalla Bibbia ai giorni nostri, passando per i grandi poeti,
scrittori, filosofi, pensatori che l’hanno interpretata. Ne ho ricavato un
percorso di grande interesse, e non ho potuto non confrontarmi con quella che,
ai giorni nostri, ho chiamato crisi della Parola.
Szymborska
Osserva acutamente Ivano Dionigi (Benedetta parola, La rivincita del tempo):
“Viviamo in un’epoca di paradossi e ossimori: a fronte della globalizzazione e
del suo profeta Internet reagiamo con un apparato di muri fisici e mentali; a
fronte del web planetario e del maximum dei mezzi di comunicazione
sperimentiamo il minimum della comprensione; a fronte della complessità e
moltiplicazione dei problemi economici, sociali e morali operiamo una riduzione
e un impoverimento del lessico”. Effettivamente viviamo in una società
in cui c’è troppo rumore. Un rumore di fondo continuo, ossessionante. È il
rumore confuso delle televisioni. È quello assordante e particolarmente
disturbante del social. Sono i Tweet, è Facebook, Whatsapp e gli SMS. Un flusso
continuo di parole, ma senza senso e senza costrutto. Rumore, appunto. E noi
abbiamo bisogno di silenzio per recuperare le parole che davvero contano. “Tutte
le parole sono logore e l’uomo non può più usarle”lamentava già il Qoelet
(1,8). E Sant’Agostino: “Noi blateriamo, ma siamo muti”. Stiamo
disimparando l’arte dello scrivere e del parlare. Chi prende più la penna e
scrive, di suo pugno, una lettera? Oggi c’è la mail, e bastano pochi caratteri,
sempre meno caratteri. Se possibile meglio Instagram, un fotogramma, un selfie,
l’odiosissimo selfie, a fermare l’attimo fuggente. A fermarlo? O a fuggire,
esattamente come quell’attimo? Non c’è requie in questo nostro confuso andare,
non c’è ristoro. E anche il lockdown imposto da un evento straordinario come la
pandemia, non è stato occasione di silenzio e riflessione, se non in rari casi,
ma per lo più di mugugni, rancore, insofferenza. Un compagno di strada che ho
imparato a conoscere tardi, David Maria Turoldo, ha scritto così: “Solo parole, o papa: / parole, e di contro /
la irreparabile morte / della Parola. / Le chiese, un frastuono / gli uomini
sempre / più soli / e inutili. / E il cielo è vuoto: / Dio ancor più che morto
/ assente!” E ancora: “Sono le parole strade / di un paese che tu solo / percorri con
l’illusione / di conoscere, e di essere / conosciuto da sempre: / ti camminano
avanti / suoni d’alfabeti prenatali, / luci spaziano come fari / all’orizzonte:
/ tu credi / di andare per liberi campi / invece qui abiterai / per sempre! /
Mai che si giunga al centro! / Tu non sai il gioco / delle circostanze: /
sempre a girare intorno / in girotondo intorno a un fico d’India: / mentre solo
/ batte / il cuore.” Per concludere: “Un male è questa vita / di cui non ci è dato guarire. / E Dio che non
ci dà tregua; / la nostra è una tragedia di sole…”. Dunque: la morte della Parola,
irreparabile; Dio, ancor più che morto, assente; il cuore, batte sempre più
solo; la vita, una tragedia di sole. Da un uomo di fede non ce lo saremmo
aspettato. Ma, forse, non è altro che la voce del Qoelet a parlarci attraverso
la sua voce. E non ce lo nasconde padre Turoldo: “(…) Piove e la notte è cupa, Qoelet, / ma non mi
è dato lasciare / che i tuoi verbi irrompano / uguali a cavalli scalpitanti, a
pariglia. / Un male di cui immune tu sei / di sbarrare loro la corsa m’impone:
/ “tempo di nascere e tempo di morire”? / Nascere anche se morire è fatale! /
Ma nascere chi? e quando, e come? / E morire! / E dopo? / “Tempo di uccidere…”
Turoldo
Ma chi ci salva allora? Dove possiamo
trovare la speranza? La fede in Dio di cui ci parla, alla fine, proprio il Qoelet?
O la fede in Gesù Cristo incarnato e martire, per tutti noi? La troviamo nel
silenzio, oppure nell’umiltà del gesto, nell’arte o nella musica? In che altro?
Forse nella natura, che sa rinnovarsi e mantenere al tempo il suo continuo
fluire? D’Annunzio ce lo ha detto, a modo suo, ne ‘La pioggia del Pineto’: “Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici /
umane, ma odo parole più nuove / che parlano gocce e foglie / lontane”.E ancora, nella
stupenda ‘Sera fiesolana’: “Fresche
le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscio che fan le foglie / del
gelso ne la man di chi le coglie / silenzioso…” La
Natura, dunque, consolatrice, interprete e “voce” del silenzio. Ma non è che,
un’altra volta, ci facciamo prendere dalla suggestione ed è invece la Parola a
dare voce alla Natura? La Parola che anche quando muore torna
a risorgere, come araba fenice. La Parola alta, ovviamente. La Parola detta con
il cuore e il trasporto dell’anima, e la parola scritta, che si fa Poesia.
Proprio come diceva un avatàr:“Una
parola è morta / quando è detta / dicono alcuni. / Io dico che proprio allora /
comincia a vivere”.
Mandel'stam
E
Osip Mandel’stam, il grande poeta russo che alla parola si è dedicato più di
altri, arrivando a conoscere e ad amare la parola di Dante fino a portarla,
fino all’ultimo, dentro il gulag, ha scritto: “Siamonell’era eroica della parola. La parola è carne
e pane. Condivide la sorte del pane e della carne: la sofferenza”.
E, più avanti: “La parola è psiche. La parola viva non
definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel
significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la
parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non
dimenticato”.Del resto, come osserva Gianfranco
Ravasi nella sua Brevestoria dell’anima:“L’infinità dell’anima è legata al lògos che
la abita, vocabolo greco dalle varie iridescenze di significati ma che, quasi
certamente, nel filosofo di Efeso (Eraclito) rimanda al tessuto comune tra uomo e
divinità, quello del pensiero, dell’intuizione razionale, della verità. Proprio
per questa scintilla celeste – ossia per il lògos che emana ed è donato dal
Lògos divino, eterno e infinito – l’anima è senza confini di spazio e di tempo
ed è perciò immortale”.
Marquez
Quel lògos è la parola che crea, che si
fa epos, che dubita e che pensa, che si fa divina e al tempo stesso umana, che
soffre e che urla, che scandaglia e sorprende, fino a farsi ermetica. La Parola
che ha scandito la storia di tutto il genere umano, e che ha saputo eternare
pensieri e ideali, persone semplici oppure eroi. Una parola importante,
essenziale alla nostra vita, come l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo.
Perché, per dirla come in un mirabile passo di Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez:“Quando il padre manifestò allarme per aver
dimenticato anche i fatti più impressionanti della propria infanzia, Aureliano
gli spiegò il suo metodo, e così Arcadio Buendìa lo mise in pratica in tutta la
casa e poi lo impose a tutto il paese: con un pennello intinto nell’inchiostro
segnò il nome su ogni cosa. Tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto,
cassettone. Andò nel cortile e segnò animali e piante: mucca, capra, maiale,
gallina, manioca, banana… A poco a poco, studiando le infinite possibilità
dell’oblio si rese conto che sarebbe potuto arrivare un giorno in cui avrebbero
riconosciuto le cose dalle scritte, ma non si sarebbero ricordati a cosa
servivano. Allora fu più esplicito: il cartello che appese al collo della mucca
era la dimostrazione esemplare di come gli abitanti di Macondo erano pronti a
lottare contro l’oblio. ‘Questa è la mucca, bisogna mungerla tutte le
mattine perché produca il latte, e il latte bisogna bollirlo per mescolarlo col
caffè e fare il caffelatte’. Così continuarono a vivere in una realtà
che sgusciava via, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita
senza rimedio non appena dimenticata la scrittura…”. Ma quando, cessato il rumore, potremo
trovare un po’ di silenzio e, come quattromila anni fa, udremo un uomo, solo,
parlare con dolore alla sua anima:“A
chi parlerò oggi? / I fratelli sono cattivi,/ gli amici di oggi non possono essere amati./ A chi parlerò oggi ? /… Al male che
colpisce la terra / non c’è fine…”
capiremo che la Parola non muore mai, ma di continuo rinasce e si
rinnova, proprio perché: “in principio era la
Parola / e la Parola era presso Dio / e la Parola era Dio. “In principio era la Parola / e la Parola era
presso Dio / e la Parola era Dio”.